Facciamo un passo indietro. Daniele Ughetto Piampaschet, di Giaveno (Torino), 34 anni, è l’uomo che è stato fermato e arrestato dai carabinieri qualche giorno fa per l’omicidio di Anthonia Egbuna, 20 anni, giovane prostituta nigeriana, il cui corpo è stato ritrovato il 26 febbraio scorso vicino a una diga sul fiume Po, a San Mauro Torinese. “Secondo l’accusa sarebbe stato lui a gettarla nel fiume a conclusione di una tormenta relazione”, ha scritto il Corriere della sera nella ricostruzione dei fatti, perché si dà anche il caso che Daniele Ughetto Piampaschet abbia raccontato esattamente la stessa storia nel suo libro “La rosa e il leone” in cui descrive una prostituta nigeriana che ha una relazione con un italiano e che alla fine viene uccisa dall’uomo perché deluso. Per questo Daniele Ughetto Piampaschet è stato fermato e interrogato dal pm Sandro Destito che ne ha chiesto l’arresto “per omicidio volontario premeditato e occultamento di cadavere”. “L’autopsia ha accertato – scrive il Corsera – che il decesso è avvenuto a seguito di numerose e profonde ferite da arma da punta o taglio inferte al capo, al collo e alle mani, alcune delle quali erano, senza alcun dubbio, ferite da difesa. La donna ha lottato per sottrarsi al suo aguzzino che dopo averla uccisa l’ha scaraventata nel fiume. A suo tempo il medico legale aveva accertato che la morte risaliva ad almeno 3-4 settimane prima del ritrovamento del cadavere. E questo ha reso particolarmente laborioso il riconoscimento delle impronte”. Daniele Ughetto Piampaschet era poi partito per Londra, ma è bastato un suo breve rientro in Italia per essere fermato. TM News scrive che “I due si erano conosciuti nel febbraio 2011, iniziando una stretta relazione. L’uomo aveva da tempo una profonda passione per l’Africa, in particolar modo per la Nigeria e per il suo popolo, e frequentava in Italia il mondo della prostituzione nigeriana, tutti elementi che ricorrono nel suo racconto La rosa e il leone”. Per gli investigatori Anthonia Egbuna aveva deciso di troncare con Daniele alla fine di agosto 2011 e in novembre si registra l’ultima conversazione telefonica tra i due. Se questo fosse il movente di questo omicidio, come pare, saremmo dunque davanti a un femminicidio in piena regola (siamo quasi a 100 dall’inizio dell’anno in Italia), dove il presunto assassino avrebbe ucciso la giovane per l’ennesimo “no” della donna che ha scatenato non il raptus, non la passione, ma la violenza omicida dell’uomo che, perso il possesso e il controllo sulla donna (e non su se stesso), l’ha eliminata fisicamente e in maniera cruenta, portandosi l’arma con sé all’incontro.
Sul femminicidio di Egbuna, oltre ai diversi articoli di cronaca, non ha fermato la sua penna il giornalista Camillo Langone, che mesi fa fece già scalpore con un altro articolo – criticato su questo blog – e pubblicato su “Libero”, in cui sosteneva che siccome le donne non fanno più figli perché studiano e vanno a scuola, la cosa si poteva risolvere facendo stare le stesse a casa. Questa volta però Langone sul Foglio fa qualcosa di più: in quattro righe ricalca e sostiene il peggio degli stereotipi riguardo le donne e il corpo femminile. Primo tra tutti – e più grave in un momento in cui in Italia vengono uccise una donna ogni tre giorni – quello del delitto passionale per cui la ragazza, che il giornalista chiama “puttana”, sarebbe stata uccisa “per amore”: un attenuante (come lo era per il delitto d’onore in Italia fino al 1981) per cui Langone chiede che “venga comminata una pena mite perché chiaramente aveva perso la testa”, invocando una preghiera “per tutti noi maschi che al buio non capiamo più niente”. Una carità cristiana nei confronti di un presunto assassino che ha come retroterra culturale l’arcaica convinzione che se un uomo uccide la partner il reato è meno grave e che quindi la violenza all’interno di una relazione intima sia più accettabile. Figuriamoci se poi riguarda delle “puttane” e per giunta “negre”, come le chiama lui.
Forse però Langone ignora che la forma di femminicidio che accomuna tutte le donne del mondo, al di là del colore della pelle e al di là del loro mestiere, è proprio l’uccisione nell’ambito della relazione d’intimità (che è il 70% in Europa). Ignora poi sicuramente che la stessa relatrice speciale dell’Onu, Rashida Manjoo, ha fatto notare a Ginevra – il 25 giugno 2012 durante la 20a sessione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite – “una certa ipocrisia in chi continua a definire gli omicidi basati sul genere come delitti passionali in Occidente e delitti d’onore a Oriente”, in quanto, qualsiasi sia la forma in cui si manifestino, “Non si tratta di incidenti isolati che accadono all’improvviso, inaspettati, ma rappresentano piuttosto l’ultimo atto di un continuum di violenza”. Una ignoranza dei giornalisti che l’Onu sottolinea nel suo “Rapporto tematico sul femminicidio”, condannando i media che spesso, nel riportare delle uccisioni di donne, “hanno perpetuato stereotipi e pregiudizi”, una condanna cui l’articolo di Langone – e non è il solo – non si sottrae ma ne è grave esempio.
Detto ciò, ma non contento, il giornalista sul Foglio conclude la sua preghiera chiamando queste donne “negre” ma anche “battone” e “baldracche”, e sostenendo poi che tu, uomo che perdi la testa per una così di notte, poi te “la porteresti a pranzo nel tuo ristorante abituale? O da tua mamma?”. Non so le sue abitudini personali, ma Camillo Langone è un giornalista e Il Foglio è il giornale che ha pubblicato questo pezzo “di riflessione”, e anche qui (ma non mi stupisco) direttori e caporedattori silenti e quindi consenzienti: forse l’Ordine dei giornalisti potrebbe farsi sentire?
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