Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
sabato 5 gennaio 2013
LOST. - Danilo Arona
Los Roques sono quelle trecento isolette, mai così tristemente famose, al largo del Venezuela, meta quotidiana di vacanzieri che le hanno scoperte soprattutto in rete. A causa della media scarsità di vegetazione le chiamano "le Isole della Luce" e, come recita un'ambigua e un po' sinistra scritta di benvenuto leggibile dall'alto dalle avionetas in fase di atterraggio a Gran Roque, "se credete nel paradiso questo è il vostro posto".
Nel 2004 ho ambientato a Los Roques un frammento di Palo Mayombe, uno dei miei vari romanzi, di certo uno dei miei più intimi e più sofferti. Occorre da parte mia precisare il significato di parole come "intimità" e "sofferenza" a proposito di una creazione letteraria: per me, credo di confessarlo per la prima volta, significa collegarsi con certe zone ultradimensionali (dove regna, appunto, la luce oscura) per mezzo di una channeller che vive e lavora in Bassavilla (e della quale non posso dire nulla) e lasciar aperte le porte a concetti, visioni e presagi che entrano "al di qua".
Quale sia la tecnica non lo so proprio; mi si dice che ogni channeller ha la sua e spesso trattasi d'istinto. Ma sono anche certo che parecchi scrittori operano canalizzazioni senza neppure rendersene conto. Sono sicuro di quel che affermo perché mi ci sono confrontato con parecchi "colleghi": non sono l'unico a connettermi con quei posti, che vanno dal "basso astrale" alle terre d'ombra. Se al momento ci capite poco, pazientate e andate magari a rileggervi Session 9. Più in là, se questa rubrica avrà la fortuna e l'ardire di proseguire, ne capirete di più. Alla fine, però, non avrete capito tutto. C'è gente che certe cose non le comprende neppure dopo la morte.
Torniamo a Palo Mayombe. A pag. 117 uno dei vari "io narranti" (il Cacciatore, un investigatore privato un po' troppo compromesso con le forze del male) dichiara:
E' nella luce, nella luce alla sua massima potenza, forse quando è mezzogiorno, che vivono i demoni più pericolosi. Il fulcro del Palo Mayombe è l'animismo. Non c'è cosa, animata o inanimata, che non possieda il suo spirito. Anche la luce ne possiede uno e, a quanto pare, è il più letale.
Se un demone decide di trasferirsi in un'Isola della Luce, state certi che ogni spirito dell'aria di quel luogo paradisiaco sarà in breve tempo imprigionato nel sacro Nganga. Presto tutto l'arcipelago, cui appartiene la disgraziata isola, sarà invaso da spiriti maligni che, dopo il magico trattamento nel pentolone, vagheranno in lungo e in largo alla ricerca di esseri umani da distruggere. Semplificata in questo modo, la storia fa un po' ridere, me ne rendo conto. Ma gli spiriti vaganti sono tipi comunissimi e molto stronzi, contro i quali si può andare a sbattere in ogni angolo del pianeta.
Lo scrivevo nel 2004 e da parte mia era ovvia e pura fantasia. Il fatto che io debba constatare (oggi) che allora sulla luce di Los Roques non si erano ancora allungate le ombre tragiche del volo Transaven YV2081, quello del 4 gennaio con gli otto italiani scomparsi (dicono in mare), non implica - va da sè - che esistano rapporti reali e fattuali tra Palo Mayombe e i tragici avvenimenti che verranno qui riportati.
Allora, qualcosa era già successo vicino a Los Roques, per la precisione il 2 marzo 1997. Un evento analogo che aveva risucchiato nell'identico nulla degli ultimi scomparsi una coppia di giovani sposi connazionali, Mario Parolo e Teresa De Bellis. Volo Chessna 402 YV784. Mario e Teresa si erano imbarcati più o meno alle dieci del mattino assieme all'avvocato Antonio Anez, rappresentante di Amnesty International, la sua compagna Graciela Lugo e un australiano che si chiamava Robert Wood Bradley. In volo l'aereo ne seguiva altri due della stessa compagnia che effettuavano il medesimo tragitto. Ma a cinque chilometri da Gran Roque, i piloti dei primi Chessna si resero conto che il terzo era scomparso dalla rotta e non rispondeva più alle chiamate radio. Il tenente colonnello Mijares, capo della Divisione ricerca e salvataggio dell'Aeronautica militare del Venezuela, ricostruì le fasi della ricerca. Rodriguez, il pilota, aveva mantenuto il contatto radio fino alle 10:18 senza mai segnalare guasti meccanici o avverse condizioni meteorologiche. Nell'ultima comunicazione aveva indicato la sua posizione: 50 miglia nautiche a nord di Maiquetia, radiale 0.20, altitudine 5.000 piedi. Poi il silenzio.
La mattina del 3 marzo 1997 a 40 miglia a nord di Maiquetia veniva recuperato un cadavere. Quello dell'australiano Robert Wood Bradley. Mostrava la testa fracassata, diverse fratture agli arti, ma nei suoi polmoni non c'era traccia di acqua. Segno che Bradley era morto prima di cadere in mare.
Nessuna traccia del Chessna, tanto che qualcuno iniziava a ipotizzare il sequestro del velivolo: pare che il Chessna volasse sulla rotta dei narcotrafficanti che commerciano con il Centro America, e che quel tipo di apparecchio fosse già stato sequestrato altre volte in passato. Del resto, a bordo dell'aereo, che ha nove posti, avrebbero potuto esserci altri tre passeggeri, ma all'imbarco non era stata fatta alcuna registrazione e non era uindi possibile accertarlo.
Se l'aereo fosse precipitato o esploso in volo, si sarebbero trovati frammenti a pelo d'acqua o, perlomeno, macchie di carburante in mare. Le informazioni che le autorità comunicarono di volta in volta alle famiglie dei dispersi apparvero contraddittorie. Lo testimoniarono gli articoli apparsi sulla stampa locale: El Universal di Caracas il 4 marzo titolava "Recuperato il cadavere del passeggero australiano del piccolo aereo incidentato - L'incidente sarebbe avvenuto molto vicino all'arcipelago Los Roques); e il giorno successivo, "Hanno localizzato a sud-est di Los Roques i resti del piccolo velivolo." Ma il titolo del 14 marzo era molto diverso: "Avioneta desaparecida pudo ser secuestrada - Autoridades comienzan a descartar tesis del accidente" (L'aereo scomparso potrebbe essere stato sequestrato - Le autorità cominciano a scartare la tesi dell'incidente).
Non è una novità, anche se per motivi "turistici", se ne scrive il meno possibile. Ma le "isole della luce" si trovano in una zona in cui sono frequenti sequestri e incidenti aerei. Dal '97 a oggi i voli inghiottiti dal nulla, compreso l'ultimo del 4 gennaio, risultano essere 34.
Per il più recente volo fantasma i fatti sono noti. Spariscono otto italiani, uno svizzero e tre venezuelani. Più i due piloti e, ovvio, l'aereo. Ma il 14 gennaio, al largo dello Stato venezuelano di Falcon, viene ritrovato un cadavere e non lontano (400 mt) il giubbetto salvagente usato dalla compagnia Transaven. Si tratta del cadavere del copilota Osmel Alfredo Avila Otamendi. L'autopsia stabilisce che la causa del decesso è avvenuta per contusioni. Il cadavere mostra lo sterno fracassato, è privo di quattro denti, ha lacerazioni su tutto il corpo e diverse fratture agli arti. Ma nei suoi polmoni non c'è acqua, segno che il copilota è morto prima di cadere in mare. Proprio come nell'incidente del '97. Proprio come l'australiano Robert Wood Bradley. Né quest'ultimo né il pilota dell'avioneta sono morti annegati. Stavano in acqua, ma non sono annegati.
La mia amica channeller sostiene che negli ultimi anni tutti i demoni più pericolosi stanno nella luce e per questo non li vediamo. Sono fatti proprio di "luce oscura", come il casuale titolo della nostra rubrica, e qualcuno ogni tanto sulla Terra, qui e là, riesce a percepirli. Dilagano - dice lei - si moltiplicano e si nutrono della morte delle persone. Si concentrano laddove in ogni mare del modo esistono "isole della luce" e dove la gente si ammassa per tuffarsi nell'acqua e abbronzarsi sulla sabbia.
Lo scrittore che vivacchia in me ne trae ispirazione. Il ricercatore vi si accosta con prudenza. L'uomo, un vecchio frammento residuale di materialismo storico, non vuole crederci. Ma nell'ottobre 2006 una donna italiana, incinta, era stata aggredita nella sua stanza d'albergo a Gran Roque e uccisa a pugni e calci. Demoni o uomini, a volte l'equazione è nulla. Ma da Malindi a Tobago, da Capo Verde a Sagres, "loro" continuano a colpire. "Con discrezione", dice la mia amica channeller, "perché di quegli eventi purtroppo tragici, ma statisticamente nella norma, ci si dimentica quasi subito." Sommersi dal Grande Fratello, dal super-euro e dalle elezioni italiane in stile Alien Versus Predator.
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=4439
Evasione in Svizzera, la più antica banca elvetica paga il conto agli Usa e chiude. - Chiara Merico
Ha due secoli e mezzo di vita la prima vittima eccellente della guerra tra il fisco di Washington e le banche svizzere, accusate di aver aiutato i loro clienti statunitensi a evadere le tasse attraverso un sistema di conti segreti. Wegelin & Co., la più antica banca privata elvetica, ha fatto sapere che chiuderà i battenti: quando era nata, nel 1741, gli Stati Uniti erano ancora una colonia inglese.
L’istituto ha annunciato di voler cessare l’attività poche ore dopo aver ammesso le proprie responsabilità davanti alla corte distrettuale di Manhattan: in base all’accordo di patteggiamento, Wegelin ha accettato di pagare 57,8 milioni di dollari tra multe e risarcimenti, per aver permesso ai suoi clienti americani, tra il 2002 e il 2010, di evadere le tasse su un totale di 1,2 miliardi di dollari di redditi.
Durante il processo, il manager svizzero Otto Bruderer aveva ammesso che la banca “era consapevole di agire scorrettamente” nel momento in cui aveva sottoscritto gli accordi con i clienti americani. Quando a febbraio la banca era stata formalmente incriminata dalla giustizia statunitense e i suoi vertici non si erano presentati davanti alla corte, in pochi si attendevano che la vicenda si concludesse con un accordo, anche se resta ancora aperta la procedura nei confronti dei tre manager Michael Berlinka, Urs Frei e Roger Keller.
Secondo diversi analisti, il processo contro Wegelin rappresenta un punto di svolta nella battaglia che da anni le autorità Usa conducono contro il totem del segreto bancario svizzero. “Non è chiaro se Wegelin sarà costretta a rivelare i nomi dei clienti evasori – ha spiegato alla Reuters l’ex procuratore federale Jeffrey Neiman -. Certo è che il Dipartimento di giustizia sta combattendo duramente le banche straniere che hanno aiutato i cittadini americani a evadere le tasse”.
Wegelin non è la prima banca a finire sotto la lente della giustizia americana per reati fiscali. Nel 2009 era stato il turno del più grande istituto svizzero, Ubs, che aveva patteggiato una multa di 780 milioni di dollari e aveva rivelato i nomi di 4.450 correntisti statunitensi, presunti evasori. Lo scorso luglio Credit Suisse aveva fatto sapere di essere finita sotto indagine, e secondo fonti di stampa anche la Julius Baer di Zurigo, l’inglese HSBC e le israeliane Hapoalim, Bank Leumi e Mizrahi-Tefahot Bank, sarebbero nel mirino dell’Irs (Internal Revenue Service, il fisco americano).
La lotta all’evasione internazionale, è diventata una priorità e le autorità statunitensi sono sempre meno disposte a tollerare scorciatoie di vario genere. Nel caso di Wegelin, la banca svizzera non aveva filiali fuori dalla Confederazione, e per interagire con i clienti statunitensi si serviva degli uffici di Ubs. Il manager Bruderer ha dichiarato in tribunale che per questo motivo Wegelin “non credeva di poter essere incriminata negli Stati Uniti, dato che non possiede uffici in territorio americano e che ha agito secondo le leggi della Confederazione elvetica, seguendo una linea di condotta comune ad altri istituti”. Non è stato così, e ora le regine svizzere del credito iniziano a preoccuparsi.
Marò italiani, spunta la perizia del finto ingegnere targato Casapound. - Luca Pisapia
L’abusata nozione di ‘intelligenza collettiva’ ha trovato in questi due giorni una delle sue più felici applicazioni. Un articolo sulla vicenda della nave Enrica Lexie del giornalista Matteo Miavaldi, ospitato sul blog del collettivo di scrittori Wu Ming, ha scatenato un'’inchiesta collettiva che ha portato alla luce una serie di gravi inesattezze date per buone dai media e dai politici italiani. E soprattutto chiarito il ruolo giocato da alcuni personaggi. Come l’ingegnere Luigi Di Stefano, autore di una perizia difensiva volta a scagionare i due marò, subito rilanciata dai maggiori media italiani e arrivata a essere illustrata in una conferenza presso la Camera dei Deputati il 16 aprile. Peccato che sia emerso come l’ingegnere non solo non è tale, ma è invece sicuramente un dirigente nazionale di CasaPound. E suo figlio Simone, della stessa associazione neofascista, è uno dei fondatori e il candidato alla presidenza della Regione Lazio.
Tutto parte dall’esaustivo articolo di Miavaldi, redattore dall’India di China Files, che peraltro non intendeva entrare nel merito dell’innocenza o della colpevolezza di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, date le evidenti difficoltà d’interpretazione del diritto e delle convenzioni internazionali in materia. Piuttosto era teso a squarciare il velo d’ipocrisia con cui i media e la politica italiana hanno raccontato la storia. E ha aperto un ulteriore squarcio sulla vicenda. Nella discussione sviluppatasi in seguito alla pubblicazione, è infatti intervenuto Di Stefano in persona, che ha riproposto la sua perizia: basata su fotogrammi provenienti da youtube, dai servizi dei telegiornali italiani e su un’intervista rilasciata al settimanale Oggi in cui a parlare è un fantomatico comandante/proprietario del peschereccio, Mr. Freddy Bosco.
Da qui prende spunto l’inchiesta collettiva, dato che di un Mr. Freddy Bosco la rete non offre traccia. Ecco che allora, piccato, l’ingegnere risponde con un curriculum vitae, a suo dire “inappuntabile”, dove dichiara titoli e collaborazioni con atenei che in realtà la controinchiesta scopre essere inesistenti, o non accreditati. Come confermato a ilfattoquotidiano.it dallo stesso Luigi Di Stefano, che ha ammesso di non essere iscritto ad alcun Albo provinciale di ingegneri e di avere conseguito la laurea, che dichiara “un semplice vezzo”, alla Adam Smith University: ente para-universitario per l’apprendimento a distanza e non accreditato. Un curriculum che invece lo certifica come dirigente nazionale e responsabile delle politiche energetiche di CasaPound. A dimostrazione che bastava informarsi su chi fosse il presunto ingegnere e a quali associazioni appartenesse, prima di prendere per oro colato le sue deduzioni.
Sarebbe bastata una ricerca in rete. Ma probabilmente non è stato ritenuto opportuno farlo. Inebriati da cotanto patriottismo ed essendo in così buona compagnia nella difesa a prescindere dei due militari, alla stampa italiana non interessava chi fosse la fonte e da dove attingesse le informazioni. Perché in realtà la situazione è ancora più complessa. Come spiega lo stesso Di Stefano a ilfattoquotidiano.it, per redigere la perizia tecnica, non è andato molto oltre a una ricerca sulla rete: “Non ho mai telefonato in India, le fonti indiane mi sono state rivelate da alcuni giornalisti italiani (cita alcuni quotidiani ndr.) che avevano seguito il caso e avevano le loro fonti”. Quindi a Di Stefano hanno riferito alcune informazioni e diversi dettagli tecnici per l’estensione della famosa perizia gli stessi giornalisti che poi hanno certificato e validato i loro articoli grazie alla sua perizia. “Anche sì – risponde l’interessato -, se poi i dati non sono esatti hanno sbagliato loro”.
Una perizia che tra l’altro non è ripresa solo dalla stampa, ma anche dal Parlamento. E dopo che era già stata presentata proprio a CasaPound (5 aprile) dieci giorni prima di arrivare fino allaconferenza organizzata alla Camera dei Deputati (16 aprile) su invito “di un deputato del PdL di cui non ricordo il nome” dice evasivo Di Stefano. Senza che nessuno avanzasse dubbi sulla sua legittimazione. Solo i Radicali, che hanno posto la questione al ministro Terzi senza ricevere peraltro risposta. Quello che un’inchiesta di due giorni sviluppatasi in rete ha quindi dimostrato è che da più parti, che si tratti della grande stampa o della politica, per mesi in Italia si è dato credito e risalto alle affermazioni di un dirigente della neofascista CasaPound, presentato a torto come ingegnere super partes. E senza nemmeno volere approfondire le fonti. Cosa che è invece riuscita in brevissimo tempo grazie al lavoro di scavo, di ricerca e di condivisione di diverse intelligenze connesse tra loro.
L'articolo di Miavaldi è stato pubblicato ieri su questo blog.
Quando la Cultura fa mercato. E' l'Italia che si muove. - Sergio Di Cori Modigliani
L’augurio per il 2013 al mio paese.
Che cosa fare e dove operare.
“La Cultura fa mercato e crea le condizioni per lo sviluppo economico di una nazione”.
Un’affermazione ovvia, che fino a qualche decennio fa, quantomeno in tutto l’emisfero occidentale, sarebbe stata considerata banale e rozzamente elementare.
Oggi, invece, in Italia è diverso.
E’ considerata una frase priva di Senso compiuto, sia teorico che pratico.
Molti non ne comprendono neppure il Significato.
Il successo –direi un vero e proprio trionfo- che ha ottenuto, negli ultimi venti anni, in Italia, l’ideologia iper-liberista mercatista si fonda sull’ abbattimento della “Cultura delle Imprese” (per sua natura anti-aristocratica) e la ricostituzione della vecchia burocrazia imperiale al posto di quella efficiente manageriale, sullo spostamento dall’economia reale, ovvero la produzione di merci uniche e nazionali, a una economia virtuale sorretta dalla finanza internazionale, disinvestendo quindi dall’innovazione, dalla ricerca e dallo sviluppo culturale. La classe politica si è prestata a questo gioco, mettendosi al servizio degli oligarchi e fornendo il servizio richiesto: i partiti politici si sono trasformati in aziende commerciali di gestione burocratica, sostituendosi alle aziende vere e proprie, costituendo un meccanismo capillare di finanziamento alle imprese attraverso la ricostituzione di un vero e proprio dispositivo di tradizione medioevale: le corporazioni rinascimentali gestite dalle antiche signorie, ovverossia, le fondazioni bancarie. I partiti si sono divisi i posti di comando nelle fondazioni e l’intero sistema industriale italiano ha finito per perdere la possibilità di esercitare alcuna forma di pressione sociale sulla politica, sulle istituzioni, sulla società civile, sullo Stato centrale, rinunciando alla propria funzione nella formazione dell’inconscio collettivo nazionale. Ogni singola fondazione si è occupata di “globalizzare mentalmente” il paese omologandolo agli aspetti più deteriori del consumismo, abbassando quindi il livello della domanda collettiva per poter giustificare l’appiattimento dell’offerta proposta. Essendo guidate da funzionari di partito che in parlamento guidavano il paese, hanno usufruito di continue sovvenzioni da parte dello Stato, restituendo una parte dei soldi in forma di tangente a favore di persone, personalità, enti, associazioni, gruppi, strutture, controllate dai partiti. E’ stata scelta questa forma di sussidio all’italiana, al posto del finanziamento alle aziende per sostenere il loro sviluppo. In tal modo è stato costruito, consapevolmente, un “incartamento” della struttura industriale della nazione che non si è più trovata nelle condizioni di poter essere in grado di produrre merci e prodotti. Le aziende italiane sussidiate dalle fondazioni bancarie/dai partiti/dallo Stato, sono diventate, in realtà, degli “enti astratti” delegati al trasferimento di soldi alla società civile, abbattendo, in questo modo, l’identificazione “Lavoro = Valore”.
E’ nata così “l’imprenditoria italiana” della fine anni’90, una variante folle e surrealista, basata sulla rinuncia al concetto d’impresa, sull’annientamento della cultura d’impresa, sull’inesistenza della concorrenza, sull’inutilità dell’applicazione del concetto di merito e competenza tecnica, perché gran parte delle aziende si è trasformata in “mediatori di un continuo flusso di danaro” di cui i partiti diventavano garanti, con la totale complicità dei sindacati che si sono trasformati in gruppi oggettivi di conservazione di privilegi.
Nello stesso tempo è partito l’attacco alla Cultura, sostenendo anche che fosse inutile… In verità lo era diventata. Da potenza industriale variegata, ricca e policroma, autonoma e indipendente, l’Italia è diventata una gigantesca azienda nel settore terziario.
La struttura industriale italiana (potentissima e dotata di una sofisticata quanto invidiabile cultura) ha cominciato prima a pencolare verso la quantità invece che verso la qualità, e poi ad uniformarsi a concetti standard ideologizzati “nel nome del mercato” dove la concorrenza internazionale ha avuto gioco facile nel massacrare letteralmente la spina dorsale della nazione. “Deculturalizzando la redditività e la produttività” è stato poi un gioco da ragazzi far passare il principio quantitativo al posto di quello qualitativo; comprensibile e giusto per una nazione di 1 miliardo e mezzo di persone senza nessuna tradizione né cultura di mercato, come la Cina; completamente suicida per una nazione di 60 milioni di persone come l’Italia, che negli ultimi 1000 anni era sempre stata all’avanguardia nel produrre Cultura di mercato e quindi anche mercato della Cultura.
Fondamentale, in questo senso, l’opera egregia svolta da Silvio Berlusconi, la persona migliore per riuscire a guidare un processo generale di de-industrializzazione, non essendo lui né un imprenditore né tantomeno un industriale, ma un venditore di pubblicità e uno speculatore, quindi l’individuo migliore per dar vita a un processo generale e collettivo di “idiotizzazione”, ignoranza diffusa, investimento finanziario nella speculazione, caduta generalizzata di valori etici e di rispetto verso lo Stato di Diritto, in modo tale da poterne poi giustificare l’espoliazione sistematica. La Chiesa si è perfettamente inserita in questo trend approfittando di un’occasione unica e irripetibile: la possibilità di riagguantare la Storia, riportando il paese alla situazione precedente all’unità d’Italia, quando l’accesso all’istruzione e alla sanità passava soprattutto attraverso i loro centri di ricerca, le loro ottime università specializzate, i loro ospedali e le loro cliniche ben attrezzate. Ha perfettamente ragione Berlusconi nell’ammonire il Vaticano, come ha fatto dieci giorni fa, ricordando loro “l’enorme generosità dei governi da me presieduti che non hanno mai dimenticato di servire la Chiesa aiutandola in ogni senso e in tutti i campi”. E’ andata proprio così. Ha perfettamente ragione.
La frase di Giulio Tremonti, nel maggio del 2011, “la Cultura, notoriamente non dà da mangiare neanche un panino” è una frase che se fosse stata pronunciata da un ministro dell’economia italiano nel 1983, avrebbe comportato immediatamente le sue dimissioni e un allontanamento dai vertici del suo partito, qualunque esso fosse. Una frase come quella, infatti, nel 1983, in un paese come il nostro, sarebbe stata interpretata come uno slogan delle brigate rosse, nel senso di un vero e proprio attacco al cuore pulsante dello Stato. Perché allora il “prodotto Italia”, ovvero la grande massa di merci italiane che si erano imposte nei decenni dovunque, portando la nazione dal 49esimo posto nel mondo, com’era nel 1945, alla quinta posizione come potenza industriale, com’era nel 1985, ruotava tutta intorno alla imbattibile “qualità culturale delle imprese nazionali”. Valga per tutte la celeberrima frase di Doug Watson, famoso grande industriale americano, pronunciata alla fine degli anni’70, quando entrò furibondo alla riunione del consiglio di amministrazione della sua mega azienda californiana, accompagnato dai suoi assistenti che spingevano una piccola lavatrice -l’ultimo modello commercializzato dalla Zoppas- e dopo aver sgridato tutti e aver annunciato il licenziamento dell’intero management direttivo, diede un pugno sul tavolo e disse: “Ditemi voi come sia possibile che un piccolo paese di cantanti d’opera e di pizzettari sia in grado di fare una lavatrice così potente e così bella come questa, a un prezzo il 20% inferiore alla nostra migliore produzione?”.
Bisogna ripartire da lì.
Il 2013 inizia, in Italia, in piena campagna elettorale.
Il che vuol dire che almeno fino al 24 febbraio non si potrà parlare di nulla di sensato e utile perché saremo, inevitabilmente, oggetto di manipolazione, propaganda, continuo bombardamento mediatico e non. Ogni partito si affannerà a pedinare l’attualità cercando di agguantare il massimo di voti possibili, disponibili al più squallido trasformismo.
Ho letto i programmi di tutti i partiti e della maggior parte di movimenti e liste civiche rappresentati a livello nazionale. Non c’è nessuno che abbia mai menzionato (neppure tangenzialmente) il termine “cultura d’impresa” o “impresa della Cultura”; nei rari casi in cui termini analoghi sono stati impiegati erano inseriti all’interno di una frasetta demagogica perché qualche consulente media avrà ricordato al gruppo dirigente di dedicargli almeno mezza riga.
E’ come se questo paese avesse volontariamente scelto di eliminare la propria migliore e più succosa eredità e avesse deliberatamente scelto di non investire nella più facile e naturale delle vie da seguire: quella già battuta e dimostratasi nei decenni vincente.
Qualunque sia l’appartenenza ideologica degli italiani pensanti, non è realistico poter puntare a una ripresa e uscita dalla crisi se non si ritorna a coniugare la Cultura all’Impresa, come fece l’ingegnere Adriano Olivetti nel 1950 quando diede vita alla rivista “Civiltà delle macchine”, un fondamentale mensile dell’epoca dove si fecero le ossa Calvino, Moravia, Pasolini, Bertolucci, Parise, Morante, Piovene, Ginsburg, Pratolini, Ortese, dando poi vita a un intero settore culturale che sfociò in quella particolare e specifica corrente letteraria dei primi anni’60 che si chiamava “letteratura industriale” di cui Ottiero Ottieri fu il geniale interprete e ideatore, finanziato da Valentino Bompiani.
Senza la Cultura, la “Impresa Italia” non ce la farà a rimettersi in piedi, è bene che la Confindustria se lo metta bene in testa e che gli industriali e imprenditori lo capiscano.
Ma senza le imprese che finanziano gli intellettuali e la Cultura, non sarà possibile neppure rifondare la necessaria nuova classe di liberi intellettuali non più asserviti agli squallidi interessi di bottega dei partiti-azienda, è bene che la Confindustria se lo metta in testa; ed è bene che gli intellettuali e artisti comincino –a loro volta- ad avere il coraggio di voltar le spalle ai partiti-azienda e rivolgersi invece alle aziende e agli imprenditori in cerca di finanziamenti, committenze, per costruire le alleanze necessarie per ricostruire il paese.
E finalmente costruire insieme mercato, quindi lavoro, pertanto sviluppo.
Così era il paese quando funzionava. Sta nelle nostre corde. Sta nella nostra tradizione. Soprattutto appartiene al nostro dna culturale.
Ed è lì che bisogna andare a pescare.
Mentre pensavo a scrivere questo post, cercavo di pescare nella mia memoria un forte ricordo aneddotico da potervi offrire come bel viatico per l’anno che si apre. L’ho cercato nel 2012, e poi nel 2011 e sempre più indietro. Non riuscivo a trovarli. Finalmente mi sono ricordato di un episodio di cui sono stato fortunatissimo e orgoglioso testimone, a metà degli anni’90, prima che l’attuale classe politica decidesse e scegliesse di gestire e pilotare il declino della nazione.
Vi regalo questa mia memoria biografica come passaporto d’augurio per il nostro futuro.
E’ avvenuto a New York, a Manhattan, dove allora risiedevo, nel mese di ottobre, in una giornata di splendido sole e di perfido freddo ventoso. Si celebrava in quei giorni la settimana della moda, in un momento molto particolare perché gli Usa avevano deciso di lanciare New York per far concorrenza a Milano, Parigi e Londra nel campo del pret a porter, degli accessori, del lancio dei trend di massa, nel tessile lavorato. Tra le mie varie attività, allora, c’era quella di editorialista di un bel settimanale edito dalla Rizzoli, “Il Mondo” dove curavo una rubrica di economia e finanza dalla costa occidentale americana. Una delle mie fonti principali era un funzionario dello stato, il responsabile a New York dell’Ice (Istituto per il Commercio con l’Estero) un funzionario di carriera, ormai vicino alla pensione, con 35 anni di carriera alle spalle, tutta costruita all’interno dell’apposito ministero, con promozioni ottenute grazie alla sua competenza, onestà, vastissima cultura del mondo industriale e una notevole intuizione dinamica. Ci eravamo messi d’accordo per una intervista in esclusiva, ma all’ultimo momento aveva rimandato di qualche giorno, e poi rimandato ancora. Pensavo che avesse deciso di non concedermela più, finchè un pomeriggio mi aveva telefonato e mi aveva detto: “Venga domattina nel mio ufficio alle 11.50, così le faccio vedere in esclusiva come entriamo alla grande nel mercato americano. Mi raccomando la puntualità. L’aspetto”. Mi aveva colpito la precisione dell’ora perché non mi risultava che alle 12 ci fosse nessun tipo d’appuntamento o scadenza. Il mattino dopo, siccome dovevo fare delle commissioni in diversi uffici che si trovavano dalle parti del consolato, decisi di uscire un paio d’ore prima per avviarmi verso quella zona. Uscii da casa senza aver letto prima i quotidiani. Mi incamminai a piedi pensando di prendere un taxi ma tutte le vie erano intasate e c’era un traffico impressionante. Mentre camminavo per il marciapiede, a un certo punto vedo uscire da un ricco condominio una donna impellicciata con una bandierina italiana in mano. Trovai il fatto curioso, ma non più di tanto, a New York succede di tutto. Dopo qualche metro vedo uscire da un altro portone due donne, probabilmente madre e figlia, anche loro con due bandierine italiane in mano. La cosa mi colpì. Decisi di lasciar perdere le mie commissioni e data l’impossibilità di muoversi nel traffico pensai di andare all’appuntamento a piedi. Ogni tanto, mentre mi avvicinavo al consolato mi capitava di incontrare delle persone che avevano in mano una bandierina italiana, ma non riuscivo a capire perché e dove stessero andando. Feci una scorciatoia e passai davanti all’ingresso dell’agenzia di modelle Tom Ford, la più famosa all’epoca. Davanti all’ingresso c’erano una decina di modelle vestite di tutto punto con una bandierina italiana in mano. Arrivai all’appuntamento con una decina di minuti di anticipo e il funzionario mi ricevette subito. “Venga venga, andiamo subito di corsa, mi segua, parliamo strada facendo”. Uscimmo dall’ufficio e ci incamminammo a piedi per una via laterale, dopo circa trecento metri entrammo in un edificio attraverso l’ingresso di servizio. Salimmo dentro un enorme montacarichi fino al quarto piano. Era un gigantesco loft, saranno stati almeno 1000 metri quadri, pieni di casse, alcune imballate, altre già aperte con degli impiegati che prendevano il contenuto e lo sistemavano su degli scaffali. Il funzionario mi spiegò che quello era il magazzino dell’Ice e quelle erano le merci delle diverse aziende italiane, suddivise per regioni, che avrebbero dovuto partecipare sia alle sfilate che alla fiera del tessile che si apriva di lì a venti giorni. Attraversammo l’ampio salone e arrivammo a una porticina in fondo, in ferro, una delle uscite di sicurezza. Il funzionario, prima di aprirla, prese un binocolo e me lo porse: “Questo è per lei, così può vedere i dettagli”. Uscimmo fuori, all’aperto, dava su un ballatoio anti incendio. Percorremmo la ringhiera e arrivammo su un piccolo balcone che dava sulla Fifth Avenue, la più importante arteria commerciale del mondo occidentale. Sotto c’era una enorme folla assiepata ai due lati della strada, migliaia e migliaia di persone, soprattutto tante donne, e tantissimi fotografi, tutti con in mano una bandierina italiana che agitavano continuamente. Il funzionario controllò l’orologio e mi disse: “Tra cinque minuti passa”. Mi diede il binocolo per seguire meglio la scena. Guardavo in giro morendo dalla curiosità, perlustrando la folla. E finalmente arrivò il corteo, preceduto da una ventina di carabinieri a cavallo in alta portata, e dopo di loro una limousine decappottabile che procedeva a passo d’uomo tra due ali di folla. Non appena comparve la macchina la gente cominciò a urlare e applaudire. Accanto all’autista che guidava c’era una specie di quadro, con una vecchia cornice, ma il sole ci sbatteva sopra e non riuscivo a distinguere il disegno. Nel sedile di dietro c’erano tre persone. In piedi, con un fazzoletto in mano che sventolava salutando la folla, Luciano Pavarotti. Accanto a lui, seduto e impettito, immobile, Riccardo Muti. Sembrava una statua di sale. Dalla parte opposta, Franco Zeffirelli, accasciato su se stesso, che piangeva senza ritegno. La gente urlava e buttava fiori verso la limousine. Pavarotti li raccoglieva e li ributtava verso la folla. Una scena davvero incredibile. L’automobile attraversò tutta la via, lentamente, fino a Central Park. Un trionfo davvero impressionante. Il funzionario mi fece vedere il New York Times che non avevo ancora letto “Ha visto che roba? Così ci apriamo il mercato, e questa volta, vedrà faremo centro”. Sulla prima pagina –un fatto rarissimo e unico- c’era l’articolo del critico teatrale del giornale. Il titolo era “When Italians bring us to Paradise” (quando gli italiani ci portano in paradiso) ed era la recensione dell’anteprima, che si era svolta due sere prima al Metropolitan, della Turandot di Puccini, per la regia di Zeffirelli e la direzione musicale di Muti, con Pavarotti come tenore. Gli americani erano rimasti totalmente ipnotizzati dalla serata e dalla impressionante ricchezza della messa in scena, con centinaia di metri di tessuto, tutto fatto fare a mano, con dei costumi davvero splendidi. In città non si parlava d’altro. Il giorno dopo, guardando la fotografia sul giornale, mi resi conto che il quadro incorniciato messo accanto all’autista era una immagine del 1920 di Giacomo Puccini. Sull’onda dell’immediato passaparola, in poche ore, il funzionario era riuscito a organizzare questo corteo, facendo spendere al ministero una cifra -per il suo budget- spropositata, dato che aveva fatto chiudere al traffico due chilometri e aveva fatto pagare circa 300 modelle d’alta moda, davvero costose.
Una settimana dopo, il made in Italy, nel campo della moda, sfondava sul mercato di New York. Venti giorni dopo, alla locale fiera del tessile, l’Italia faceva il pieno conquistandosi il mercato nazionale e trascinandosi appresso anche l’industria del mobile e dell’arredamento da cucina di tutta la Regione Marche. In città non si parlava d’altro. Dovunque si andasse, a un vernissage, a parlare con un analista di borsa a Wall Street, con un gallerista, un’ attrice, in una libreria, si parlava soltanto dell’eleganza e del gusto degli italiani. Se uno diceva “io sono italiano” ci si sentiva dire “beato te, che grande fortuna”. L’Ice, nei successivi due mesi, riuscì a strappare commesse che diede lavoro, complessivamente, a circa 15000 nuove imprese dislocate in diverse regioni italiane, dalle passamanerie alle maioliche, dai divani alle cucine, dai jeans alle cravatte, dalle scarpe alle barche. Entrarono nel mercato gli sconosciuti Cavalli, Dolce & Gabbana, Diesel, Tod’s, Bluemarine, e altri 200 marchi consolidati. Incontrai il funzionario di nuovo, un anno dopo, quando offrì una cena per festeggiare il suo pensionamento. Pieno di orgoglio mi disse che quella edizione della Turandot aveva fatto scattare un meccanismo che aveva prodotto un giro d’affari per le imprese italiane che rappresentavano il 7% del pil; tradotto in cifre odierne, parliamo di diverse decine di miliardi di euro.
E tutto ciò provocato da quattro artisti italiani, di cui uno morto più di 80 anni prima. Un toscano, un emiliano e un pugliese.
E secondo Giulio Tremonti “la Cultura notoriamente non dà neppure un panino”.
Questo è il mio augurio per il 2013.
Vorrei sapere che a ottobre di quest’anno, da qualche parte del mondo, potrà accadere la stessa cosa.
Allora, vorrà dire che questa nazione ha ripreso il ruolo che le spetta.
Buon 2013 a tutti.
venerdì 4 gennaio 2013
I "DUE MARO'": QUELLO CHE I MEDIA (E I POLITICI) ITALIANI NON VI HANNO DETTO. - Matteo Miavaldi
[Una delle più farsesche "narrazioni tossiche" degli ultimi tempi è senz'altro quella dei "due Marò" accusati di duplice omicidio in India. Fin dall'inizio della trista vicenda, le destre politiche e mediatiche di questo Paese si sono adoperate a seminare frottole e irrigare il campo con la solita miscela di vittimismo nazionale, provincialismo arrogante e luoghi comuni razzisti.
Il giornalista Matteo Miavaldi è uno dei pochissimi che nei mesi scorsi hanno fatto informazione vera sulla storiaccia. Miavaldi vive in Bengala ed è caporedattore per l'India del sito China Files, specializzato in notizie dal continente asiatico.
A ben vedere, non ha fatto nulla di sovrumano: ha seguito gli sviluppi del caso leggendo in parallelo i resoconti giornalistici italiani e indiani, verificando e approfondendo ogni volta che notava forti discrepanze, cioè sempre. C'è da chiedersi perché quasi nessun altro l'abbia fatto: in fondo, con Internet, non c'è nemmeno bisogno di vivere in India!
Verso Natale, la narrazione tossica ha oltrepassato la soglia dello stomachevole, col presidente della repubblica intento a onorare due persone che comunque sono imputate di aver ammazzato due poveracci (vabbe', di colore...), ma erano e sono celebrate come... eroi nazionali. "Eroi" per aver fatto cosa, esattamente?
Insomma, abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere per Giap una sintesi ragionata e aggiornata dei suoi interventi. L'articolo che segue - corredato da numerosi link che permettono di risalire alle fonti utilizzate - è il più completo scritto sinora sull'argomento.
Ricordiamo che in calce a ogni post di Giap ci sono due link molto utili: uno apre l'impaginazione ottimizzata per la stampa, l'altro converte il post in formato ePub. Buona lettura, su carta o su qualunque dispositivo.
N.B. Cercate di commentare senza fornire appigli per querele. Se dovete parlar male di un politico, un giornalista, un militare, un presidente di qualcosa, fatelo con intelligenza, grazie.
P.S. Grazie a Christian Raimo per la sporcatura romanaccia, cfr. didascalia su casa pau.]
di Matteo Miavaldi
Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei «nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria.
La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali.
E a seguirla da qui, in un villaggio a tre ore da Calcutta, la narrazione dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è stata – andiamo di eufemismi – parziale e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza.
In un articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità assolute, prove della malafede indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei fatti.
E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone.
Intorno alle 16:30 locali si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio.
La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi.
La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane.
La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti.
Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso una guesthouse della CISF (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione.
Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare da Il Giornale, quotidiano che, citando un’amica, «mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra».
Che Il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due motivi:
1) La fidelizzazione dei suoi (e)lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione acritica delle nostre – stavolta sì, nostre – forze armate, impegnate a «difendere la patria e rappresentare l’Italia nel mondo» anche quando, sotto contratto con armatori privati, prestano i loro servizi a difesa di interessi privati.
Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia.
2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni.
Troppo presto per togliere l’appoggio a Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. E’ il tritacarne elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di Delhi.
Qualche esempio di strumentalizzazione?
Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a fare notizia offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale.
Ignazio La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!).
L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane.
LA QUERELLE SULLA POSIZIONE DELLA NAVE E UNA CURIOSA “CONTROPERIZIA”
La prima tesi portata avanti maldestramente dalla diplomazia italiana, puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente.
Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”.
Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India.
Nonostante la confusione causata dal campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana.
La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria.
Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta «zona contigua».
Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione.
A contrastare la versione ufficiale delle autorità indiane – che, ricordiamo, è stata accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte suprema indiana si pronuncerà – è apparsa in rete la ricca controperizia dell’ingegner Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica.
Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani.
Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d.
Non si menziona mai, in tutta la perizia, nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano aveva addirittura presentato il suo lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che fossero disponibili i risultati delle perizie indiane!
In quell’occasione i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: «Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?»
Il lavoro di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo.
Se qualcuno ancora oggi ritiene che una simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana, cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di energie.
UNGHIE SUI VETRI: «NON SONO STATI LORO A SPARARE!»
Altra tesi particolarmente in voga: non sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze, sono stati loro.
Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony.
Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani.
Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony.
Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: «La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo».
I più cocciuti, pur davanti all’ammissione di colpa di De Mistura, citano ora il mistero della Olympic Flair, una nave mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina mercantile greca ha categoricamente escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair.
A questo punto possiamo tranquillamente sostenere che:
1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali;
2) i due marò hanno sparato.
Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione.
Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.
La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.
A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India.
La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro.
Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale.
IMPRECISIONI, DIMENTICANZE, SAGRESTIE E ROMBI DI MOTORI
In oltre 10 mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per «riportare a casa i nostri marò». In un altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato le mancanze più eclatanti. Riprendo qui quell’esposizione.
Descritti come «prigionieri di guerra in terra straniera» o militari italiani «dietro le sbarre», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane.
I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, «dietro le sbarre» non ci sono stati mai.
Un trattamento di lusso accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava Carola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile:
«I due marò del Battaglione San Marco sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine.Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane.
Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio.
La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa.»
In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio.
L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidianoTehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori.
Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di «una donazione», di «un atto di generosità slegato dal processo».
Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa.
Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori.
Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano, è inammissibile.»
Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo-Il Giornale-Ferrari, in poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il non-caso dei marò che in India, dopo 8 mesi dall’incidente, era stato ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico.
Rispondendo all’appello de Il Giornale ed alle «migliaia di lettere» che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava:
«[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.»La replica seccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: «Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo.»
Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che «testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò», la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina «non ha e non vuole avere alcuna valenza politica.»
In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente «dietro le sbarre» - è continuato imperterrito con toni a metà tra un romanzo di Dickens e una sagra di paese.
Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che «i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro.»
L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani sparse in tutto il Paese.
Ma è lecito pensare che la mossa mediatica, ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone, bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di “informare” preferendo istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a capire e pensare con la propria testa.
PARLARE A CHI SI TAPPA LE ORECCHIE
In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti. Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere «come un fogliaccio del Kerala»; quando abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto «L’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi diventa arrogante. Da nuclearizzare!»; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in Italia (come la memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con le mani e si guadagna le copertine indiane come “Eroe”) ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto che, a differenza di molti, noi in India ci abitiamo davvero.
Quando tutta questa vicenda verrà archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo – in Italia o in India, speriamo che sia giusto – sarà bene ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato.
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=11293
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