Secondo il parere espresso da Enrico Mentana nella sua maratona pomeridiana, circondato dai soliti discussant che la pensano tutti allo stesso modo (ossia il mantra “Conte deve andarsene”, caro a sovranisti e confindustriali), le dichiarazioni rilasciate da Matteo Renzi dopo il suo colloquio con il presidente Mattarella “ponevano importanti questioni politiche”. Di quali si trattino non è dato sapere.
In effetti Matteo D’Arabia ha continuato ad arrampicarsi sugli specchi sforando pervicacemente il timing quirinalizio, nel disperato quanto inutile tentativo di dare una patina di decenza a un puro capriccio: conquistare ancora una volta la luce dei riflettori, prima di finire nell’inevitabile dimenticatoio; il ripostiglio dove una gozzaniana nonna Speranza accatasterebbe le inutili “cose di pessimo gusto” che disturbano oltremodo il presidente di suo nipote, il ministro Roberto.
Quel pessimo gusto renziano (apprezzare l’eufemismo!) tradotto nell’inqualificabile tentativo di accreditarsi quale depositario unico dell’attenzione ai punti di crisi dello scenario contemporaneo, virati a innesco per la messa in mora del governo: dagli assetti mediorientali (e Conte non era attento ai rapporti di potere che si determinano in Libia…) ai nuovi equilibri geopolitici creati dalle vie della seta (e Conte non era presente ai dialoghi di Merkel e Macron con i cinesi…). Come se le buone pratiche della politica in tempo di pandemia fossero quelle di avviare una discussione sui massimi sistemi. Tipo il neo-rinascimento arabo teorizzato in speach milionari a Ryad.
Ciò che Antonio Gramsci definiva ironicamente “alcuni cenni sull’universo”. Soprattutto promossi da chi è stato (ahinoi) perfino un presidente del Consiglio. Ma che all’epoca preferì interessarsi di cose assai più terra, terra: dallo scimmiottamento della Terza Via NeoLib alla Blair con vent’anni di ritardo (la pietra filosofale dello sbaraccamento di ogni forma di solidarietà per lasciare campo libero all’individualismo avido e rampante), al sottoporre a referendum una riforma istituzionale peregrina, centrata sulla banalità che i problemi si risolvono solo se non si disturba il manovratore e si elimina ogni forma di controlli e contrappesi.
Del resto, perseverando in questo benaltrismo strumentale mordi-e-fuggi, i motivi addotti per lo sgambetto al premier, che precipita l’intero Paese in un ginepraio inestricabile, sono un acrobatico esercizio di pretestuosità; specie considerata la situazione di stallo in cui ci troviamo per via di un virus assassino, di cui solo ora incominciamo a definire i connotati: non si è risolto il problema di dare un futuro alle nuove generazioni… non è stata affrontata la crisi strutturale della disoccupazione… si è scelta la strada dei sussidi invece che degli investimenti… Tutti temi trascurati da decenni ma – ovviamente – affrontabilissimi proprio ora; mentre i decessi raggiungono quota 85mila e gli impoverimenti impongono interventi d’urgenza di pura sopravvivenza.
Ma figuriamoci! Molto meglio arrampicarsi sugli specchi, in una fuga nell’irreale per dare dignità alle proprie più indegne ansie da protagonismo. Cui forniva il solito contributo di terrorismo verbale la fida Teresa Bellanova, rincarando la dose: il governo Conte non ha affrontato la crisi del turismo… Tipica priorità di intervento in un paese rinchiuso in casa per le inevitabili pratiche del distanziamento sociale.
Come già detto altre volte, in qualche misura Giuseppe Conte ha contribuito ad accreditare questo folle gioco al massacro, evidenziando alcuni limiti del suo profilo di statista: eccellente mediatore e negoziatore europeo, il nostro pacato e rassicurante uomo di legge non è anche un costruttore; quello che gli americani chiamano “builder”. Difatti è andato benissimo nella prima fase della pandemia; mentre adesso evidenzia difficoltà nel fornire indirizzi strategici per il governo dell’opportunità Next Generation.
Ma – domandiamoci – dove sono i builder nel panorama politico (e pure managerial-industriale) di questa Italia negata al progettare/innovare/pianificare/implementare? In questa fauna parlamentare di fancazzisti e chiacchieroni, che in vita loro non hanno gestito neppure un banchetto di frutta e verdura? Dove le vestali dell’efficienza e dell’operatività sono due inveterati parolai di nome Matteo Renzi e Carlo Calenda?
Lui, il Renzi, è, in effetti un builder... vuole costruire il ponte di Messina, non importa, poi, se chi arriva a Messina trova strade dissestate e ferrovie fatiscenti. La solita politica del fare senza pensare. Lui che ha ceduto il nostro mare toscano, quello dell'isola Capraia, alla Francia, che ha distrutto scuola, lavoro e sanità e che ora, pur di mettere le mani sui soldoni dell'Europa, dice di voler migliorare il lavoro, la scuola e la sanità.
Lui, insulso, incosciente, pressappochista, egocentrico, vanesio...