Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 16 dicembre 2010
Il furore epistolare di Bondi «Cari compagni, non sfiduciatemi»
Scilipoti, «collegamenti con la 'ndrangheta»
Questi sono i “Collegamenti intercorsi tra Scilipoti Domenico, classe ’57, il quale ricoprirà nel 2002, seppur per breve tempo, anche l’incarico di Assessore Comunale al Bilancio nella giunta Nicolò, con personaggi appartenenti ad una delle più importanti cosche della provincia di Reggio Calabria”.
Questo si legge di Scilipoti, oggi uomo decisivo per il governo, nella relazione che porterà allo scioglimento del Comune di cui è consigliere, per infiltrazioni mafiose, ma che non vedrà conseguenze penali per l’ex Idv.
La Storia dello scioglimento. Il Comune è lo stesso di Adolfo Parmaliana, segretario cittadino Ds, morto suicida perché soffocato dal vuoto in cui viveva in territorio mafioso. E lo diceva e lo chiedeva a gran voce Parmaliana: “Terme Vigliatore ha un consiglio comunale oggetto di infiltrazioni mafiose”.
Il professore di chimica dell’Università di Messina, lo aveva denunciato ed era stato ascoltato. Così si formava una commissione prefettizia presieduta dal viceprefetto Antonino Contarino che avrebbe indagato sulle denunce di Parmaliana. In quel consiglio comunale si muoveva Mimmo Scilipoti, l’ex deputato dell’Idv, oggi arruolato da Berlusconi. Un canciabannera, si dice così dalle sue parti. Cambia bandiera, ovvero voltagabbana, dove le bandiere non sono poche e le parti sono le direttissime vicinanze di Barcellona Pozzo di Gotto: “la Corleone del XXI secolo”, così l’ha definita la commissione nazionale antimafia.
Le bandiere. Dal Fuan, dove nasce la sua attività politica al tempo degli studi di medicina, alla socialdemocrazia, bandiera che veste già medico, vicino a Dino Madauda. E poi l’Idv, timbro col quale entrerà in quel consiglio comunale indagato dalla commissione prefettizia. Fino ad oggi, esponente del neo Movimento per la responsabilità nazionale.
Il territorio. L’informativa Tsunami, ovvero l’informativa che ancora inquieta la magistratura barcellonese e messinese, al vaglio, per competenza, della Procura di Reggio Calabria. La stessa che arrivò sul tavolo di Francesco Pignatone dopo il suicidio di Parmaliana. Perché fu proprio Parmaliana, con quell’estremo j’accuse, a segnalare ancora l’insabbiamento di Tsunami. In quella si leggono i nomi dei “personaggi” - titolo del capitolo dell’informativa – interessati dalle indagine dei carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto, allora capitanati da Domenico Cristaldi, autori di Tsunami.
Tra i nomi anche quello di Scilipoti, e così scrivono i carabinieri: “gli elementi a loro carico sono al vaglio della Commissione Prefettizia che, per avere fino a questo momento accertato una mole di irregolarità superiore a quella già enorme paventata in sede proposta, ha ottenuto ulteriori 50 giorni di tempo, per potere relazionare lo stato di sconquasso in cui versa il Comune di Terme Vigliatore”.
Sconquasso che porterà il 23 dicembre del 2005 allo scioglimento del consiglio di Terme per “ingerenze della criminalità organizzata”, con decreto firmato dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Due anni di commissariamento. Aveva gridato al successo Parmaliana, aveva scritto dei volantini: “Giustizia è stata fatta: la legalità ha vinto! Tanti dovrebbero scappare… se avessero dignità”. Domenico Munafò, allora Vicesindaco, lo aveva denunciato per diffamazione, per quel volantino. Alle elezioni successive, giugno 2008, Terme Vigliatore eleggeva 11 dei 15 componenti presenti nella vecchia amministrazione, quella sciolta da Ciampi. Alle Regionali, invece, Scilipoti inseriva – da segretario provinciale dell’Idv di Messina – nella lista di candidati Carmelo Munafò, cognato di Nunziato Siracusa, oggi in carcere per mafia, riconducibile alla cosca di Terme Vigliatore, costola dell’organizzazione mafiosa di Barcellona pozzo di Gotto.
Parmaliana, invece, nell’estate del 2008 sarebbe stato rinviato a giudizio. E il 2 ottobre successivo, si sarebbe tolto la vita.
Fini contro la prassi per fare la storia. - di Marco Travaglio e Peter Gomez.
L’esecutivo del “miglior premier degli ultimi 150 anni” è infatti morto da un pezzo. E sarebbe già sepolto se Fini non si fosse fatto convincere, per un eccesso di responsabilità istituzionale, dal capo dello Stato che un mese fa gli chiese di rinviare il voto sulla mozione di sfiducia alla Camera al 14 dicembre, dando così il tempo al Presidente del Consiglio di indire l’asta per gli onorevoli mancanti.
Ma forse è meglio così: la tragicomica e corrotta sfiducia di domani è una buona occasione, forse l’ultima, per indurre mezza Italia a riflettere su se stessa.
Come hanno potuto milioni di cittadini votare per uno come Berlusconi, quand’era chiaro fin dall’inizio che lui era sceso in campo solo per farsi gli affari suoi? Come hanno potuto interi plotoni di giornalisti e intellettuali spacciarlo per il campione della “rivoluzione liberale”, mentre lui brigava notte e giorno, nelle ore lasciate libere dalle ragazze a pagamento, per scampare ai suoi processi e arraffare milioni? Come ha potuto l’opposizione, salvo rare eccezioni, glissare sul conflitto d’interessi che, proprio in questi giorni, ha esplicato la sua geometrica potenza con l’intero gruppo Mediaset impegnato a offrire carote ai consenzienti e a minacciare bastoni ai dissenzienti?
Sabato, durante la manifestazione del Pd, nessuno ha osato ricordare la verità: e cioè che il premier è abbarbicato disperatamente non al governo, ma all’annesso legittimo impedimento per sfuggire ai tribunali e alla giustizia. Così, sia pure con sedici anni di ritardo, l’ha dovuto fare Fini.
Domani Fini, da presidente della Camera, sarà costretto ad astenersi come vuole la prassi. Ma, se il pannello luminoso di Montecitorio segnasse il pareggio, Fini deve pensare una cosa. Una possibilità ancora ce l’ha. Quella di dimettersi e votare contro il premier. Perderebbe la poltrona, certo. Ma con la sua sfiducia farebbe davvero la storia.
Peter Gomez e Marco Travaglio
mercoledì 15 dicembre 2010
PD, il partito che non c'è.
Saranno contenti i delatori di Di Pietro e Grillo, gli unici che non gliele mandano a dire, ma gliele dicono proprio, o che ci informano.
Questi delatori, spregevoli sostenitori del PD, il partito che non sa dove e come collocarsi, che ha perso la sua identità, che si è dissociato da tutti e tutto, che ha permesso che un "conflitto di interessi" approdasse sullo scranno più alto in parlamento, hanno regalato la vittoria ad un piduista.
Che differenza c'è tra loro e i mercenari della politica?
Entrambi contribuiscono a mantenere una situazione incerta, destabilizzante.
Io non so dove il PD voglia approdare, di una cosa sono certa, debbono ritrovare se stessi, si sono persi in un oceano di forse, ma, se.
Vi sono troppi comandanti, e nessuno di questi vuole sacrificarsi per designare, finalmente, un capo carismatico con un carattere forte, un condottiero che riporti la sinistra a riguadagnare la credibilità ed il rispetto che merita un partito di sinistra, quella che protegge i lavoratori che sono, poi, l'unico e vero sostegno di una nazione.
Che vadano a fare in cu...o i vari Fassino, D'Alema, Franceschini e Bersani stesso: gli manca il carisma perchè abbarbicati al loro potere o perchè senza carattere.
Io sento di appartenere alla ideologia di sinistra, ma non mi sento più rappresentata da questa sinistra composta da padroni assoluti e sempiterni, mi manca il terreno sotto i piedi e, conscia del fatto che il mio voto può fare la differenza, voto il meno marcio o chi, almeno, dice pubblicamente ciò che anch'io direi.
Meglio Di Pietro, Grillo, Vendola che, con tutti i difetti possibili riscontrabili in comuni esseri umani, sono ancora gli unici che mi ispirano fiducia.
Un giorno buio. - Antonio Padellaro.
Tre membri del Parlamento, transfughi dal centrosinistra, che attendono l’ultimo momento dell’ultima conta nell’aula di Montecitorio per far valere il peso decisivo del loro sì al governo. Così che il presidente del Consiglio possa misurarne il cospicuo valore (in tutti sensi), e generosamente ricambiare.
Intanto, non lontano dal Palazzo sordi boati annunciano battaglia. Dalla gigantesca e pacifica manifestazione degli studenti si staccano le nutrite milizie della guerriglia urbana e si scontrano con la polizia in tenuta antisommossa (che, quasi impreparata a sostenere l’urto, reagisce con altrettanta violenza). Per ore, nel centro della Capitale, scene come non si vedevano dalla fine degli anni Settanta, dagli anni di piombo appunto.
Chiariamo subito. Nessuna indulgenza con chi fracassa, devasta e appicca incendi. Ma qualcosa deve farci riflettere. C’è una rabbia generazionale che sta attraversando l’Europa: Atene, Londra e adesso Roma. Una reazione alle politiche restrittive dei governi che viene da lontano, ma che diventa furiosa davanti alla ottusa indifferenza delle cosiddette classi dirigenti, concentrate solo sull’autoconservazione del potere. La rivolta era probabilmente premeditata, ma la scintilla scocca quando dalla Camera giunge notizia della fiducia strappata per un pugno di voti e con un pugno alla decenza.
Lo schifo per una politica che si prostituisce a chi offre di più non può essere un alibi per i teppisti, ma spiega una realtà. L’Italia è attraversata da fortissime tensioni (sociali, umane) che le masse studentesche interpretano con la mutevolezza dei vent’anni. E se la finta allegria dei cortei si trasfigura nell’odio e se il sorriso nel grido, le ferme condanne servono a poco. Qualcuno pensa davvero di rispondere all’emergenza di un paese che ha sempre meno soldi e tanto meno futuro con un governo incapace, con una maggioranza raccattata, con un premier impresentabile? La prossima volta chi manderanno incontro alle masse sempre più incazzate? Scilipoti?