E se la soluzione del problema greco, almeno in parte, risiedesse in Svizzera? In particolare nei forzieri delle sue banche? Georges Papandreou, il premier, ha annunciato il discusso referendum sul piano di aiuti, approvato nella notte dal suo Governo. Ma in parallelo continua una delicata e riservata trattativa con l’Esecutivo elvetico per tassare gli ingenti depositi dei ricchi greci in terra svizzera.
Non stiamo parlando di poca cosa. Secondo Atene si tratterebbe di una fuga di capitali di 280 miliardi di euro, depositati proprio negli istituti della Confederazione. Di recente, l’edizione tedesca del Financial Times ha indicato, invece, una stima di 165. Le cifre variano. Ma questo è l’ordine di grandezza. Che appare spropositato se si calcola che di capitali tedeschi nelle banche elvetiche ce ne sarebbero per un valore di 230 miliardi. Eppure gli esperti del settore indicano valori di quel calibro (in media fra i 150 e i 200 miliardi) per i depositi greci in Svizzera, giustificandoli con la propensione (e non da ora) dei milionari del Paese, adesso sull’orlo del default, a «esportare» i propri soldi e a cercare in ogni modo (anche in patria) di non pagare le tasse. La tendenza, fra l’altro, si è accelerata negli ultimi tempi: solo nel 2010 hanno preso la via dell’estero 35 miliardi di depositi.
Sempre per contestualizzare questi numeri, basti ricordare che il debito greco ammonta a 350 miliardi. E che lo sforzo complessivo europeo di ricapitalizzazione appena chiesto alle banche europee supera di poco i 100 miliardi. Insomma, il recupero a livello fiscale dei capitali fuggiti non sarebbe un elemento marginale nel tentativo disperato di Atene di evitare la bancarotta. Da tempo il negoziato con Berna va avanti. Giovedì scorso si è tenuto nella capitale elvetica l’ultimo incontro fra Ilias Plaskovitis, sottosegretario alle Finanze, e Michael Ambuhe, il suo equivalente svizzero. L’obiettivo è arrivare a un’intesa come quelle già raggiunte dalla Confederazione con la Germania e con il Regno Unito. E’ il cosiddetto meccanismo Rubik: in sostanza gli svizzeri applicano un prelievo “liberatorio” sui capitali provenienti da un determinato Paese e lo consegnano alle sue autorità fiscali, senza l’obbligo di comunicare i nomi dei titolari dei conti. E’ una soluzione ipocrita, ma pragmatica del problema, che l’Unione europea non vede di buon occhio e che la Francia ha già espressamente rifiutato (quanto all’Italia, la possibilità, emersa a un certo momento, è stata poi accantonata). Sta di fatto che l’aliquota decisa nel caso della Germania è del 26,375%, applicata sui 230 miliardi di depositi tedeschi. Non sono noccioline.
Papandreou sta spingendo molto su questo accordo. E le voci che circolano negli ultimi giorni fra Grecia e Svizzera indicano che la trattativa sarebbe a buon punto. Ma il vice-premier ellenico Evangelos Venizelos ha messo di recente le mani avanti: “Bisognerà poi che il nostro Parlamento sia pronto ad accettare tale accordo come l’hanno già fatto in Germania e nel Regno Unito”. Il problema è che, apparentemente, gli evasori sono ben rappresentati anche sugli scanni dell’aula parlamentare del Paese ellenico.
Non stiamo parlando di poca cosa. Secondo Atene si tratterebbe di una fuga di capitali di 280 miliardi di euro, depositati proprio negli istituti della Confederazione. Di recente, l’edizione tedesca del Financial Times ha indicato, invece, una stima di 165. Le cifre variano. Ma questo è l’ordine di grandezza. Che appare spropositato se si calcola che di capitali tedeschi nelle banche elvetiche ce ne sarebbero per un valore di 230 miliardi. Eppure gli esperti del settore indicano valori di quel calibro (in media fra i 150 e i 200 miliardi) per i depositi greci in Svizzera, giustificandoli con la propensione (e non da ora) dei milionari del Paese, adesso sull’orlo del default, a «esportare» i propri soldi e a cercare in ogni modo (anche in patria) di non pagare le tasse. La tendenza, fra l’altro, si è accelerata negli ultimi tempi: solo nel 2010 hanno preso la via dell’estero 35 miliardi di depositi.
Sempre per contestualizzare questi numeri, basti ricordare che il debito greco ammonta a 350 miliardi. E che lo sforzo complessivo europeo di ricapitalizzazione appena chiesto alle banche europee supera di poco i 100 miliardi. Insomma, il recupero a livello fiscale dei capitali fuggiti non sarebbe un elemento marginale nel tentativo disperato di Atene di evitare la bancarotta. Da tempo il negoziato con Berna va avanti. Giovedì scorso si è tenuto nella capitale elvetica l’ultimo incontro fra Ilias Plaskovitis, sottosegretario alle Finanze, e Michael Ambuhe, il suo equivalente svizzero. L’obiettivo è arrivare a un’intesa come quelle già raggiunte dalla Confederazione con la Germania e con il Regno Unito. E’ il cosiddetto meccanismo Rubik: in sostanza gli svizzeri applicano un prelievo “liberatorio” sui capitali provenienti da un determinato Paese e lo consegnano alle sue autorità fiscali, senza l’obbligo di comunicare i nomi dei titolari dei conti. E’ una soluzione ipocrita, ma pragmatica del problema, che l’Unione europea non vede di buon occhio e che la Francia ha già espressamente rifiutato (quanto all’Italia, la possibilità, emersa a un certo momento, è stata poi accantonata). Sta di fatto che l’aliquota decisa nel caso della Germania è del 26,375%, applicata sui 230 miliardi di depositi tedeschi. Non sono noccioline.
Papandreou sta spingendo molto su questo accordo. E le voci che circolano negli ultimi giorni fra Grecia e Svizzera indicano che la trattativa sarebbe a buon punto. Ma il vice-premier ellenico Evangelos Venizelos ha messo di recente le mani avanti: “Bisognerà poi che il nostro Parlamento sia pronto ad accettare tale accordo come l’hanno già fatto in Germania e nel Regno Unito”. Il problema è che, apparentemente, gli evasori sono ben rappresentati anche sugli scanni dell’aula parlamentare del Paese ellenico.