mercoledì 9 ottobre 2013

Università, classifica migliori atenei del mondo: “Italia fuori dalle prime duecento”. - Luigi Spera

Università, classifica migliori atenei del mondo: “Italia fuori dalle prime duecento”


Secondo il Times Higher Education University Ranking, la società britannica che ogni anno stila la lista delle realtà più qualificate, il nostro Paese non è all'altezza di molti degli standard internazionali. Prima Trento in posizione 221, seguono a scendere Milano Bicocca e Bologna.

Insegnamento, ricerca, citazioni, contributo all’innovazione e prospettiva internazionale: questi i cinque principali parametri per giudicare l’importanza e la qualità di una università. E dall’indagine scientifica sui dati raccolti proprio all’interno di questa macro-aree, la società britannica “Times Higher Education University Ranking”, ogni anno stila la sua classifica dei migliori atenei del mondo. Una graduatoria di 400 istituzioni accademiche che condanna l’Italia a un ruolo di quasi assenza in tema di formazione universitaria. Nel ranking relativo agli anni 2013-2014, che nei primi 10 posti conta ben otto università statunitensi e due britanniche, gli atenei italiani ne escono con le ossa rotte. Prima classificata l’università di Trento. Ma per incontrarla bisogna scendere fino alla posizione 221. Un numero inclemente che non dovrebbe però sorprendere quanti quotidianamente denunciano il ritardo italiano in quest’ambito e la profonda incapacità nel migliorare gli standard, soprattutto in termini di contributo all’innovazione e ricerca. Voce quest’ultima che negli ultimi anni ha conosciuto solo feroci tagli. Il declino italiano è evidente: solo 15 gli atenei presenti nelle prime 400 posizioni.
Prima dunque, è l’Università di Trento, al 221° posto, che segna un discreto avanzamento rispetto al 274° dell’anno precedente. Seconda in classifica l’Università di Milano-Bicocca: 235° posto, in progressione rispetto al 262° posto del 2012-2013. Università di Trieste è al 245° posto, anche questa in risalita rispetto al precedente 272°. Università di Torino si piazza al 247° posto, meglio del 275° dell’anno precedente. Exploit dell’Università di Pavia oggi al 270° posto in netta risalita dal precedente 329°. Cresce anche l’Università di Bologna al 278° rispetto al precedente 282°. Chi scende è invece l’Università di Milano che si ferma al 289°, in calo rispetto al precedente 261° posto. Meglio va il Politecnico di Milano che risale al 292° dal 331° occupato l’anno precedente. Università di Padova scende al 333° posto, non molto distante dal 328° del 2012-2013. Università di Pisa: 334°, segna una lieve flessione rispetto al 330° raggiunto in precedenza. Migliora invece l’Università del Salento che arriva al 335, molto meglio del 384° dell’anno prima. Cambia poco a distanza di un anno la situazione dell’Università di Roma La Sapienza: 336°, due posizioni più giù rispetto al precedente 334°. Rientra dopo un ‘giro’ di sosta fuori della top 400, l’Università di Bari al 351° posto. Università di Ferrara si piazza 357° rispetto al 360° Posto dell’anno precedente. Chiude l’Università di Firenze al 358° posto, un crollo rispetto alla 282° posizione occupata nel 2013-2014.
A condannare gli atenei italiani è anche la particolare formula utilizzata per una valutazione scientifica e i parametri utilizzati. I criteri muovono lungo delle direttrici principali che rappresentano le missioni fondamentali delle università: l’insegnamento, la ricerca, il trasferimento di conoscenze e la visione internazionale. Tredici gli indicatori di performance, raggruppati in cinque aree. L’insegnamento, valuta l’ambiente di apprendimento e rappresenta il 30 per cento del punteggio della classifica generale. In questa categoria si impiegano cinque indicatori di performance. Seconda macro-area quella relativa alla ricerca. Anche questa categoria che rappresenta il 30 per cento del totale si compone di tre indicatori. Il più importante, con un coefficiente del 18 per cento, riguarda la reputazione di una università in quell’ambito. Ma cruciale per lo sviluppo della ricerca di livello mondiale è pure il reddito. È dai fondi investiti che dipende gran parte della ‘concorrenza’ e dei risultati. Questa voce ha un valore del 6%. Tanto quanto il volume: la misura di quanti articoli sono pubblicati nelle riviste accademiche indicizzate. Collegata in un certo senso a questa voce, anche quella relativa alle citazioni: vale da solo il 30% del totale e guarda al ruolo delle università nella diffusione di nuove conoscenze e idee. Molto importante è anche l’area della Prospettiva internazionale, che divide il coefficiente del 7,5% tra le voci persone e ricerca. Questa categoria analizza la diversità nel campus la capacità degli accademici di collaborare con i colleghi internazionali su progetti di ricerca. La capacità poi di una università di attrarre studenti e laureati provenienti da tutto il pianeta è la chiave per il suo successo. Ultima voce, quella relativa al reddito di settore, che misura la capacità di un universitario di aiutare l’industria con innovazioni. Missione ritenuta fondamentale nello scenario mondiale.
Scorrendo la classifica, salta subito all’occhio lo strapotere anglosassone: non solo Stati Uniti, ma anche Gran Bretagna, Canada e Australia. Ciò che emerge chiaramente però è la presenza di molte università, sebbene non nei primissimi posti, di paesi come Cina, India, Hong Kong, Sud Corea e altri giganti asiatici. Paesi dove forte è l’investimento sulla ricerca e il reddito di settore, cioè l’interazione tra università a aziende. Nelle nazioni in via di sviluppo questo rapporto è molto stretto. Spesso poi le università hanno corsi in inglese e possono attrarre anche insegnanti di facoltose università anglosassoni. Tutto ciò che di fatto manca all’Italia, così come ad altri paesi d’Europa come Francia e Spagna. Ex potenze destinate a cedere il passo anche sulla cultura.

Diego Fusaro a Piazza Pulita.


PiazzaPulita_Diego Fusaro_intervento da... di skorpion-05

Diego Fusaro 

http://www.dailymotion.com/video/x15o2jt_piazzapulita-diego-fusaro-intervento-da-standing-ovation-7-10-2013_news?start=3

Pandanus tectorius - Hala fruit.



Pandanus tectorius Parkinson ex Zucc. è una pianta della famiglia Pandanaceae.
Il suo areale si estende dal sudest asiatico, dalle Filippine e dall'Indonesia, ad est attraverso Papua Nuova Guinea e l'Australia settentrionale, coprendo la gran parte delle isole dell'oceano Pacifico, incluse la Melanesia (Isole SalomoneVanuatuNuova Caledonia e Isole Figi), la Micronesia e la Polinesia(Wallis e FutunaTokelauSamoaTongaNiueisole CookPolinesia francese e isole Hawaii).[2]
Presso alcune popolazioni tribali del Bangladesh, le foglie di P. tectorius sono usate come lassativo e per trattare le malattie da raffreddamento e lavaricella[5].
Nella medicina popolare hawaiiana, il polline, i fiori, le foglie e le radici di P. tectorius trovano svariati impieghi: nel trattamento della scrofula, delle infiammazioni cutanee e delle ferite, nella costipazione, nelle infezioni urinarie[6][7].
Nelle Filippine, un decotto di radici di P. tectorius è tradizionalmente utilizzato come diuretico. Decotti di foglie sono invece utilizzati per il mal di testa, i dolori reumatici ed il mal di stomaco. Le foglie secche polverizzate vengono utilizzate per favorire la cicatrizzazione delle ferite.[7]


Gli hawaiani utilizzano l’albero in mille modi: le foglie si trasformano in tessuti e stuoie ma hanno anche proprietà curative, i rami ed i tronchi vengono utilizzati per creare le tubature dell’acqua ed il frutto viene mangiato oppure utilizzato come colore per dipingere.
Ciò che infatti sorprende di più di questo frutto sono i colori accessi e la forma che lo caratterizza! Un vero e proprio spettacolo naturale…
Vi state chiedendo che gusto ha? Chi lo ha assaggiato dice che assomiglia un pò alla zucca.
  

Soluzioni - arredamento.



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domenica 6 ottobre 2013

Scoperta a Bari cava con impronte dinosauri.

Scoperta a Bari cava con orme di dinosauri


Orme risalgono al Cretaceo, circa 100 milioni di anni fa.


Una cava con migliaia di orme di dinosauri, risalenti al periodo del Cretaceo, circa 100 milioni di anni fa, è stata scoperta la scorsa estate dal paleontologo barese, Marco Petruzzelli, all'interno del parco Lama Balice, nella città di Bari. Una anticipazione della ricerca è data dal quotidiano La Repubblica. Il paleontologo, specializzato in icnologia (branca che studia le impronte fossili degli animali) ha rilevato le impronte in un'area compresa nel parco di Lama Balice, che si trova ad un chilometro dall'aeroporto e a ridosso della periferia cittadina.
Si tratta di un giacimento con un numero stimato di circa diecimila orme di dinosauri, con una concentrazione di tre-quattro impronte per metro quadrato. Secondo lo studioso, le impronte fanno pensare che sull'area abbiano camminato ''dinosauri sia di specie erbivora che carnivora''. Il ritrovamento è stato notificato alla Soprintendenza ai beni archeologici, alla presidenza del parco e alla Regione Puglia, affinché l'area possa essere messa sotto tutela''


Leggi anche: 


Palermo, oggi.

Piove e Palermo s'allaga.
Naturalmente, non spazzando le strade quando piove, le foglie secche e i sacchetti sparsi vanno ad ostruire i tombini, impedendo all'acqua di defluire...
In compenso, la tassa sui rifiuti è aumentata del 67%.
Colpa dei palermitani, tutti, senza distinzione: dei civili perchè sporcano, degli istituzionali perchè se ne fregano, da perfetti irresponsabili.





Mondello



Ficarazzi



Via Ferrante, Partanna Mondello



Via Leonardo da Vinci, Palermo



Rotonda Viale Lazio, Palermo

Foto: http://www.gds.it/gds/multimedia/cronaca/gdsid/292958/pg/8/

Vajont: 50 anni fa la frana del monte Toc. - Alberto Boccanegra


I morti furono 1910. Tra gli imputati uno solo andò in carcere ma c'è un suicidio.

VENEZIA - Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963. E' in questo istante che un'enorme frana di roccia di circa due chilometri quadrati di superficie e 260 milioni di metri cubi di volume, si stacca dalle pendici del Monte Toc, dietro la diga del Vajont, tra il Friuli e il Veneto. L'enorme massa, un corpo unico, piomba nel sottostante lago artificiale nel quale l'11 aprile, con la terza ed ultima prova di invaso, l'acqua ha raggiunto quota 700,42 metri sul livello del mare.
Lo schianto solleva un'onda di 230 metri d'altezza e ben 50 milioni di metri cubi di materiale solido e liquido in sospensione si alzano. La metà della massa d'acqua scavalca la diga, abbattendosi nella sottostante valle del Piave, provocando la distruzione di sette paesi (Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo). L'altra parte dell'onda sale la valle e va a 'colpire' i paesini friulani di Erto e Casso e una miriade di borghi. Verso Longarone, allo sbocco del Vajont, l'onda è alta 70 metri e produce un vento sempre più intenso, che porta con sé, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori, le persone si rendono conto di ciò che sta per accadere ma non possono più scappare. Lo stesso 9, la prima notizia dell'ANSA titola 'Disastro notte zona del Vajont' e parla di decine di case spazzate via, di morti e feriti, di collegamenti interrotti. La geografia dei luoghi, già sconvolta dalla realizzazione della diga, cambia per sempre.
L'ondata rade al suolo le case ma anche scheggia le altre montagne mentre la cicatrice sul Monte Toc ha la forma di una 'M' gigantesca. I morti accertati sono 1.910 (di cui 1450 solo a Longarone), a cui si aggiungono i 10 caduti sul lavoro durante gli anni di costruzione della diga. Che stesse per succedere qualche cosa alla vigilia del disastro se n'era accorto Alberico Biadene, Direttore costruzioni della Sade, che l'8 ottobre a neppure 24 ore dal disastro, chiede ai vertici della società costruttrice - la Sade - di far scattare l'allarme e provvedere con un piano di evacuazione delle cittadine di Erto e Casso. Il 9 ottobre, prima dell'onda assassina, la frana 'sussurra' che sta per muoversi con gli alberi, là dove resterà la 'M', che si inclinano.
E' mezzogiorno poi quando alcuni operai, in pausa pranzo, vedono ad occhio nudo il movimento della montagna. Uno di loro tra le 15 e le 16 vede degli alberi cadere ed alcune zolle rotolare a valle. Gli animali, nelle stalle e nei cortili passano dal silenzio assoluto all'agitazione, gli uccelli scompaiono. Alle 22 il geometra Giancarlo Rittmeyer telefona a Biadene, a Venezia, per comunicare la sua preoccupazione, dato che la montagna ha cominciato a cedere visibilmente. 39 minuti dopo la telefonata è il disastro e lo stesso geometra è tra le vittime. Solo alle prime luci dell'alba gli occhi dei sopravvissuti possono vedere ciò che è accaduto, mentre la diga, li guarda intatta. Il greto del Piave è stato raschiato dall'onda che ha cancellato del tutto Longarone. Case, chiese, alberghi, osterie, monumenti, piazze e strade sono sommerse dall'acqua che gli ha sradicati dalle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimangono che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Svetta solo il campanile di Pirago, graziato dall'onda assassina. Il 10 ottobre il Gazzettino fa tre edizioni del giornale. Questi i titoli che aprono le 'prime': "Disastro alla diga del Vajont"; "Disastro alla diga del Vajont", edizione straordinaria; "Le prime fotografie", ultima straordinaria. Il Corriere della Sera, il 10 ottobre, apre a tutta pagina con il titolo "L'onda della morte" e sul posto manda a raccontare l'accaduto Giorgio Bocca e il bellunese Dino Buzzati. Subito scatta la commissione d'inchiesta ministeriale e il Presidente della Repubblica Antonio Segni accorre nella valle del Piave e, vedendo il disastro dall'alto dell'elicottero, piange.
Del Vajont, lo stesso Segni, si ricorda nel suo messaggio di fine anno. Per una ferita mai chiusa l'iter processuale è eterno. Nel 1968, il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza contro lo stesso Biadene, l'unico che farà un periodo in carcere, ed altre 10 persone di cui due nel frattempo decedute mentre una terza, alla vigilia del processo, si suicida. Il processo di primo grado si tiene nel tribunale dell'Aquila con le prime tre condanne, nel 1969, a sei anni di reclusione di cui due condonati. Nel 1970, sempre all'Aquila, si tiene l'Appello e ad essere condannati, qui, sono sempre Biadene e una seconda persona. Sentenza confermata in Cassazione nel 1971 ma l'unico a pagare è Biadene (cinque anni di reclusione di cui tre condonati).
Negli anni '70 inizia la battaglia per i danni, in sede civile, con un travagliato percorso: la sentenza di primo grado del Tribunale di Belluno è del febbraio del 1997. La Corte d'Appello di Venezia conferma la condanna per la Montedison (Sade vi era entrata), a risarcire il Comune di Longarone per i danni materiali e morali. Non si andrà in Cassazione. L'ultimo atto del percorso si chiude con l'Enel, ora proprietaria della diga, che paga penali ai comuni di Erto e Casso. In tutto si va a transazioni per 22 miliardi di lire per le parti lese poi rivalutati in 77.