Insegnamento, ricerca, citazioni, contributo all’innovazione e prospettiva internazionale: questi i cinque principali parametri per giudicare l’importanza e la qualità di una università. E dall’indagine scientifica sui dati raccolti proprio all’interno di questa macro-aree, la società britannica “Times Higher Education University Ranking”, ogni anno stila la sua classifica dei migliori atenei del mondo. Una graduatoria di 400 istituzioni accademiche che condanna l’Italia a un ruolo di quasi assenza in tema di formazione universitaria. Nel ranking relativo agli anni 2013-2014, che nei primi 10 posti conta ben otto università statunitensi e due britanniche, gli atenei italiani ne escono con le ossa rotte. Prima classificata l’università di Trento. Ma per incontrarla bisogna scendere fino alla posizione 221. Un numero inclemente che non dovrebbe però sorprendere quanti quotidianamente denunciano il ritardo italiano in quest’ambito e la profonda incapacità nel migliorare gli standard, soprattutto in termini di contributo all’innovazione e ricerca. Voce quest’ultima che negli ultimi anni ha conosciuto solo feroci tagli. Il declino italiano è evidente: solo 15 gli atenei presenti nelle prime 400 posizioni.
Prima dunque, è l’Università di Trento, al 221° posto, che segna un discreto avanzamento rispetto al 274° dell’anno precedente. Seconda in classifica l’Università di Milano-Bicocca: 235° posto, in progressione rispetto al 262° posto del 2012-2013. Università di Trieste è al 245° posto, anche questa in risalita rispetto al precedente 272°. Università di Torino si piazza al 247° posto, meglio del 275° dell’anno precedente. Exploit dell’Università di Pavia oggi al 270° posto in netta risalita dal precedente 329°. Cresce anche l’Università di Bologna al 278° rispetto al precedente 282°. Chi scende è invece l’Università di Milano che si ferma al 289°, in calo rispetto al precedente 261° posto. Meglio va il Politecnico di Milano che risale al 292° dal 331° occupato l’anno precedente. Università di Padova scende al 333° posto, non molto distante dal 328° del 2012-2013. Università di Pisa: 334°, segna una lieve flessione rispetto al 330° raggiunto in precedenza. Migliora invece l’Università del Salento che arriva al 335, molto meglio del 384° dell’anno prima. Cambia poco a distanza di un anno la situazione dell’Università di Roma La Sapienza: 336°, due posizioni più giù rispetto al precedente 334°. Rientra dopo un ‘giro’ di sosta fuori della top 400, l’Università di Bari al 351° posto. Università di Ferrara si piazza 357° rispetto al 360° Posto dell’anno precedente. Chiude l’Università di Firenze al 358° posto, un crollo rispetto alla 282° posizione occupata nel 2013-2014.
A condannare gli atenei italiani è anche la particolare formula utilizzata per una valutazione scientifica e i parametri utilizzati. I criteri muovono lungo delle direttrici principali che rappresentano le missioni fondamentali delle università: l’insegnamento, la ricerca, il trasferimento di conoscenze e la visione internazionale. Tredici gli indicatori di performance, raggruppati in cinque aree. L’insegnamento, valuta l’ambiente di apprendimento e rappresenta il 30 per cento del punteggio della classifica generale. In questa categoria si impiegano cinque indicatori di performance. Seconda macro-area quella relativa alla ricerca. Anche questa categoria che rappresenta il 30 per cento del totale si compone di tre indicatori. Il più importante, con un coefficiente del 18 per cento, riguarda la reputazione di una università in quell’ambito. Ma cruciale per lo sviluppo della ricerca di livello mondiale è pure il reddito. È dai fondi investiti che dipende gran parte della ‘concorrenza’ e dei risultati. Questa voce ha un valore del 6%. Tanto quanto il volume: la misura di quanti articoli sono pubblicati nelle riviste accademiche indicizzate. Collegata in un certo senso a questa voce, anche quella relativa alle citazioni: vale da solo il 30% del totale e guarda al ruolo delle università nella diffusione di nuove conoscenze e idee. Molto importante è anche l’area della Prospettiva internazionale, che divide il coefficiente del 7,5% tra le voci persone e ricerca. Questa categoria analizza la diversità nel campus la capacità degli accademici di collaborare con i colleghi internazionali su progetti di ricerca. La capacità poi di una università di attrarre studenti e laureati provenienti da tutto il pianeta è la chiave per il suo successo. Ultima voce, quella relativa al reddito di settore, che misura la capacità di un universitario di aiutare l’industria con innovazioni. Missione ritenuta fondamentale nello scenario mondiale.
Scorrendo la classifica, salta subito all’occhio lo strapotere anglosassone: non solo Stati Uniti, ma anche Gran Bretagna, Canada e Australia. Ciò che emerge chiaramente però è la presenza di molte università, sebbene non nei primissimi posti, di paesi come Cina, India, Hong Kong, Sud Corea e altri giganti asiatici. Paesi dove forte è l’investimento sulla ricerca e il reddito di settore, cioè l’interazione tra università a aziende. Nelle nazioni in via di sviluppo questo rapporto è molto stretto. Spesso poi le università hanno corsi in inglese e possono attrarre anche insegnanti di facoltose università anglosassoni. Tutto ciò che di fatto manca all’Italia, così come ad altri paesi d’Europa come Francia e Spagna. Ex potenze destinate a cedere il passo anche sulla cultura.