giovedì 16 luglio 2020

Monumento ai caduti. - Marco Travaglio

Come mai i pennivendoli del Corriere pubblicano continuamente ...
Quando, 23 mesi fa, crollò il Ponte Morandi seppellendo 43 morti, Autostrade era figlia di NN. Per i giornaloni, i colpevoli del crollo non erano i concessionari Benetton che lucravano da 19 anni su un bene pubblico con l’impegno di manutenerlo e invece l’avevano mandato a ramengo. Ma i 5Stelle e gli ambientalisti anti-Gronda: il faraonico passante autostradale da 5 miliardi di euro che, anche se fosse stato realizzato in tempo utile (10 anni di cantieri), si sarebbe aggiunto al viadotto pericolante senza sostituirlo e comunque era stato bloccato dall’inettitudine di chi aveva governato Genova, la Liguria e l’Italia (centrodestra e centrosinistra). Ai funerali, il premier Conte e i suoi vice Di Maio e Salvini, acclamati dalla folla, promisero che mai più i Benetton avrebbero gestito Autostrade. E lì i giornaloni tutti, seduti su montagne di milioni regalati dai Benetton in forma di pubblicità (maglioni, bimbi e pecore multicolor), sponsorizzazioni (le feste Rep Idee e le guide turistiche di Repubblica) e gettoni di presenza (nel board Atlantia sedevano Cassese, giurista del Corriere&C, e la Mondardini, amministratore di Repubblica), iniziarono a nominare i Benetton. Ma per difenderli. Cantavano tutti la stessa canzone alla Squallor, scritta direttamente a Ponzano Veneto: nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva, fino alla Cassazione non si può dire se la colpa è dei manager Benetton o del destino cinico e baro, chissà mai chi è stato.
Nel giro di una settimana Repubblica, Corriere, Stampa, Messaggero e Giornale riuscirono a scrivere che chiunque incolpasse Atlantia per le colpe di Atlantia era affetto dalle seguenti patologie: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina, ansia da Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice no a tutto, pericolosa deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, punizione cieca, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, aggiotaggio, decrescita, oscurantismo. 
Francesco Merlo intervistò su Repubblica il capofamiglia Luciano, quello coi capelli turchini, definendolo “imprenditore di sinistra” (nelle foto di famiglia sta sempre da quella parte). Prima domanda, e ho detto tutto: “È vero che il crollo del Ponte Morandi con i suoi 43 morti ha ferito lei e ha ucciso suo fratello?”. Mancò poco che chiedesse ai parenti dei 43 morti di pagargli i danni. Intanto Salvini, a cui forse qualche vecchio leghista aveva rinfrescato la memoria, diventò il miglior alleato dei Benetton.
E rovesciò il Conte 1. Così, per l’alternanza all’italiana, toccò al Pd difendere gli United Colors. Ai Trasporti andò Paola De Micheli che, coi suoi modi ruspanti da cassiera di drogheria e la cultura consociativa da ex-Pci Vecchia Romagna, riprese a inciuciare. I giornaloni intanto pubblicavano sempre lo stesso pezzo dettato da Ponzano Veneto: finirà a tarallucci e vino, Conte rinvierà alle calende greche e il M5S ingoierà anche quel rospo. Ancora il 5 luglio quel genio di Claudio Tito sparava su Repubblica: “Il governo spera nella Consulta per lasciare la concessione ad Aspi”. Come sempre, era vero il contrario: Conte sperava nella Consulta per levare la concessione ad Aspi o levare i Benetton da Aspi. L’ha annunciato lunedì al Fatto e martedì notte in Cdm l’ha fatto. Ora si contano i caduti. De Benedetti, due giorni fa, con tempismo pari alla perspicacia, definiva Conte “una nullità” proprio per Autostrade. E tutti i giornaloni, ancora ieri, non riuscivano a immaginare un governo che caccia a pedate un potere forte anziché chinarsi a 90 gradi. 
Repubblica: “Conte lavora a un patto coi Benetton”. Sì, ciao, buonanotte. 
Il Foglio: “Su Aspi l’unica strada è il rinvio”. Certo, come no. 
Giornale: “Governo bloccato. Cdm rinviato. La linea dura vacilla. Revoca suicida, pagheremo 17 miliardi”. Le pazze risate.
Corriere, Repubblica, Stampa e Verità sparavano la lettera “riservata personale” della De Micheli a Conte del 13 marzo, fatta uscire per salvare in extremis i Benetton e tornata alla mittente come un boomerang: doveva screditare Conte per aver ignorato per 4 mesi una ghiotta transazione, invece ha screditato la ministra per non aver capito (o aver capito fin troppo bene) la boiata che era. 
Una patacca che, per la Verità, “sbugiarda Conte”. 
E, per Paolo Baroni de La Stampa, dimostra i “quattro mesi persi” dal premier, che “in tutto questo tempo ha dormito” perché “il 13 marzo era la giornata mondiale del sonno”: questo frescone dimentica che il 13 marzo il premier aveva appena chiuso l’Italia e si occupava full time di Covid (250 morti e 2.547 contagiati solo quel giorno), ma trovò il tempo con Gualtieri di respingere l’ennesimo accordo-trappola caldeggiato da madama. 
Ma il Premio Nostradamus va a Stefano Folli, l’oracolo di Repubblica, che martedì sera è andato a nanna giulivo dopo aver consegnato il quotidiano De Profundis per il governo: “Una stagione al tramonto”, “Autostrade può essere l’incidente su cui il governo inciampa”, “una stagione politica si sta concludendo”, “l’esaurimento del Conte2 è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere”, “la decadenza di una formula politica”, “l’agonia”. Poi ieri, forse, si è svegliato. Una prece.

I Benetton, Benetton Edizone Holding, Atlantia e Aspi (Autostrade per l'Italia). - Massimo Erbetti

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Cerchiamo di capire come stanno realmente le cose e come i Benetton controllano le autostrade: i Benetton tramite la loro cassaforte "familiare" la "Benetton Edizone Holding" detengono il 30% di Atlantia, che a sua volta controlla circa l'88% di Aspi (Autostrade per l'Italia), per cui i Benetton non sono i soli proprietari di Aspi, ma ne detengono circa il 25/26%, praticamente un quarto, ma essendo i soci di maggioranza (quelli con più quote), ne tengono le redini e ne decidono le strategie operative. Perché dico queste cose? Lo dico perché alcuni ieri hanno voluto strumentalizzare il salto in avanti del 23% (teorico) in borsa di Atlantia. Il "favore" se di favore si vuol parlare non è stato fatto ai Benetton che ne detengono solo il 30%, ma a tutti gli azionisti, che nulla c'entrano con le decisioni scellerate della gestione di Aspi e che non hanno certo colpe su quanto avvenuto al Ponte Morandi. L'accordo raggiunto ieri, è un incredibile successo e un servizio a tutti i cittadini italiani, mai nessun governo nella storia della Repubblica italiana ha agito nel solo interesse del popolo, tutti quelli precedenti, hanno sempre chinato la testa davanti al potente di turno e proprio sulle concessioni autostradali, tutti, ma proprio tutti...destra, sinistra, centro...dovrebbero avere la decenza di tenere la bocca chiusa...da Prodi che stipuló un contratto capestro, a Berlusconi e tutto il centro destra, Lega compresa, che resero addirittura legge dello Stato i vantaggi per i Benetton. Cosa prevede l'accordo?:
-1) Un risarcimento danni allo Stato di 3,4 miliardi di euro.
-2) L'uscita dal CdA di Aspi da parte dei Benetton e la riduzione delle quote al 10%
-3) La trasformazione di Autostrade per l’Italia in una compagnia pubblica
-4) La riduzione di tutte le tariffe autostradali.
-5) La rinuncia a tutte le cause contro lo Stato.
-6) Il mantenimento di tutti i posti di lavoro.
-7) La rinuncia ad ottenere fino a 23 miliardi in caso di scioglimento del contratto anche per gravissimi inadempimenti contrattuali.
-8) La possibilità di revoca anche per "lievi" inadempimenti.
-9) Maggiori investimenti per la manutenzione e la sicurezza.


E per ultimo, ma non certo ultimo, aver fatto passare il messaggio ai cittadini, che in questo paese, non basta più essere ricchi e potenti per poter essere al di sopra della legge, tutti, (nessuno escluso) , da oggi in poi, pagheranno per gli errori commessi.
Ahh...ancora un paio di cosette...la prima: a tutti quelli che avrebbero voluto veder fallire i Benetton, ricordo, come scritto sopra, che i Benetton posseggono solo il 30% di Atlantia e non sarebbero stati gli unici a pagare, lo avrebbero fatto anche le migliaia di lavoratori Aspi e ben 750 mila piccoli investitori italiani che magari in Autostrade per l'Italia, avevano investito i loro pochi risparmi.
La seconda è per quelli che dicono che dalla revoca siamo passati all'acquisto, vorrei far presente che revocare, non significava, diventare poi proprietari della concessione...ma solo toglierla a chi la aveva...lo so per voi è difficile, anzi incomprensibile, da capire...me ne farò una ragione.


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mercoledì 15 luglio 2020

Lettera di Di Maio al Fatto Quotidiano: “Letta, Draghi, Mion: è lavoro, parlo con chi non la pensa come me”. - Luigi Di Maio

Lettera di Di Maio al Fatto Quotidiano: “Letta, Draghi, Mion: è lavoro, parlo con chi non la pensa come me”

Di Maio risponde al “Fatto”.
Gentile Direttore, la seguente perché da qualche giorno ho notato che sta facendo notizia la mia agenda di appuntamenti, con ricostruzioni fuorvianti che con dispiacere ho letto – in parte – anche dalla sua penna.
Sia ben chiaro, la stampa fa il proprio mestiere. Diceva qualcuno che il dovere dei giornalisti fosse quello di “girare la penna nella piaga”. E quindi il mio non vuole essere un attacco a chi dà le notizie. Come prima cosa voglio dire che confermo gli incontri che ho avuto e personalmente da Ministro degli Esteri credo proprio che ne avrò tanti altri. Perché da quando sono Ministro ho sempre tenuto un contatto diretto con membri di maggioranza e opposizione, come ho sempre tenuto incontri con coloro che rappresentavano e rappresentano istituzioni internazionali e nazionali. Ognuna di queste persone si rivela preziosa per uno scambio di opinioni, soprattutto quando finiamo a discutere con forza perché non la pensiamo allo stesso modo.
Ciò che sta diventando insopportabile invece è il livello di retropensiero che in questi giorni si cela dietro ad ognuno dei miei incontri. Come ad esempio l’ipotesi che sarebbe stato il mio staff a far trapelare la notizia. I giornalisti che hanno firmato gli articoli e i loro direttori possono facilmente testimoniare il contrario.
Sia con l’ex presidente della Bce Mario Draghi, sia con Gianni Letta non ci eravamo mai incontrati prima e il tutto rientra in un sano e tradizionale spirito dialogante. Nella fattispecie, peraltro, come lei ben sa, l’Italia si appresta ad affrontare una delle più importanti partite mai giocate sui tavoli europei e la Farnesina lavora in prima linea sul negoziato Ue.
In questa cornice, e in virtù del particolare momento che stiamo attraversando, non trovo sconvolgente che io veda l’ex presidente della Banca Centrale Europea, visto anche il ruolo svolto dall’Eurotower negli ultimi anni a sostegno della zona euro. Per quanto riguarda il dottor Letta, invece, smentisco categoricamente i contenuti riportati nel retroscena pubblicato su La Stampa. D’altronde, Direttore, lei stesso nel suo editoriale ha parlato di numerose “chiacchiere politichesi dei retroscenisti”…
Riguardo ad Autostrade, colgo l’occasione per riferirle che corrisponde al vero anche il mio incontro con il manager Gianni Mion, al quale ho ribadito la posizione espressa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, secondo cui “le autostrade non possono più essere gestite dalla famiglia Benetton”. Posizione, questa, che non viene espressa o improvvisata oggi, ma che io per primo ho portato sui tavoli governativi e in Parlamento.
Nell’ambito dell’esperienza di governo, io per primo, infatti, ho combattuto contro la famiglia Benetton. Io per primo sono finito nel mirino della speculazione mediatica per portare avanti una battaglia che nessun altro aveva il coraggio di intraprendere. Sono stato accusato di aver fatto crollare il titolo in borsa di Atlantia, il M5S è stato deriso e colpito solo per aver difeso un principio fondamentale che, dopo la tragica morte di 43 persone, a nostro avviso equivale al senso di giustizia.
L’encefalogramma, mi permetta, non è stato piatto. E lo dimostra anche la mia uscita pubblica in serata sui miei profili social a supporto delle parole del Presidente Conte. Ho forse peccato per non essermi palesato prima delle 21? Me ne dispiaccio, ma ero a Trieste con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al rientro ho effettuato un punto sull’incontro tenuto ieri pomeriggio con il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, e il giorno prima ero a Bruxelles per un mini vertice a 4 con i colleghi Le Drian, Mass e l’Alto rappresentante Borrell sempre sulla Libia. Insomma, possiamo dire che non ci si annoia mai.
Infine, e concludo, lei ha anche scritto che io due anni fa mi giocai la premiership per non stringere la mano pubblicamente a Silvio Berlusconi. Devo ringraziarla, perché indirettamente mi riconosce lo sforzo di aver contribuito a costruire due governi. Le confesso tuttavia che la mia rinuncia fu motivata dalla convinzione che non sono i volti a cambiare un Paese, bensì i fatti e le idee (ed è per questo motivo che per ben due volte ho rinunciato al ruolo di premier e una terza a quello di vicepremier). Non le so dire se oggi ci stiamo riuscendo. Le posso dire però che stiamo facendo il massimo e qualche risultato, me lo conceda, a casa lo abbiamo portato.

La balla dei 5 Stelle contro Conte. - Gaetano Pedullà

Conte Di Maio

Probabilmente seguo i Cinque Stelle in modo non così attento quanto gli illustri direttori dei giornali di destra e dei sedicenti poteri forti (Fiat, Confindustria, banche) secondo cui il Movimento è tutto uno schifo, e nemmeno quanto il bravissimo direttore dell’unico giornale insieme a questo che non li attacca a prescindere, a costo di inventarsi di sana pianta velenosi retroscena quando non ci sono altre cartucce per sparargli addosso. Seguo però la politica italiana da così tanti anni da poter affermare con certezza che prima dell’arrivo di questa forza nel governo del Paese mai si era fatto tanto per ridurre le disuguaglianze, aiutare chi è rimasto indietro, togliere privilegi e ruberie tanto delle destre che delle sinistre.
Poi gli errori li fanno tutti, le battaglie si vincono e si perdono, e se ancora brucia la sconfitta sull’inutile Tav tra Torino e Lione, o le concessioni fatte alla Lega in cambio di un percorso di riforme tradito da Salvini, non si può non riconoscere una montagna di meriti, con al primo posto aver risparmiato all’Italia di tornare al Medioevo con le follie isolazioniste del più becero Centrodestra di sempre, e al secondo posto di aver tirato fuori da chissà quale cilindro un Presidente del Consiglio equilibrato, di lunghe visioni, onesto e coraggioso come Giuseppe Conte. Per ottenere solo questi due risultati, senza parlare di tutto il resto, dal Reddito di cittadinanza al taglio dei parlamentari alla battaglia sui vitalizi e mille altre cose, il Movimento si è dissanguato elettoralmente.
Un sacrificio necessario per onorare la promessa di fare sempre quello che serve di più ai cittadini e non a se stesso, come fanno gli altri partiti. Questo però è fare Politica, con la P maiuscola, e di conseguenza trattare e discutere con tutti per centrare gli obiettivi nell’interesse del Paese. Quindi non dovrebbe stupire nessuno tanto Conte che incontra il premier olandese oggi arcinemico dell’Italia per bloccare i fondi europei, quanto Di Maio che sente Draghi, cioè chi conosce meglio di chiunque le dinamiche economiche internazionali per aver fatto il presidente della Bce, oppure Gianni Letta che è l’unico soggetto dialogante in quella gabbia di matti dell’attuale Centrodestra, che con Conte non parla e se parla è solo per insultarlo.
Certo Feltri, Belpietro, Sallusti e compagnia cantando non avranno difficoltà a spiegare i faccia a faccia di Di Maio come le chiare avvisaglie di un governissimo che avanza, e l’ex capo politico dei Cinque Stelle che tratta in proprio per cacciare Conte e fare il ministro con un altro premier, anche se tutta questa teoria fa acqua da ogni parte, se non altro perché Di Maio il ministro lo fa già. Siamo dunque nel campo delle balle messe in circolo per avvelenare il clima, come fa da sempre un giornalismo cinico fomentato da una politica intenta solo a farsi i cazzi suoi.
Ma da Travaglio non te l’aspetti proprio che cada nel tranello, e descriva i comportamenti di uno degli esponenti più visibili del Movimento esattamente come quelli di un qualunque politico della Prima Repubblica, mettendo così i Cinque Stelle in uno stesso frullatore con tutto il resto, scodellando un intruglio dal quale non si salverebbe neppure Conte. Esattamente il gioco di chi vuole proprio l’attuale premier fuori da Palazzo Chigi, possibilmente facendo compiere un omicidio-suicidio proprio ai Cinque Stelle.

Nel 63% pro Conte c’è molta gente che vota a destra. - Antonio Padellaro

Festa della Repubblica, Conte: "Nessuna tempesta può piegarci"
Il 10 luglio scorso, il 63% di popolarità record del premier Giuseppe Conte ha ispirato a Liberoquotidiano.it questo titolo: “Il sondaggio Ipsos dà ‘pieni poteri’ al premier: il report sulla scrivania prima dello stato d’emergenza?”. Parliamo di un testata assolutamente critica nei confronti del governo ma proviamo a considerare non infondata l’ipotesi che il presidente del Consiglio abbia deciso di protrarre fino al 31 dicembre lo stato d’emergenza Covid anche perché forte del consenso degli italiani. Che del resto hanno sostenuto la sua scelta del lockdown, fin all’inizio e in tutte le fasi successive.
A questo punto però un organo apertamente schierato con l’opposizione che va da Matteo Salvini a Giorgia Meloni potrebbe porsi una domanda e darsi una risposta: quanti elettori di destra contiene quel 63% favorevole a Conte, visto e considerato che nei sondaggi il centrosinistra non tocca neppure il 50%? Se la matematica non è un’opinione, avremmo dunque una percentuale consistente di italiani orientati a destra ai quali i “pieni poteri” del premier nella guerra alla pandemia non dispiacciano affatto. Come notizia, in fondo, è il cane che morde l’uomo poiché la presenza a palazzo Chigi di un “uomo forte” non potrebbe certo dispiacere a chi chiede “legge e ordine”, tanto più dopo lo choc dei mesi scorsi e quando “nel doman non v’è certezza”. Suscita quindi una certa ilarità assistere allo spettacolo della destra politica, giornalistica e televisiva che si straccia le vesti, disperata per il “rischio democratico” e l’“attentato alla costituzione” di cui si starebbe macchiando il premier, con una scelta di salute pubblica, condivisa nel paese a sinistra ma anche a destra. Siamo alla comica finale dove un turbogiurista come Sabino Cassese paragona Conte a Orbán senza strozzarsi dalle risate. Dove Giorgia Meloni si trasforma in Michela Murgia, pronta per l’iscrizione all’Anpi. Dove la presidente del Senato Elisabetta Casellati si erge a sentinella della democrazia, del mausoleo di Arcore e delle nipotine di Mubarak. E dove Matteo Salvini, tornato al Papeete Beach giura che impedirà all’usurpatore di assumere quegli stessi pieni poteri che giusto un anno fa egli trionfalmente annunciava da una consolle smutandata.

Ecco i testimoni di Palamara: ex ministri e uomini del Colle. - Antonio Massari

Ecco i testimoni di Palamara: ex ministri e uomini del Colle

L’offensiva. Il pm presenta una lista di 133 nomi.
Un documento di 34 pagine e un elenco di 133 testimoni. Luca Palamara chiede al Csm di accettare la lunghissima lista testi con una duplice conseguenza. Se il Csm accetta sfilerà mezza giustizia italiana – dall’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino agli ex ministri Andrea Orlando e Giovanni Maria Flick, passando per gli ex presidenti dell’Anm Francesco Minisci ed Eugenio Albamonte e all’attuale procuratore capo di Milano Francesco Greco – correndo il rischio di dimostrare che la gestione Palamara non era l’eccezione nella procedura delle nomine. Se rifiuterà, darà l’impressione di non volersi sottoporre a una operazione verità. Palamara chiama a testimoniare anche Guido Lo Forte, tra i favoriti per la Procura di Palermo fino allo stop inferto, nei fatti, dalla richiesta del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di procedere seguendo un inedito ordine cronologico. Intervento che portò la consiliatura successiva a nominare a Palermo Francesco Lo Voi (anch’egli nella lista testi). Lo Forte potrebbe dover spiegare perché, in seguito, revocò la candidatura alla Procura generale del capoluogo siciliano. Ma c’è di più. Palamara chiama a testimoniare due consiglieri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – Francesco Garofani e Stefano Erbani – per due distinte vicende. La prima: le interlocuzioni con Luca Lotti relative alla nomina – poi saltata – del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, alla Procura di Roma. Tra le accuse rivolte a Palamara c’è quella di aver discusso della nomina di Viola alla presenza di Lotti il 9 maggio 2019. Palamara sostiene che Lotti fosse estraneo “agli orientamenti maturati dai gruppi di Unicost e Magistratura Indipendente”. Resterebbe indigeribile che ne discutesse alla sua presenza. Ma Palamara va oltre e vuole che Garofani riferisca “sulla posizione processuale” di Lotti al 9 maggio 2019 e “sui rapporti e colloqui intrattenuti” con il Parlamentare del Pd “in ambito istituzionale” e “anche con riferimento alle vicende relative al Csm”. Con il Fatto, lo scorso anno, Garofani ha smentito qualsiasi interessamento alle vicende in questione.
Palamara chiede che altri testimoni – per esempio l’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini e l’ex consigliere laico Paola Balducci – confermino che la sua frequentazione con Lotti (indagato dalla Procura di Roma nell’inchiesta Consip e poi imputato per rivelazione del segreto e favoreggiamento) era iniziata a livello istituzionale con incontri avvenuti anche alla presenza dell’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone.
Erbani è invece chiamato a testimonare sul procedimento disciplinare su Woodcock (è stato assolto il mese scorso) iniziato con la consiliatura guidata da Legnini e rinviato a quella successiva. Fonti del Quirinale precisano al Fatto che Erbani non sa nulla sull’argomento. Diversa la posizione di Legnini, che Palamara cita come testimone, affinché racconti il “contenuto di una conversazione avuta con l’onorevole Paolo Cirino Pomicino”, proprio su Woodcock, “nel periodo di svolgimento” del suo “procedimento disciplinare”. Conversazione che fu poi “oggetto di un’intercettazione ambientale nell’ambito del procedimento Consip”. In sostanza Pomicino, in un’intercettazione ambientale, racconta di aver incontrato Legnini e di aver parlato con lui di Woodcock. E questa intercettazione – secondo la ricostruzione di Palamara – finisce proprio nel fascicolo Consip gestito inizialmente da Woodcock. Palamara vuole che Legnini spieghi le “ragioni del rinvio del procedimento disciplinare” nei confronti di Woodcock. In effetti, intercettato mentre parla con Legnini, già nel maggio 2019 Palamara gli dice che vuol riferire alla stampa le reali ragioni del rinvio. “Non lo puoi dire” gli risponde Legnini. Palamara lo rassicura: “Senza mettere in mezzo te”. Legnini spiega al Fatto che Palamara si riferiva a un’intercettazione – che non ha mai letto – nella quale Pomicino raccontava di averlo incontrato e nella quale avrebbe sostenuto, sempre a detta di Palamara, che lo stesso Legnini avrebbe parlato in termini non lusinghieri di Woodcock. Legnini era in quel momento giudice in sede disciplinare e avrebbe potuto rischiare una ricusazione. Ricusazione mai avvenuta. E intercettazione al momento sconosciuta. Legnini conferma al Fatto di aver incontrato Pomicino, che gli parlò di Woodcock, lamentandosene, ma spiega: “Gli dissi che non potevo far nulla”. Versione confernata da Pomicino. “Non mi sono lasciato condizionare – conclude Legnini – dalle parole di Palamara né dall’esistenza di questa presunta intercettazione. Il rinvio è stato giusto, fisiologico, richiesto dalla stessa difesa di Woodcock”.
Sullo stesso argomento Palamara chiama a testimoniare anche il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo. Poi passa ai finanzieri che hanno indagato su di lui, a partire dall’ex ufficiale del Gico Gerardo Mastrodomenico, al quale vorrebbe chiedere di alcune intercettazioni non riportate nelle informative, il perché non sia stata fermata la registrazione di Lotti e Cosimo Ferri, nonostante il divieto espresso dalla Procura di intercettare parlamentari e, infine, quali incarichi rivestisse dal maggio 2018 al giugno 2019. Mastrodomenico, al quale era stata delegata l’inchiesta, da settembre 2018, e fino al successivo incarico come comandante provinciale della Gdf di Messina, è stato alla Scuola di Perfezionamento per le forze di Polizia: è da lì – è la domanda sottintesa – che ha condotto le indagini? Tra i testimoni citati anche Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo ai quali vuol chiedere cosa sappiano dell’esposto presentato dal pm di Roma Stefano Fava su Pignatone e dei colloqui intrattenuti con il magistrato Erminio Amelio (Amelio era tra i candidati di Palamara a Perugia come procuratore aggiunto).
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/07/14/ecco-i-testimoni-di-palamara-ex-ministri-e-uomini-del-colle/5867204/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=oggi-in-edicola&utm_term=2020-07-14

L’ultimo testimone. Lo “sbirro” centenario che indagava sul bandito Salvatore Giuliano. - Nando dalla Chiesa

IL BANDITO GIULIANO E LA SUA BANDA – Misteri d'Italia

Ricordate il leggendario film di Francesco Rosi Il bandito Giuliano? Arrivò nelle sale cinematografiche nel 1962 a mostrare all’Italia del boom economico il sangue e i misteri su cui era nata la Repubblica. Fece rivedere con crudezza quel giovanotto di Montelepre, metà brigante metà giovane leader criminale, tenere in scacco lo Stato. Grazie a una rete occulta di alleanze e protezioni (il separatismo degli agrari, ma non solo) e a un’omertà popolare fatta di cemento. Raccontò la strage di Portella della Ginestra e la “cattura” del bandito. E il processo di Viterbo con l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, il cugino di Giuliano che aveva annunciato rivelazioni sui mandanti politici di Portella. Mostrò plotoni di carabinieri dare la caccia al ribelle. Infagottati nelle storiche divise cachi con la bandoliera a tracolla, su grandi camion pronti a diventare facili bersagli per le bombe e le fucilerie dei banditi.

Ecco, nelle immagini del film colpisce quella presenza costante di centinaia di uomini in divisa finiti nel punto più drammatico dell’Italia a lottare contro un nemico feroce e inimmaginabile nell’Europa di allora. Con relativi eccidi, al punto che gli appelli del governo in cerca di volontari per la Sicilia cadevano nel vuoto. Tutto maestosamente in bianco e nero. Film consigliatissimo.

Un’epopea lontana, oltre settant’anni fa. Senza più testimoni. Né il colonnello Ugo Luca, che guidò il Comando forze repressione banditismo, né il ministro dell’Interno Mario Scelba, né i sindacalisti andati a festeggiare il primo maggio del ’47 sui prati di Portella della Ginestra. E nemmeno i cronisti che indagarono sulla messinscena della morte di Giuliano. Nessuno. Nessuno tranne un carabiniere. Che l’altro giorno ha compiuto cento anni. Eccezionale fonte orale, unica memoria vivente di quel periodo.

Si chiama Mario Furnari. Siciliano, nato a Enna nel 1920 da famiglia contadina nelle campagne in cui la terra era un sogno proibito, ancora ragazzo cercò uno stipendio e nuovi orizzonti arruolandosi nell’Arma. Gennaio ’39, poco prima dello scoppio della guerra. I nuovi orizzonti si rivelarono però subito di morte e di stenti. “Ero in Montenegro. L’8 settembre mi diedi alla macchia, dopo un po’ di mesi in fuga sui monti i tedeschi mi catturarono e mi internarono in un campo in Germania. Durò un anno, fino alla fine della guerra”. Al ritorno Mario venne rimandato nell’isola dove fu impegnato nei reparti incaricati di fronteggiare la banda Giuliano. Ancora oggi ricorda spesso, mostrando una sua foto con divisa d’ordinanza e cappello “sulle 23”, come si diceva, quegli anni di rischio e di avventura. “Mi creda, uscivamo con pattuglie di sei e rientravamo in caserma in tre o quattro. E se catturavamo qualcuno i giudici lo mettevano fuori”. Ai figli e ai nipoti che lo ascoltano racconta con qualche piccola variazione – ma tanti particolari inchiodati nella mente – i due conflitti a fuoco con la banda.

Nel 1956, quando la Sicilia sembrò acquetarsi, e fu finita anche la strage dei sindacalisti contadini, venne trasferito in Abruzzo. Prima vicino l’Aquila, poi a Popoli, in provincia di Pescara. Restò nell’Arma fino al ’75. Oggi abita all’Aquila, dove ha festeggiato il suo secolo di vita, con Elia, la moglie, i figli Sabatino e Rosa Maria e le due adorate nipoti Eleonora e Stella. Attestato d’onore del sindaco di Popoli.

“Della Sicilia”, dice, “ricordo in particolare due grandi uomini, tutti e due miei coetanei, tutti e due uccisi dalla mafia: il capitano Carlo Alberto dalla Chiesa di cui fui agli ordini a Corleone per un anno, e Giuseppe Fava. Fava lo conobbi a Siracusa, giocavamo insieme a carte, eravamo due scapoloni. Qualche anno fa ho incontrato a Pescara il figlio Claudio, e gli ho ricordato suo padre che viaggiava in motorino. Indimenticabili quegli anni”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/07/13/lultimo-testimone-lo-sbirro-centenario-che-indagava-sul-bandito-salvatore-giuliano/5866057/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=ore-19&utm_term=2020-07-13#