Ricordate il leggendario film di Francesco Rosi Il bandito Giuliano? Arrivò nelle sale cinematografiche nel 1962 a mostrare all’Italia del boom economico il sangue e i misteri su cui era nata la Repubblica. Fece rivedere con crudezza quel giovanotto di Montelepre, metà brigante metà giovane leader criminale, tenere in scacco lo Stato. Grazie a una rete occulta di alleanze e protezioni (il separatismo degli agrari, ma non solo) e a un’omertà popolare fatta di cemento. Raccontò la strage di Portella della Ginestra e la “cattura” del bandito. E il processo di Viterbo con l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, il cugino di Giuliano che aveva annunciato rivelazioni sui mandanti politici di Portella. Mostrò plotoni di carabinieri dare la caccia al ribelle. Infagottati nelle storiche divise cachi con la bandoliera a tracolla, su grandi camion pronti a diventare facili bersagli per le bombe e le fucilerie dei banditi.
Ecco, nelle immagini del film colpisce quella presenza costante di centinaia di uomini in divisa finiti nel punto più drammatico dell’Italia a lottare contro un nemico feroce e inimmaginabile nell’Europa di allora. Con relativi eccidi, al punto che gli appelli del governo in cerca di volontari per la Sicilia cadevano nel vuoto. Tutto maestosamente in bianco e nero. Film consigliatissimo.
Un’epopea lontana, oltre settant’anni fa. Senza più testimoni. Né il colonnello Ugo Luca, che guidò il Comando forze repressione banditismo, né il ministro dell’Interno Mario Scelba, né i sindacalisti andati a festeggiare il primo maggio del ’47 sui prati di Portella della Ginestra. E nemmeno i cronisti che indagarono sulla messinscena della morte di Giuliano. Nessuno. Nessuno tranne un carabiniere. Che l’altro giorno ha compiuto cento anni. Eccezionale fonte orale, unica memoria vivente di quel periodo.
Si chiama Mario Furnari. Siciliano, nato a Enna nel 1920 da famiglia contadina nelle campagne in cui la terra era un sogno proibito, ancora ragazzo cercò uno stipendio e nuovi orizzonti arruolandosi nell’Arma. Gennaio ’39, poco prima dello scoppio della guerra. I nuovi orizzonti si rivelarono però subito di morte e di stenti. “Ero in Montenegro. L’8 settembre mi diedi alla macchia, dopo un po’ di mesi in fuga sui monti i tedeschi mi catturarono e mi internarono in un campo in Germania. Durò un anno, fino alla fine della guerra”. Al ritorno Mario venne rimandato nell’isola dove fu impegnato nei reparti incaricati di fronteggiare la banda Giuliano. Ancora oggi ricorda spesso, mostrando una sua foto con divisa d’ordinanza e cappello “sulle 23”, come si diceva, quegli anni di rischio e di avventura. “Mi creda, uscivamo con pattuglie di sei e rientravamo in caserma in tre o quattro. E se catturavamo qualcuno i giudici lo mettevano fuori”. Ai figli e ai nipoti che lo ascoltano racconta con qualche piccola variazione – ma tanti particolari inchiodati nella mente – i due conflitti a fuoco con la banda.
Nel 1956, quando la Sicilia sembrò acquetarsi, e fu finita anche la strage dei sindacalisti contadini, venne trasferito in Abruzzo. Prima vicino l’Aquila, poi a Popoli, in provincia di Pescara. Restò nell’Arma fino al ’75. Oggi abita all’Aquila, dove ha festeggiato il suo secolo di vita, con Elia, la moglie, i figli Sabatino e Rosa Maria e le due adorate nipoti Eleonora e Stella. Attestato d’onore del sindaco di Popoli.
“Della Sicilia”, dice, “ricordo in particolare due grandi uomini, tutti e due miei coetanei, tutti e due uccisi dalla mafia: il capitano Carlo Alberto dalla Chiesa di cui fui agli ordini a Corleone per un anno, e Giuseppe Fava. Fava lo conobbi a Siracusa, giocavamo insieme a carte, eravamo due scapoloni. Qualche anno fa ho incontrato a Pescara il figlio Claudio, e gli ho ricordato suo padre che viaggiava in motorino. Indimenticabili quegli anni”.
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