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martedì 17 gennaio 2023

Arrestato Matteo Messina Denaro, l’ultimo superlatitante di Cosa nostra in fuga da 30 anni: era in una clinica di Palermo. 16 gennaio 2023

 

L'operazione dei carabinieri del Ros ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano, ricercato dall'estate 1993. Si trovava nella struttura in pieno centro dove era sottoposto a terapie da oltre un anno.

Matteo Messina Denaro, l’ultimo superlatitante di Cosa nostra, è stato arrestato questa mattina, lunedì 16 gennaio, mentre era in day hospital alla clinica Maddalena, in pieno centro a Palermo. Era ricercato dall’estate del 1993. Lo storico arresto è stato compiuto dai carabinieri del Ros dopo 30 anni di latitanza: più di cento uomini questa mattina hanno accerchiato la struttura e assediato la zona di San Lorenzo. Il blitz è scattato intorno alle 9 con tutti i militari a volto coperto: Messina Denaro è stato arrestato mentre era all’ingresso prima di cominciare la terapia. “Come ti chiami?”, gli hanno chiesto i carabinieri. “Sono Matteo Messina Denaro”: sono state queste le prime parole del boss.

Urla di incoraggiamento e applausi nei confronti dei carabinieri da parte di decine di pazienti e loro familiari hanno accompagnato l’arresto. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Trapani) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Dopo il blitz, l’ormai ex superlatitante è stato trasferito in una località segreta. Messina Denaro un anno fa era stato operato e da allora stava facendo delle terapie in day hospital nella clinica privata, una delle più note di Palermo. Nel documento falso esibito ai sanitari c’era scritto il nome di Andrea Bonafede. Il boss si era recato nella clinica privata dove è stato arrestato “per sottoporsi a terapie“, spiega il comandante del Ros dei carabinieri Pasquale Angelosanto dopo l’arresto del boss compiuto dagli uomini del raggruppamento speciale assieme a quelli del Gis e dei comandi territoriali. Insieme a Messina Denaro, è stato arrestato anche uno dei suoi fiancheggiatoriGiovanni Luppino, di Campobello di Mazara, accusato di favoreggiamento. Avrebbe accompagnato il boss alla clinica.

I segnali – L’ultima “primula rossa” di Cosa Nostra, 60 anni, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent’anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. Pochi mesi fa, a metà novembre, Il Gazzettino aveva riportato le dichiarazioni di Salvatore Baiardo, l’uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano in Nord Italia. Baiardo aveva dichiarato che Messina Denaro era gravemente ammalato. È del settembre scorso invece l’arresto di 35 persone, ritenute fiancheggiatori del boss. Tra queste anche Francesco Luppino, considerato uno dei “fedelissimi” di Matteo Messina Denaro. Una settimana fa, invece, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva dichiarato: “Auspico, per giustizia nei confronti delle vittime, che venga preso. Confido nelle forze di polizia e magistratura”.

I segreti delle stragi – Nato a Castelvetrano nell’aprile del 1962, sull’ultimo superlatitante di Cosa nostra sono stati scritti centinaia di articoli, decine di libri, informative d’indagine lunghe migliaia e migliaia di pagine. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell’ordine. Messina Denaro era l’ultimo boss mafioso di “prima grandezza” ancora ricercato. Una latitanza record come quella dei suoi fedeli alleati Totò Riina, sfuggito alle manette per 23 anni, e Bernando Provenzano, riuscito a evitare la galera per 43 anni. Era soprattutto l’unico boss rimasto in libertà a conoscere i segreti delle stragi. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dagli attentati del ’92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Da Riina ai fratelli Graviano, passando per Leoluca BagarellaGiovanni Brusca e poi anche Bernardo Provenzano, tutti gli uomini della piovra che hanno attraversato quel biennio di terrore erano però già finiti, in un modo o nell’altro, in carcere. Tutti tranne lui, fino ad oggi.

Le condanne – Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. Il “fantasma” di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del 1992, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/01/16/arrestato-matteo-messina-denaro-superlatitante-cosa-nostra/6937422/?fbclid=IwAR2si_9pQ5KOMfZaI2r_OzHC5As8mIcgefQbuCq_Wu0iLxZfzbMTg4VGl9s

mercoledì 15 luglio 2020

L’ultimo testimone. Lo “sbirro” centenario che indagava sul bandito Salvatore Giuliano. - Nando dalla Chiesa

IL BANDITO GIULIANO E LA SUA BANDA – Misteri d'Italia

Ricordate il leggendario film di Francesco Rosi Il bandito Giuliano? Arrivò nelle sale cinematografiche nel 1962 a mostrare all’Italia del boom economico il sangue e i misteri su cui era nata la Repubblica. Fece rivedere con crudezza quel giovanotto di Montelepre, metà brigante metà giovane leader criminale, tenere in scacco lo Stato. Grazie a una rete occulta di alleanze e protezioni (il separatismo degli agrari, ma non solo) e a un’omertà popolare fatta di cemento. Raccontò la strage di Portella della Ginestra e la “cattura” del bandito. E il processo di Viterbo con l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, il cugino di Giuliano che aveva annunciato rivelazioni sui mandanti politici di Portella. Mostrò plotoni di carabinieri dare la caccia al ribelle. Infagottati nelle storiche divise cachi con la bandoliera a tracolla, su grandi camion pronti a diventare facili bersagli per le bombe e le fucilerie dei banditi.

Ecco, nelle immagini del film colpisce quella presenza costante di centinaia di uomini in divisa finiti nel punto più drammatico dell’Italia a lottare contro un nemico feroce e inimmaginabile nell’Europa di allora. Con relativi eccidi, al punto che gli appelli del governo in cerca di volontari per la Sicilia cadevano nel vuoto. Tutto maestosamente in bianco e nero. Film consigliatissimo.

Un’epopea lontana, oltre settant’anni fa. Senza più testimoni. Né il colonnello Ugo Luca, che guidò il Comando forze repressione banditismo, né il ministro dell’Interno Mario Scelba, né i sindacalisti andati a festeggiare il primo maggio del ’47 sui prati di Portella della Ginestra. E nemmeno i cronisti che indagarono sulla messinscena della morte di Giuliano. Nessuno. Nessuno tranne un carabiniere. Che l’altro giorno ha compiuto cento anni. Eccezionale fonte orale, unica memoria vivente di quel periodo.

Si chiama Mario Furnari. Siciliano, nato a Enna nel 1920 da famiglia contadina nelle campagne in cui la terra era un sogno proibito, ancora ragazzo cercò uno stipendio e nuovi orizzonti arruolandosi nell’Arma. Gennaio ’39, poco prima dello scoppio della guerra. I nuovi orizzonti si rivelarono però subito di morte e di stenti. “Ero in Montenegro. L’8 settembre mi diedi alla macchia, dopo un po’ di mesi in fuga sui monti i tedeschi mi catturarono e mi internarono in un campo in Germania. Durò un anno, fino alla fine della guerra”. Al ritorno Mario venne rimandato nell’isola dove fu impegnato nei reparti incaricati di fronteggiare la banda Giuliano. Ancora oggi ricorda spesso, mostrando una sua foto con divisa d’ordinanza e cappello “sulle 23”, come si diceva, quegli anni di rischio e di avventura. “Mi creda, uscivamo con pattuglie di sei e rientravamo in caserma in tre o quattro. E se catturavamo qualcuno i giudici lo mettevano fuori”. Ai figli e ai nipoti che lo ascoltano racconta con qualche piccola variazione – ma tanti particolari inchiodati nella mente – i due conflitti a fuoco con la banda.

Nel 1956, quando la Sicilia sembrò acquetarsi, e fu finita anche la strage dei sindacalisti contadini, venne trasferito in Abruzzo. Prima vicino l’Aquila, poi a Popoli, in provincia di Pescara. Restò nell’Arma fino al ’75. Oggi abita all’Aquila, dove ha festeggiato il suo secolo di vita, con Elia, la moglie, i figli Sabatino e Rosa Maria e le due adorate nipoti Eleonora e Stella. Attestato d’onore del sindaco di Popoli.

“Della Sicilia”, dice, “ricordo in particolare due grandi uomini, tutti e due miei coetanei, tutti e due uccisi dalla mafia: il capitano Carlo Alberto dalla Chiesa di cui fui agli ordini a Corleone per un anno, e Giuseppe Fava. Fava lo conobbi a Siracusa, giocavamo insieme a carte, eravamo due scapoloni. Qualche anno fa ho incontrato a Pescara il figlio Claudio, e gli ho ricordato suo padre che viaggiava in motorino. Indimenticabili quegli anni”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/07/13/lultimo-testimone-lo-sbirro-centenario-che-indagava-sul-bandito-salvatore-giuliano/5866057/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=ore-19&utm_term=2020-07-13#