Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 18 settembre 2020
M5S: espulso Rizzone, coinvolto nel caso "furbetti bonus".
Taglio parlamentari: i quaranta modi di dire Sì. - Giacomo Salvini
Quaranta nomi, quaranta motivi, quaranta Sì al taglio dei parlamentari. Nei giorni scorsi, i più noti costituzionalisti, intellettuali, giornalisti, professori, attori, comici e personaggi dello spettacolo italiani si sono espressi favorevolmente al referendum di domenica sulla riforma costituzionale per ridurre 345 eletti tra Camera e Senato. Nel giorno in cui anche Conte ribadisce il suo Sì (“non si riduce la rappresentanza”) si sono aggiunte anche la giornalista Selvaggia Lucarelli secondo cui questo “è un bel segnale di un Parlamento che si autodisciplina” e l’attrice Monica Guerritore che vota per “ridare forza e autorevolezza al Parlamento”.
In primis tra i favorevoli alla riduzione dei parlamentari ci sono le migliori menti del diritto costituzionale italiano – da Enzo Cheli a Lorenza Carlassare passando per Mauro Volpi, Gian Candido De Martin, Roberto Zaccaria e gli ex presidenti della Corte costituzionale Valerio Onida e Ugo De Siervo – che argomentano il proprio Sì sulla base di decenni di studi sull’argomento: Carlassare ha ricordato come, già nella Costituente del 1946, gli onorevoli Francesco Saverio Nitti e Giovanni Conti “avevano chiesto di ridurre i parlamentari”, Cheli, che “con le Regioni e il Parlamento Ue oggi non c’è più l’esigenza di avere 945 parlamentari”, e Onida spera che con il taglio “le due Camere potranno lavorare meglio”.
I due economisti Roberto Perotti e Tito Boeri, oltre a mettere in evidenza un miglioramento “nell’efficienza del Parlamento”, invece, spiegano il proprio Sì facendo i conti in tasca alla riforma: il taglio, secondo i loro calcoli, dovrebbe portare un risparmio totale di 100 milioni all’anno, pari a mezzo miliardo a legislatura per i contribuenti. Non proprio bruscolini. Sempre Boeri e Perotti, nei giorni scorsi, hanno sottolineato come il 40% dei deputati e il 30% dei senatori nella passata legislatura hanno disertato un terzo delle sedute: quindi, basterà non pagare più gli assenteisti e il gioco è fatto.
Poi ci sono molti intellettuali di sinistra che si oppongono a coloro che, dall’altra parte, votano No gridando al “vulnus di rappresentanza” e al rischio di una ipotetica “deriva autoritaria”: da Barbara Spinelli (“Molti sono contrari solo per far fuori il Movimento 5 Stelle”) a Erri De Luca (“Così si ridurrà un privilegio”), passando per Salvatore Settis fino all’ideologo del Partito democratico, Michele Salvati, che spera nelle ulteriori “riforme” e per aiutare il governo Conte. Sempre tra i padri nobili dei dem, ieri Enrico Letta sul Fatto ha spiegato che “negli ultimi decenni già un terzo dei parlamentari non lavora” mentre l’ex senatore dem Felice Casson ha ricordato ai compagni di partito che “già nel 2008 questa era una riforma voluta dal Pd”. Nella formazione dei Sì ci sono anche molti noti giornalisti tra cui il fondatore del Fatto Antonio Padellaro, Gad Lerner, Giovanni Valentini, Antonio Polito, Beppe Severgnini e i volti televisivi come Lucia Annunziata e Giovanni Floris. Qui a fianco trovate tutti i loro motivi per votare Sì: il Fatto è in ottima compagnia.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/18/taglio-parlamentari-i-quaranta-modi-di-dire-si/5935432/#
Referendum, attenzione alla fallacia del bastone e del contagio (per il Sì). - Daniele Luttazzi
Questo è un referendum di tipo “confermativo” (Valerio Onida, Domani, 13.09.20)
Quello del 20 e 21 settembre non è un referendum confermativo (Nadia Urbinati, Domani, 16.09.20)
Nelle ultime due settimane, la discussione pubblica sul referendum mi pare non abbia aggiunto nulla di significativo a quanto mi disse, il 25 agosto scorso, la cuoca cinese di zia: nipote di Qing Jiang e Mao, di politica ci capisce, e quando ho dei dubbi le chiedo lumi, anche se in un piede porta il 32 e nell’altro il 45. Dopo di lei, la maggioranza dei costituzionalisti e degli opinionisti italiani ha dovuto convenire che la decisione per il Sì e per il No, alla fin fine, è solo di natura politica (le cui tendenze estreme sono votare No contro il governo, e Sì pro): la motivazione economica del risparmio non regge (si risparmierebbe molto di più tagliando le spese per il personale di Camera e Senato, e i compensi dei parlamentari e dei loro assistenti). Nessuno, poi, è riuscito a spiegare (perché è impossibile) in che modo una riduzione del numero dei parlamentari migliori le prestazioni del Parlamento; e quanto alla rappresentanza, solo la cuoca di zia ha distinto quella territoriale (per la quale il numero dei parlamentari è arbitrario: si tratta puramente di decidere, su un ipotetico cursore che va da 1.000 parlamentari a zero, a che punto la democrazia finisce) e quella politica (il taglio lineare ottenuto con i Sì penalizzerà i partiti piccoli, specie al Senato: servirà un’altra legge costituzionale). La cuoca di zia, in più, faceva una premessa: la proposta Ferrara-Rodotà del 1985 (una sola Camera di 500 deputati eletti con una legge proporzionale) era perfetta perché riaffermava la centralità del Parlamento contro la sua sudditanza ai governi che decretano d’urgenza, e non creava scompensi come il taglio lineare ora in palio. Inoltre, notava con malizia che meno parlamentari ci sono più sembra naturale il vincolo di mandato che piacerebbe ai fautori della cosiddetta “democrazia diretta” (“Una dittatura della maggioranza che azzera la voce delle opposizioni”, dice Yu, sbocconcellando una frisella intinta nel Fernet), dopo il quale si potrebbero far votare solo i capigruppo, una vecchia idea di Berlusconi.
Sostenere il Sì dicendo che il fronte del No raggruppa un sacco di gente che in passato era per il Sì lascia il tempo che trova: innanzitutto perché, come già detto, la scelta è politica, e in politica il contesto è dirimente (ogni voto è sempre usato per altri interessi, oltre a quelli nominali); poi perché lo stigma su chi cambia idea implica che sia sempre spregevole farlo, e che non si debba imparare dall’esperienza, o approfittare di un’occasione, una cosa che fanno tutti. Infine, sostenere il Sì dicendo che votano No Berlusconi e Formigoni è la classica fallacia del contagio, come lo è usare l’endorsement dei vip; paventare l’arrivo delle destre se vince il No, invece, è la fallacia del bastone (e istiga chi è di destra a votare No). È giusto auspicare riforme che rendano il sistema parlamentare meno confuso. “Ma dopo le Regionali chissà cosa succederà”, commenta Yu, bravissima a cucinare pugliese, crede lei, mentre prepara una puccia per la mia colazione (è un panino di semola senza mollica, farcito con un soffritto di melanzane, pomodorini e aglio). “Per sanare le disfunzioni attuali, dovreste rivedere un po’ di cose: le commissioni parlamentari, i tempi contingentati, lo squilibrio fra il triciclo concesso agli emendamenti dei parlamentari e la Porsche di cui godono i maxi-emendamenti del governo”. Poco dopo, ho dovuto ammettere a me stesso che una puccia come quella non l’ho mai mangiata in vita mia. E non la mangerò mai più.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/18/referendum-attenzione-alla-fallacia-del-bastone-e-del-contagio-per-il-si/5935443/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-09-18
Il sì al taglio dei parlamentari serve per far funzionare meglio le camere. - Valerio Onida (Costituzionalista)
- Il referendum del 20 e 21 settembre sul taglio dei parlamentari non coinvolge alcun valore costituzionale primario, ma riguarda solo l’opportunità di una scelta fatta dal parlamento a larghissima maggioranza.
- Le ragioni del No sono deboli: un parlamento con meno membri non ha meno influenza, visto che mantiene le sue prerogative. La rappresentatività non viene compromessa, perché il rapporto tra elettore ed eletto oggi non è personale, ma filtrato dai partiti.
- Ridurre il numero di eletti potrebbe migliorare l’efficienza delle camere e offrire l’occasione per modificare i regolamenti parlamentari. Non regge, invece, la ragione del risparmio: il buon funzionamento delle istituzioni non può essere subordinato a ragioni di costo.
Il tema del referendum indetto per il 20 e 21 settembre non è di quelli che coinvolgano valori costituzionali primari e quindi inducano a battaglie di principio. Che i membri della Camera siano 630 o 400 e quelli del Senato 315 o 200 (più i senatori a vita), non cambia di per sé nulla in termini di rappresentatività e di funzionalità del parlamento né di equilibri costituzionali fra poteri.
Vale allora la pena di riflettere non tanto sul contenuto della riforma, quanto sulle ragioni che possano indurre a confermare o smentire la scelta fatta dal parlamento. Infatti questo è un referendum di tipo “confermativo” o “oppositivo”, in cui l’elettorato è chiamato a confermare o smentire la deliberazione del parlamento.
Il merito.
La legge costituzionale è stata approvata da Camera e Senato con due deliberazioni ciascuno, a distanza di tempo l’una dall’altra (dal 7 febbraio all’8 ottobre 2019), con maggioranze quasi sempre superiori alla metà dei componenti delle assemblee, e da ultimo quasi all’unanimità dalla Camera: su 567 votanti, 553 favorevoli – il 97,5 per cento, ben più dei due terzi – 14 contrari e 2 astenuti. In linea di principio, dunque, occorrerebbe addurre valide ragioni per dire no.
Anche una astensione, frutto di una valutazione di relativa indifferenza sul contenuto della riforma, si potrebbe spiegare, ma, in assenza di quorum, essa potrebbe portare a far prevalere una minoranza attiva di “no” rispetto ad un elettorato che non abbia invece ragione di opporsi alla legge votata dal parlamento.
Dico subito che mi sembrano sbagliate o inconferenti soprattutto le ragioni che in questi giorni vengono avanzate per opporsi alla riforma. Così è per la motivazione basata su una pretesa “mutilazione” del parlamento e della Costituzione.
Non è che assemblee dotate degli stessi poteri ma con un minor numero di eletti siano destinate ad avere minore influenza nella vita della Repubblica. Questa dipende dai poteri a esse spettanti e dai rapporti che le assemblee hanno con gli altri organi costituzionali.
Certo, non si è affrontato come probabilmente meriterebbe il tema di un revisione del cosiddetto bicameralismo paritario oggi vigente, cioè di due camere formate in gran parte allo stesso modo e dotate degli stessi compiti, soprattutto del potere di dare o togliere la fiducia al governo. Ma questa non è una ragione per dire no alla semplice riduzione del numero degli eletti.
Nemmeno è vero che viene compromessa la rappresentatività delle assemblee nei riguardi dell’elettorato.
Su una platea, ad oggi, di 51.403.000 elettori, un rapporto di rappresentanza di un eletto ogni 128.000 elettori non è tanto diverso da un rapporto di uno ogni 81.000 elettori.
Non siamo più ai tempi del suffragio ristretto, in cui l’eletto era espressione di poche centinaia di elettori che potevano avere una conoscenza ravvicinata dei loro rappresentanti.
Oggi l’elettore sceglie per lo più un partito o un movimento politico, che seleziona i candidati, e un rapporto più personale con gli eletti, se c’è, passa essenzialmente attraverso partiti, organizzazioni sociali o comunicazioni diffuse attraverso la rete, oppure attraverso le indicazioni di preferenza.
Invece, rapporti più “ravvicinati” fra singoli eletti ed elettori possono persino essere frutto di intrecci malsani o del prevalere di interessi particolari.
Quindi, il taglio del numero dei parlamentari non deriverebbe meno democrazia.
Certo, con meno eletti sarà un poco più difficile accedere alle camere da parte di esponenti di formazioni politiche molto piccole. Ma, ferma l’esigenza di assicurare il pluralismo, non è desiderabile l’eccessiva frammentazione delle formazioni politiche e dei gruppi parlamentari in cui si collocano gli eletti.
L’eccesso di frammentazione può rendere più difficili le sintesi politiche e la formazione di maggioranze: non a caso, oggi opportunamente si discute di introdurre, nei sistemi elettorali proporzionali, clausole di sbarramento più alte come il 5 per cento, o addirittura di scegliere sistemi prevalentemente maggioritari, in cui l’accesso alle assemblee delle piccole minoranze è ancora più difficile. In ogni caso questo è un problema da affrontare in sede di legge elettorale.
Il ruolo delle regioni.
Ancora, i sostenitori del No lamentano diseguaglianze nel rapporto tra elettori ed eletti nelle diverse regioni. Ma questo dipende dal fatto che, già oggi, il Senato è eletto a base regionale e si vuole assicurare una rappresentanza minima a ogni regione: oggi ci sono almeno sette senatori per regione (salvo le eccezioni di regioni piccolissime come la Val d’Aosta e il Molise), domani sarebbero almeno tre, in relazione alla diminuzione del numero complessivo.
Il fatto che si attribuiscano tre senatori a ciascuna delle due province autonome del Trentino-Alto Adige dipende dal fatto che, giustamente, si tiene conto che le due province hanno in sostanza le caratteristiche e lo statuto di regioni.
Quanto al modo in cui le assemblee funzionano, non è affatto vero che una camera più numerosa funzioni meglio di una meno numerosa (altrimenti, nella situazione attuale, il Senato funzionerebbe meno bene della Camera).
Anzi, poiché l’attuale modo di funzionamento del parlamento non è molto buono - caratterizzato com’è spesso da dibattiti ripetitivi in cui, più che confrontarsi sul merito dei problemi, ci si esercita in proclamazioni polemiche e propagandistiche, oltre che da frequente assenteismo (quanti sono i deputati ogni giorno in missione?) - c’è, al contrario, la possibilità che, cogliendo l’occasione della riduzione del numero di eletti, si metta mano ai regolamenti e a certe prassi parlamentari (per esempio, ma non solo, riducendo i tempi degli interventi) per migliorare l’efficienza dei lavori delle camere.
Né si può dire che i componenti di camere meno numerose abbiano più difficoltà a partecipare ai lavori, nel plenum e nelle commissioni. Cosa resta allora delle argomentazioni con cui si sostiene il No?
Resta, paradossalmente, solo la giusta critica ad uno degli argomenti che spesso viene portato per il Sì, ma che è a sua volta del tutto infondato e inaccettabile: quello del risparmio di spesa.
Il buon funzionamento delle istituzioni costituzionali non può essere subordinato a ragioni di costo, e dunque il risparmio cercato sui “costi della politica” (quando non si tratti di eliminare veri e propri sprechi o eccessi di spesa non necessaria per tale funzionamento) non può mai essere una ragione per scegliere una soluzione istituzionale piuttosto che un’altra.
(Valerio Onida è professore emerito di diritto costituzionale all'Università Statale di Milano ed ex presidente della Corte Costituzionale.)
https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/il-s-al-taglio-dei-parlamentari-serve-per-far-funzionare-meglio-le-camere-aq8yq4va
Turatevi il naso. - Marco Travaglio
Le Regionali di domenica e lunedì sono nelle mani dell’unico partito che non rischia di vincerle: i 5Stelle. Non parlo dei vertici, che han già fatto la loro non-scelta (stare col centrosinistra al governo e contro il centrosinistra nelle Regioni, Liguria a parte). Parlo degli elettori, che faranno la differenza in Toscana, Marche e Puglia. E dovranno essere più responsabili e lungimiranti dei leader. Così come gli iscritti, che un mese fa han votato Sì su Rousseau alle alleanze nei territori contro le aspettative di chi (Casaleggio in primis) non le vuole. Quel voto è arrivato alla vigilia della chiusura delle liste, troppo tardi per ribaltare una situazione già compromessa. Infatti Conte e Di Maio si sono appellati ai grillini di Marche e Puglia perché si sedessero al tavolo col Pd, offrendo alleanze in cambio di impegni programmatici. Invano. Quindi ciò che non han potuto o voluto fare i vertici nazionali e locali dovrà farlo la parte più avveduta degli elettori: usare bene il voto disgiunto, almeno in Toscana e Puglia dov’è consentito. Cioè votare la lista del M5S, per dargli forza nei consigli regionali, e il candidato presidente del Pd: il toscano Giani,il pugliese Emiliano.
Di Giani sappiamo pochissimo: è uno storico e un politico di lungo corso, nato nel Psi ma rimasto incensurato e financo intonso da scandali, caso clamoroso in quell’ambientino. La sua voce non l’ha mai sentita nessuno, e non è un difetto nella banda di urlatori e vaiasse che infesta la politica. Il suo difetto è di piacere all’Innominabile, che però ormai è un pelo superfluo della politica. Certamente non è un uomo di rottura: un semolino sanza infamia e sanza lode che nessuno potrebbe mai appassionarsi a votare se non avesse come alternativa Susanna Ceccardi. Nessuno può dire che Giani e Ceccardi pari siano. E, siccome se perde Giani vince la Ceccardi, chi non vuole consegnarle la Toscana deve pensarci bene prima di votare Irene Galletti, candidata presidente M5S che ha zero possibilità di vincere, ma ottime possibilità di far perdere Giani. Il voto disgiunto consente agli elettori dei 5Stelle di sventare l’avvento della peggior destra e di votare per i propri consiglieri regionali, così da averne un buon numero per fare opposizione a Giani e tenerlo d’occhio.
Di Emiliano invece sappiamo ben di più: ex pm antimafia e antitangenti, buon sindaco di Bari, molto contestato nel primo mandato di presidente, personalmente onesto ma disinvolto nelle alleanze (ha messo insieme un po’ di tutto nelle sue ben 15 liste e ora deve costringere a ritirarsi due impresentabili), molto vicino ai 5Stelle sulle questioni ambientali Ilva, Xylella e Tap fino a guadagnarsi la fama di “protogrillino” e quinta colonna M5S nel Pd.
Dunque odiato dall’Innominabile e da Calenda, che gli hanno scatenato contro nientemeno che Scalfarotto. Nessuno può affermare che Emiliano e Fitto pari siano. Malgrado abbia 10 anni in meno di Emiliano, Fitto è infinitamente più vecchio, avendo sgovernato la Puglia 20 anni or sono, prima di Vendola, cioè nella preistoria, fra scandali e scelte scellerate. Basti pensare che nella sua lista “La Puglia prima di tutto”, alle Comunali 2009, spiccavano le candidate Patrizia D’Addario e Barbara Montereale: due delle escort della scuderia Tarantini più amate da B. Poi naturalmente, appena B. declinò, don Raffaele lo tradì per vagolare fra centri e centrini finché fu raccattato dalla Meloni. Certo, obietterà un 5Stelle, c’è Antonella Laricchia, consigliera regionale giovane, capace e pugnace, anche se lievemente intollerante alle critiche: è brava, è onesta e senza di lei molti pugliesi schifati da Fitto e delusi da Emiliano non andrebbero alle urne. Tutto vero. Ma, per quanti voti prenda (pare tanti), Laricchia è a distanze siderali sia da Fitto sia da Emiliano (contro cui già perse nel 2015). Cioè dagli unici vincitori possibili.
Anche in Puglia, non essendo venute meno le ragioni per contrastare molte politiche di Emiliano, i 5Stelle potranno seguitare a fargli opposizione, pur se convergeranno su qualche punto. E la forza della Laricchia aumenterà i loro consiglieri. Ma assistere impassibili, anzi ignavi allo scontro fra Emiliano e Fitto come se l’esito non riguardasse tutti i pugliesi sarebbe da irresponsabili. Molti lo sanno, come lo sapevano i molti grillini dell’Emilia-Romagna che alla fine optarono per il voto disgiunto contro la Borgonzoni (cioè Salvini): lista 5Stelle, presidente Bonaccini (molto più indigesto di Emiliano). Anche allora, come ora in Puglia e Toscana, pesò il fattore nazionale: cioè quel malcostume tutto italiano che legge nelle elezioni regionali, comunali e financo nei referendum un giudizio di Dio pro o contro il governo. Non ci sono solo Salvini, la Meloni e il redivivo B. che attendono lunedì sera con la bava alla bocca per dare il benservito a Conte, cioè al primo e forse ultimo premier scelto dai 5Stelle: ci sono pure l’Innominabile e le sue quinte colonne rimaste nel Pd e tutti i poteri economico-finanziari con i loro giornaloni, che non vedono l’ora di cacciare i 5Stelle dal governo e spodestare Zingaretti che difende l’alleanza con loro, per mettere le zampe sui miliardi del Recovery Fund e del Mes e tornare agli inciuci e alle razzie del passato. Pronti addirittura a voltare gabbana dal Sì al No sul taglio dei parlamentari pur di abbattere Conte. Quindi, per farla breve e parafrasare Montanelli: turatevi il naso e votate disgiunto.
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giovedì 17 settembre 2020
Colleferro. Orologi d’oro, ville, vacanze e auto di lusso: ma i fratelli Bianchi (e il padre) percepivano il reddito di cittadinanza. - Vincenzo Bisbiglia
Come si guadagnavano allora da vivere (e non solo)? “I fratelli Bianchi lavorano su commissione, chi ha un credito e non riesce a farsi restituire i soldi manda loro dal debitore. Arrivano, picchiano e tornano con i soldi”, è la tesi degli inquirenti che gli avvocati stanno cercando in tutti i modi di smentire, tirando addirittura in ballo il caso Tortora. Dal racconto di chi indaga, in particolare “i gemelli” lavorano come emissari dei pusher di zona: quando gli “acquirenti” iniziano a indebitarsi, gli spacciatori chiamano loro, i “picchiatori”, che intervengono per “suonarle” a chi si è attardato troppo. “In molti nemmeno denunciano, non gli conviene”, ripetono, quasi rassegnati.
E c’è anche un giro, fisso. Di solito la loro serata inizia a cena ad Artena, al Nai Bistrot di Alessandro Bianchi, il fratello maggiore, chef “di livello” che ha dato il via all’attività di famiglia poche settimane fa. Poi parte il tour dei paesi. Colleferro è la prima tappa, fissa. In piazza Italia, davanti alla caserma. Poi si va a Lariano, comune dei Castelli attaccato alla frazione di Colubro, dove la famiglia Bianchi vive. Quindi Giulianello, sede delle Macellerie Sociali, il cui titolare Marcello ha pubblicato sui social un racconto eloquente delle prepotenze perpetrate dai “gemelli”. Infine Cori, in provincia di Latina inoltrata.
Il caso è arrivato in Parlamento. Ce lo ha portato il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, che ha presentato un’interrogazione al Governo: “È vero che i quattro accusati percepivano il reddito di cittadinanza? Se sì, come mai le indagini patrimoniali sono state effettuate solo a seguito dell’omicidio di Colleferro, quando invece era noto a tutti lo stile di vita alquanto sopra le righe che i quattro conducevano?”. E ancora: “Che il reddito di cittadinanza sia stato nei mesi erogato a delinquenti, spacciatori, contrabbandieri ed ex terroristi era cosa già acclarata, ma il caso dei quattro arrestati per l’assassinio di Willy dimostra come questa marchetta di Stato non preveda alcun controllo”.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/09/17/colleferro-orologi-doro-ville-vacanze-e-auto-di-lusso-ma-i-fratelli-bianchi-e-il-padre-percepivano-il-reddito-di-cittadinanza/5934482/
Minzione di sfiducia. - Marco Travaglio
L’altra sera, a Otto e mezzo, Alessandro Sallusti ne ha detta una giusta: “Ci mancherebbe altro che il governo non riuscisse a riaprire le scuole!”. Già, ma fino al giorno prima l’intera stampa e tutti gli iscritti al partito dominante – il Partito Preso – dicevano che le scuole non avrebbero riaperto e, se qualcuna si fosse azzardata a farlo, si sarebbe presentata agli studenti senza aule, né sedie né banchi né cattedre né insegnanti né bidelli né mascherine né lavagne né gessetti né cessi né niente. Questo continuo annunciare catastrofi e apocalissi che poi non si verificano mai è uno dei motivi per cui la gente non si fida più dei giornali.
Il Reddito di cittadinanza non si farà mai! Fatto. Il blocco della prescrizione non passerà mai! Passato. Non oseranno mai cacciare i Benetton da Autostrade! Cacciati. Il governo M5S-Pd è impossibile! Infatti. Conte non eviterà mai la procedura d’infrazione! Evitata due volte. Gli Eurobond non passeranno mai! Passati. Conte non avrà mai 173 miliardi di Recovery Fund! Ne ha ottenuti 209. Tutti prenderanno il Mes e Conte e M5S caleranno le brache! In Europa non lo vuole e non ne parla nessuno, a parte Cipro e i nostri giornaloni. Non riusciremo mai a far abolire i trattati di Dublino sui migrantii! Ieri Von der Leyen ne ha annunciato l’abolizione. Conte cade! Oggi no, domani vedremo. Così le scuole: fino al giorno prima di riaprire, non dovevano riaprire.
“I sindacati alla Azzolina: ‘La scuola non riaprirà’” (Giornale, 18.7).
“Salta il banco. Disastro Arcuri-Azzolina. Caos scuola su tavoli e sedie. Rivolta delle aziende contro l’assurdità del bando: ‘Ci vogliono 5 anni per 3,7 milioni di banchi’” (Giornale, 23.7).
“I presidi denunciano i ritardi del ministero: così non riusciamo a ripartire. Assufficio e Assodidattica: ‘Qualcuno si pone il problema se la gara dei banchi andrà deserta?’” (Repubblica, 24.7).
“‘La gara andrà deserta’. Il pasticcio di Arcuri e Azzolina sui banchi” (Luciano Capone, Foglio, 24.7).
“Scuola, rischio caos per settembre. I produttori: impossibile fornire 3 milioni di banchi. Assufficio: le condizioni di gara non sono accettabili. I produttori potrebbero disertare il bando” (Sole 24 Ore, 28.7).
“Azzolina-Arcuri, 2 incapaci coperti da Conte. Il bando andrà deserto, è scritto coi piedi” (Mario Giordano, Verità, 29.7).
“Arcuri fa cagate di bandi” (Nicola Porro, 30.7).
“Sui banchi anche la Scavolini scarica Arcuri. Se non saranno gli stranieri né i colossi italiani, chi salverà la scuola? Un altro bluff, ma di breve durata. Le aziende non si sono fatte avanti, né i colossi italiani ne quelle straniere” (Capone, Foglio, 31.7).
Poi al bando partecipano 14 aziende italiane e straniere e lo vincono in 11 per consegnare 2,4 milioni di banchi entro ottobre. Ma subito si ricomincia.
“La resa del governo sulla scuola: lezioni da casa. In sei mesi non è cambiato nulla” (Libero, 1.9).
“La scuola riapre con le classi a turno. Studenti obbligati a rimanere a casa” (Verità, 3.9).
“Coperte solo 3 cattedre su 10” (Messaggero, 4.9).
“Scuole in alto mare: ‘Rinviamo l’apertura’” (Repubblica-Roma, 5.9).
“Scuola, ultimi in Europa. Linee guida oscure e diffuse all’ultimo momento. Nessun collegamento coi servizi territoriali. E il record di chiusura. Il confronto con l’Ue è impietoso” (Espresso, 6.9).
“Scuole al via senza banchi. E manca un docente su 4” (Messaggero, 7.9).
“Banchi in ritardo, l’ansia del Quirinale” (Corriere della Sera, 7.9).
“Scuola, caos a una settimana dal via” (Messaggero-Roma, 8.9).
“Colle pronto a bocciare Giuseppi sulla scuola. Mattarella è stufo di lui” (Maurizio Belpietro, Verità, 8.9).
“La scuola riparte solo a metà” (Repubblica, 9.9).
“Scuola, le spinte per il rinvio. Molti presidi chiedono di ritardare l’avvio delle lezioni” (Corriere della Sera, 9.9).
“In aula un giorno a settimana o turni di 3 ore: è una giungla” (Messaggero, 9.9).
“Senza banchi né prof: ‘Costretti ad aprire, ma non siamo pronti’” (Repubblica-Roma, 10.9).
“I presidi si ribellano: ‘Così è impossibile partire’” (Stampa, 10.9).
“La campanella della scuola si prepara a suonare a morto” (Libero, 10.9).
“Conte: al via il 14. Ma i presidi si ribellano” (Stampa, 10.9).
“Conte: scuole al via. Presidi in trincea: il 14 è impossibile” (Messaggero, 10.9).
“Lezioni da casa per tutto l’anno” (Messaggero, 11.9).
“Scuola al via, mascherine già un miraggio” (Stampa, 11.9).
“Scuola senza aule, banchi e mascherine” (Verità, 11.9).
“Una scuola su 4 è a rischio chiusura” (Giornale, 12.9).
“Promesse mancate. Il tempo perso che rende pericoloso tornare in aula” (Luca Ricolfi, Messaggero, 12.9).
“Per tornare in classe ci rimane il Padreterno. Manca tutto, resta solo la fede” (Libero, 13.9).
Poi la scuola riapre, all’italiana ma molto meno peggio delle attese, e subito sparisce dai radar dei giornali. Che già preparano la prossima bufala. Ci vorrebbe una mozione di sfiducia, se non ci avessero già pensato i lettori.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/17/minzione-di-sfiducia/5934284/