VENEZIA - Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963. E' in questo istante che un'enorme frana di roccia di circa due chilometri quadrati di superficie e 260 milioni di metri cubi di volume, si stacca dalle pendici del Monte Toc, dietro la diga del Vajont, tra il Friuli e il Veneto. L'enorme massa, un corpo unico, piomba nel sottostante lago artificiale nel quale l'11 aprile, con la terza ed ultima prova di invaso, l'acqua ha raggiunto quota 700,42 metri sul livello del mare.
Lo schianto solleva un'onda di 230 metri d'altezza e ben 50 milioni di metri cubi di materiale solido e liquido in sospensione si alzano. La metà della massa d'acqua scavalca la diga, abbattendosi nella sottostante valle del Piave, provocando la distruzione di sette paesi (Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo). L'altra parte dell'onda sale la valle e va a 'colpire' i paesini friulani di Erto e Casso e una miriade di borghi. Verso Longarone, allo sbocco del Vajont, l'onda è alta 70 metri e produce un vento sempre più intenso, che porta con sé, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori, le persone si rendono conto di ciò che sta per accadere ma non possono più scappare. Lo stesso 9, la prima notizia dell'ANSA titola 'Disastro notte zona del Vajont' e parla di decine di case spazzate via, di morti e feriti, di collegamenti interrotti. La geografia dei luoghi, già sconvolta dalla realizzazione della diga, cambia per sempre.
L'ondata rade al suolo le case ma anche scheggia le altre montagne mentre la cicatrice sul Monte Toc ha la forma di una 'M' gigantesca. I morti accertati sono 1.910 (di cui 1450 solo a Longarone), a cui si aggiungono i 10 caduti sul lavoro durante gli anni di costruzione della diga. Che stesse per succedere qualche cosa alla vigilia del disastro se n'era accorto Alberico Biadene, Direttore costruzioni della Sade, che l'8 ottobre a neppure 24 ore dal disastro, chiede ai vertici della società costruttrice - la Sade - di far scattare l'allarme e provvedere con un piano di evacuazione delle cittadine di Erto e Casso. Il 9 ottobre, prima dell'onda assassina, la frana 'sussurra' che sta per muoversi con gli alberi, là dove resterà la 'M', che si inclinano.
E' mezzogiorno poi quando alcuni operai, in pausa pranzo, vedono ad occhio nudo il movimento della montagna. Uno di loro tra le 15 e le 16 vede degli alberi cadere ed alcune zolle rotolare a valle. Gli animali, nelle stalle e nei cortili passano dal silenzio assoluto all'agitazione, gli uccelli scompaiono. Alle 22 il geometra Giancarlo Rittmeyer telefona a Biadene, a Venezia, per comunicare la sua preoccupazione, dato che la montagna ha cominciato a cedere visibilmente. 39 minuti dopo la telefonata è il disastro e lo stesso geometra è tra le vittime. Solo alle prime luci dell'alba gli occhi dei sopravvissuti possono vedere ciò che è accaduto, mentre la diga, li guarda intatta. Il greto del Piave è stato raschiato dall'onda che ha cancellato del tutto Longarone. Case, chiese, alberghi, osterie, monumenti, piazze e strade sono sommerse dall'acqua che gli ha sradicati dalle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimangono che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Svetta solo il campanile di Pirago, graziato dall'onda assassina. Il 10 ottobre il Gazzettino fa tre edizioni del giornale. Questi i titoli che aprono le 'prime': "Disastro alla diga del Vajont"; "Disastro alla diga del Vajont", edizione straordinaria; "Le prime fotografie", ultima straordinaria. Il Corriere della Sera, il 10 ottobre, apre a tutta pagina con il titolo "L'onda della morte" e sul posto manda a raccontare l'accaduto Giorgio Bocca e il bellunese Dino Buzzati. Subito scatta la commissione d'inchiesta ministeriale e il Presidente della Repubblica Antonio Segni accorre nella valle del Piave e, vedendo il disastro dall'alto dell'elicottero, piange.
Del Vajont, lo stesso Segni, si ricorda nel suo messaggio di fine anno. Per una ferita mai chiusa l'iter processuale è eterno. Nel 1968, il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza contro lo stesso Biadene, l'unico che farà un periodo in carcere, ed altre 10 persone di cui due nel frattempo decedute mentre una terza, alla vigilia del processo, si suicida. Il processo di primo grado si tiene nel tribunale dell'Aquila con le prime tre condanne, nel 1969, a sei anni di reclusione di cui due condonati. Nel 1970, sempre all'Aquila, si tiene l'Appello e ad essere condannati, qui, sono sempre Biadene e una seconda persona. Sentenza confermata in Cassazione nel 1971 ma l'unico a pagare è Biadene (cinque anni di reclusione di cui tre condonati).
Negli anni '70 inizia la battaglia per i danni, in sede civile, con un travagliato percorso: la sentenza di primo grado del Tribunale di Belluno è del febbraio del 1997. La Corte d'Appello di Venezia conferma la condanna per la Montedison (Sade vi era entrata), a risarcire il Comune di Longarone per i danni materiali e morali. Non si andrà in Cassazione. L'ultimo atto del percorso si chiude con l'Enel, ora proprietaria della diga, che paga penali ai comuni di Erto e Casso. In tutto si va a transazioni per 22 miliardi di lire per le parti lese poi rivalutati in 77.