lunedì 5 settembre 2011

Censurare il Web? Un autogol. - di Fabio Chiusi


Navid Hassanpour

Quando i dittatori spengono Internet fanno un errore clamoroso: perché una brusca interruzione della comunicazione digitale accelera la mobilitazione, rinsaldando i legami 'fisici' al posto di quelli virtuali. La tesi (provata) di uno studioso americano.

Censurare la Rete temendo che scateni una rivoluzione è un clamoroso autogol, un errore madornale in cui i dittatori cadono per ignoranza. Ne è convinto Navid Hassanpour, dottorato in ingegneria elettronica a Stanford, già studente di scienze politiche a Yale. E autore di un recente studio diffuso dal 'New York Times' secondo il quale il blackout totale della Rete, lungi dal sedare le rivolte, le amplifica. «L'opinione comunemente accettata suggerisce che interruzioni della connettività dei media», scrive Hassanpour riassumendo il suo lavoro, «abbiano un effetto negativo sulla mobilitazione politica. Ma al contrario una brusca interruzione della comunicazione di massa accelera la mobilitazione rivoluzionaria e aumenti proteste distribuite».

Vero dunque che i regimi sbagliano quando, come accaduto in Egitto dal 28 gennaio al 2 febbraio scorso, spengono del tutto il web. Non solo per l'evidente e ingiustificabile limitazione della libertà di espressione dei cittadini. Ma anche perché così facendo accelerano «la disintegrazione dello status quo», invece di preservarlo.

David Cameron, che a sua volta ci aveva pensato dopo gli scontri di agosto, prenda nota. Possibile? Hassanpour, nel suo studio, lo sostiene tramite un misto di modelli di decision-making, regressioni statistiche, dati storici e analisi empirica della rivolta che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak. In alcuni passaggi, servendosi di idee già abbondantemente esplorate da Evgeny Morozov nel suo volume The Net Delusion, tutto teso a smontare la credenza 'tecno-utopista' che, per i popoli in rivolta, basti «lasciarli twittare, e si apriranno la loro strada a suon di tweet verso la libertà». In altri, andando perfino oltre: «I social media possono essere controproducenti per la mobilitazione dal basso» e «ostacolare l'azione collettiva». E questo perché «scoraggiano la comunicazione faccia a faccia e le presenze di massa per le strade», scrive l'accademico. Inoltre, mostrando in tempo reale il racconto di quanto avviene, potrebbero «creare una maggiore consapevolezza dei rischi corsi dai manifestanti», inducendoli a rimanere nelle loro case, al sicuro, a condividere post su Facebook. Perché i «legami deboli» stabiliti in Rete «raramente conducono ad attivismo ad alto rischio».

Al contrario, quando il confronto on line non è possibile, i cittadini sono costretti a fare affidamento solamente su se stessi per scoprire che cosa stia accadendo. Il che, di norma, si traduce in nuovi e più saldi rapporti con i propri vicini di casa o di quartiere. La propaganda del regime, spente le comunicazioni, non può più manipolare gli eventi, prosegue lo studio. E il ricorso alla sola comunicazione tra concittadini aumenta l'influenza dei settori più radicali della popolazione, gli stessi che osteggiati dai media di Stato non riescono a scatenare «dissenso universale».

Secondo Hassanpour, qualcosa di simile è già accaduto nel corso della storia. Durante la rivoluzione francese, per esempio; prima della caduta della Duma, nella Russia del 1917; o ancora, nella rivoluzione iraniana del 1978-79. Ma è il recente caso egiziano a fornire l'occasione di mettere l'ipotesi in esame alla prova dei fatti. Per lo studioso, si tratta di una conferma su tutta la linea. Hassanpour la riassume in un grafico che mostra la correlazione – sorprendente - tra il blackout di cellulari e Rete, totale a partire dal 28 gennaio, e il diffondersi della protesta da piazza Tahrir al resto del Paese. «Troppi rivoltosi e in troppi luoghi», riassume nella conclusione, citando il parere del direttore per le emergenze di Human Rights Watch, Peter Bouck.

Titoli giornalistici a parte, le ultime righe sono anche l'occasione per riformulare l'ipotesi in termini maggiormente scientifici: «In presenza di una maggioranza avversa al rischio, aggiungere maggiori collegamenti al suo interno non necessariamente aiuta la mobilitazione». Una conclusione che tuttavia resta tutta da dimostrare per quanto avvenuto negli altri paesi protagonisti della 'primavera araba'. Che si fonda sul reperimento di una correlazione tra grandezze, il che non significa certo averne individuato un legame causale. E che lascia piuttosto perplessa Giovanna Loccatelli, autrice del recente volume 'Twitter e le rivoluzion'i, che indaga proprio il ruolo dei social media nelle rivolte che hanno scosso il Nord Africa. «Non sono d'accordo che il loro utilizzo impoverisca l'azione pratica dei manifestanti», dice all'Espresso. «Perché, per esempio, questi strumenti erano presenti sotto ogni tenda a piazza Tahrir. Nello studio di Hassanpour sembra invece quasi che siano stati usati da casa. Non è andata così». Loccatelli contesta poi la rilevanza della dispersione della protesta nel resto del Paese per il successo della rivoluzione: «Piazza Tahrir ne è stata il cuore pulsante, e lo sarà ancora per i prossimi mesi. Anche con il blackout totale di Internet le persone sapevano dov'era la protesta reale, concreta. Senza piazza Tahrir le cose sarebbero andate diversamente».

Senza contare il ruolo giocato da Al Jazeera, «che si è messa dalla parte degli attivisti e ha aiutato a diffondere la protesta». Il problema semmai, conclude Loccatelli, «è che i social media hanno senso prima e durante la rivoluzione, ma dopo non hanno alcun peso reale. Perché nel dopo c'è bisogno della politica, di una comunità che si aggreghi e faccia delle proposte. Questo non lo possono fare i social network».


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