giovedì 9 giugno 2016

Elezioni Napoli 2016, da De Luca a Cozzolino fino a Renzi: la carriera politica della candidata dem indagata. - Vincenzo Iurillo



Anna Ulleto è accusata di associazione a delinquere finalizzata al voto di scambio. E' comparsa sulla scena alle Regionali campane del 2015 nella lista a sostegno dell'attuale governatore, ma non venne eletta. E' vicepresidente della Onlus Mondo Nuovo e coordinatrice delle opere di gestione del Banco delle Opere di Carità per famiglie indigenti.

Democratica, renziana, cozzoliniana. La sintesi del ritratto politico di Anna Ulletola candidata Pd al consiglio comunale di Napoli indagata per associazione a delinquere finalizzata al voto di scambio, è tutta qui. Appare sulla scena alle Regionali campane del 2015. Si candida in lista dem a sostegno di Vincenzo De Luca ed ottiene un ottimo risultato, 7714 preferenze. Non sufficienti però per essere eletta. Un’esperienza che le è tornata utile per riproporsi alle recenti comunali, dove salvo clamorose sorprese, grazie ai 2263 voti conquistati verrà eletta nell’aula di Palazzo San Giacomo. Elezione certa in caso di vittoria di Luigi de Magistris, condizionata invece alle dimissioni di Valeria Valente (deputata, valuterà “non da sola”, ha detto in conferenza stampa, se mantenere o meno il doppio incarico), se a prevalere dovesse essere Gianni Lettieri.
Ulleto, 46 anni, compagna di un imprenditore, è iscritta al circolo dem di Barra ed anima importanti iniziative nel mondo del sociale. E’ vicepresidente della Onlus “Mondo Nuovo” e coordinatrice delle opere di gestione del Banco delle Opere di Carità per famiglie indigenti. Rivendica nei curriculum allegati alle candidature di aver “imparato ad organizzare in modo professionale le scelte di metodo per poter ‘leggere’ un’organizzazione alla luce di vari elementi di riferimento”.
Nelle elezioni di Napoli la Ulleto è stata accompagna politicamente ed elettoralmente dall’europarlamentare ed ex assessore regionale Andrea Cozzolino, uno dei leader campani di “Rifare l’Italia”, la corrente Pd dei Giovani Turchi di Matteo Orfini, Valeria Valente e del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Le pagine social della signora Ulleto sono piene di foto insieme a Cozzolino durante iniziative e convegni. Il 24 aprile con l’apertura di un comitato elettorale a Barra in via Domenico Minichino, Ulleto aprì la campagna elettorale insieme a Valente e Antonio Borriello, il consigliere diventato famoso durante le primarie per essere stato ripreso di nascosto da Fanpage mentre regalava qualche euro agli elettori in prossimità dei seggi. Borriello, in carica da due consiliature, non ce l’ha fatta. La Ulleto forse sì. Circola anche una immagine di campagna elettorale di Ulleto con Graziano Delrio. Il ministro di Renzi venne a Barra per un’iniziativa con Valente, Ulleto era tra il pubblico e alla fine un militante li ritrasse insieme, sorridenti, per una foto ricordo.
"Voti di scambio", prassi abituale, anche se sempre smentita, utilizzata da chi vuole ad ogni costo, ma senza meriti, ottenere un posto dove fare ed ottenere favori leciti ed illeciti. 
E' un reato, ma è molto usato dagli pseudo politici. 
Con l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, i politicanti hanno trasformato il lavoro a tempo indeterminato in un precariato perpetuo, creandosi un pacchetto di ‪#‎postidilavoro‬ da utilizzare all'occorrenza ogni volta che ne hanno necessità.
La politica, che dovrebbe significare "arte di governare", nelle mani di questi esseri indefinibili è diventata una cosa ignobile e sporca.

Elezioni Amministrative 2016 – Le bugie seriali di Renzi e dell’Istituto Cattaneo. - Andrea Scanzi

Elezioni Amministrative 2016 – Le bugie seriali di Renzi e dell’Istituto Cattaneo


Matteo Renzi è un politico molto vecchio e molto banale. Un democristiano debole e senza troppo talento, ma comicamente appoggiato da larga parte dei media nostrani. Se poi lui è debole, la sua “classe dirigente” è persino peggio di lui. Rotta, Gozi, Picierno, Nardella, Boschi, Faraone, Carbone: il nulla assoluto. E pure arrogante. Auguri.
Una delle caratteristiche della vecchia politica, che il vecchio Renzi dice di voler combattere ma che ovviamente rinvigorisce e reitera, è fingersi vincente quando si è in realtà persoNel nervoso monologo di lunedì mattina, Renzi ha finto di ammettere la sconfitta, salvo poi sparare che quasi ovunque il Pd è sopra il 40%. Matteo: de che? Dove? Quando? Forse nella sua testa o alla Playstation. Il Pd non raggiunge quasi mai il 40%, anche perché si vergogna così tanto di essere Pd da presentarsi quasi sempre sotto mentite spoglie: liste civiche, nomi fantasiosi. Tutto pur di vivere in clandestinità. Il simbolo Pd c’era solo 130 volte su più di 1300 Comuni: l’11% circa. Una miseria. Persino meno del M5S, che come noto si presenta da solo, con il suo simbolo e non certo ovunque: più o meno in 250 Comuni. Pochi.
E’ errato dire che i 5 Stelle abbiano trionfato domenica. Sono ancora molto incostanti e spesso neanche esistenti. A volte hanno avuto prestazioni trionfali (Roma, Torino), a volte discrete (Bologna), a volte pressoché pietose (Napoli, Milano). E’ però un dato di fatto che, complessivamente, il loro risultato sia stato buono e in crescita ovunque in termini percentuali. Oltretutto, da sempre, le Amministrative sono il loro tallone d’Achille.
Esiste però la realtà e la percezione della realtà. Ed è la percezione della realtà che interessa Renzi e renziani, sempre più costretti a edulcorare la loro (triste) realtà con la creazione del favoloso mondo di Renzì. La tattica è sempre la stessa: si inventa una cazzata e la si riverbera anzitutto sui social. E’ qui che arriva la grande bufala dell’Istituto Cattaneo. Per carità: nel mondo reale non se n’è fregato nessuno, ma in Rete ieri ha avuto un discreto successo e ovviamente qualche giannizzero renzino l’ha pure sdoganata in radio, giornali e tivù. Daje.
La “notizia”: secondo l’Istituto Cattaneo il Pd ha vinto, il centrodestra è andato bene e i 5 Stelle hanno perso. E’ vero? No, ma questo è secondario. A Renzi la realtà non interessa, e va capito, perché se gli interessasse sarebbe depresso da mane a sera.
Cos’è l’Istituto Cattaneo? E’ una Fondazione bolognese, presieduta fino a poco tempo fa da Elisabetta Gualmini, oggi renzianissima in servizio permanente nonché vicepresidente della Giunta regionale. Una tipetta sopra le parti, ecco. Come gli esponenti del Pd che siedono nel cosiddetto “board” – lo spiega sontuosamente oggi Marco Palombi sul Fatto – e che ha tra i finanziatori la Regione, 3 ministeri, Legacoop, eccetera. Davvero: un istituto sopra le parti.
L’articolo in oggetto, che ha esaltato – in mancanza di orgasmi migliori – le Meli e i Rondolino, ha per titolo “Comunali 2016: chi ha vinto e chi ha perso”. E qui si sogna davvero, perché il metodo “analitico” seguito dall’Istituto è una roba che se solo mi fossi azzardato a usarlo io quando facevo il Liceo, il mio professore di matematica mi avrebbe soppresso a badilate. Giustamente.
Sogniamo quindi con i Cattaneo (old) boys: il centrosinistra prende il 34.2% (+1 rispetto al 2013), il centrodestra il 29.5% (più 4 rispetto al 2013) e gli appestati grillini scendono al 21.4% (4 punti in meno del 2013). E’ vero? No. I renzini-cattanei prendono (a caso) i dati di 18 capoluoghi di provincia su 24 e li raffrontano (a caso) ora con le Comunali 2011 e ora con le Politiche 2013. Perché non con le Europee 2014? Perché Renzi quella volta aveva ottenuto un plebiscito, e il calo sarebbe stato evidente. Loro dicono: “è il confronto politico più prossimo e politicamente più pregnante”. Chi lo decide? I renzini-cattanei, giudici e arbitri di loro stessi. Daje. Attenzione poi a quel “18 su 24”. Quali sono i 6 capoluoghi di provincia esclusi, con la scusa puerile della “non disponibilità tempestiva dei dati”? Guarda caso sono capoluoghi in cui il Pd è andato malissimo: Latina (dal 18.7 al 12.4), Benevento (dal 23.6 al 16.9). Eccetera.
E gli zozzoni 5 Stelle? Sempre per puro caso, non erano presenti in 3 dei 18 capoluoghi “analizzati”: Varese, Rimini, Ravenna. Chiaramente quei tre “0” abbassano e non poco la media del M5S, ma i renzini-cattanei garantiscono – dopo simulazioni di voto col Vic20 di Nardella – che “questo non altera significativamente il risultato finale”.
Qual è la sintesi di tutto questo? Che ci prendono in giro. Sempre. La famosa storia del pisciarci in testa, per poi dirci che piove.

mercoledì 8 giugno 2016

Referendum costituzionale, se Massimo Cacciari dimentica Karl Popper. - Angelo Cannatà




Ho letto l’intervista di Mauro a Cacciari (la Repubblica, 27 maggio) e non riesco a liberarmi dal senso di smarrimento che trasmettono le sue parole. L’impressione molto forte è che Cacciari storicizzi e retroceda fino agli anni Ottanta (“Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant’anni, e non ci siamo riusciti”), per spostare l’asse del discorso sul passato e non confrontarsi realmente sui limiti della riforma, della quale dice, certo, che è piena di difetti, ma bisogna votarla perché “realizza alcuni cambiamenti che volevamo da anni”. 

Ho molta stima per Cacciari del quale apprezzo non solo Krisis, Icone della legge, Dell’inizio, eccetera, ma anche i testi giovanili scritti per Contropiano. Una stima che non mi impedisce d’evidenziare – anzi mi stimola – quanto la sua posizione politica (sì al referendum) sia poco strutturata e fondata filosoficamente. Insomma, Aristotele lo bacchetterebbe per le conclusioni che trae dalle sue premesse: “è una riforma concepita male e scritta peggio”; “punta alla concentrazione del potere”; “la montagna ha partorito un brutto topolino”; “è una riforma modesta e maldestra”; abbinata alla legge elettorale “punta a dare tutto il potere al capo”; dunque: la voto. Incredibile! 

Si avverte un senso di vertigine pensando al profondo sdoppiamento di personalità che deve vivere Cacciari: centinaia di pagine di filosofia per riflettere, con stile e rigore logico, sulle domande del Parmenide platonico e ragionare con lucidità su Cusano e Schelling, per poi - spostato lo sguardo sulla riforma della Costituzione - approdare ad un orrendo e spicciolo pragmatismo. Fa male vedere Cacciari accodarsi a quanti sostengono che non c’è alternativa ergo bisogna votare sì anche se la riforma della Costituzione non piace. A questo siamo. Speravamo di più da un filosofo che stimiamo da anni e volevamo al governo, non solo della sua Venezia, ma del Paese, mossi dalla suggestione platonica dei filosofi re. Invece, Cacciari ci dice che dobbiamo tapparci il naso (“Vuole fingere – obietta a Mauro – che non abbiamo votato spesso turandoci il naso?”), che dobbiamo scegliere il “male minore” e votare sì. 

Chi l’ha detto, caro Cacciari, che la riforma Renzi sia il male minore? E’ vero il contrario. Se la riforma del Senato sommata all’Italicum svuota la democrazia e concentra il potere nelle mani del capo - come lei riconosce - è evidente che non ci sia male maggiore. Evidente per una serie di motivi che il logos e la tradizione filosofica hanno acquisito da anni. 

Non devo essere io a spiegare a Cacciari che Karl Popper sulla concentrazione del potere nelle mani di un capo ha scritto pagine decisive: la domanda fondamentale in democrazia non è “Chi deve governare?” - osserva - quanto piuttosto: “Come possiamo organizzare le nostre istituzioni politiche in modo tale che governanti cattivi o incapaci (che cerchiamo di evitare, ma che tuttavia possono capitarci) arrechino il minor danno possibile e che noi possiamo rimuoverli senza l’uso della forza?” Il problema della politica è “organizzare le istituzioni” per impedire che l’esecutivo prevarichi sul legislativo. 

Nel referendum di ottobre sulla Costituzione la posta in gioco è questa. Alta, fondamentale e non derubricabile a “male minore”. Si tratta di decidere, col nostro voto, se la democrazia italiana continuerà ad avere (o no) gli strumenti per frenare l’abuso di potere del Premier. E’ la questione posta da Popper, su cui è nata una teoria della democrazia. Che Cacciari la sottovaluti e preferisca turarsi il naso è peggio di un delitto. E’ un errore.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/referendum-costituzionale-se-massimo-cacciari-dimentica-karl-popper/

Cacciari, come perdersi in un bicchier d'acqua...
Per un punto Martin perse la cappa...
E' demoralizzante notare come uomini di una certa levatura morale e mentale si inchinino al tristo e bieco gioco della politica.
Sta succedendo sempre più spesso e a molti....
La politica ha il potere di comprare tutti? E' così accattivante?

Nel nome di J. P. Morgan. Le ragioni economiche della controriforma costituzionale. - Guglielmo Forges Davanzati



Il progetto di riforma costituzionale è stato autorevolmente commentato da numerosi costituzionalisti, che hanno concentrato la loro attenzione sugli aspetti propriamente giuridici e politici del cambiamento prospettato[1]. Nel dibattito che si è sviluppato in questi mesi, minore attenzione hanno ricevuto interpretazioni che attengono a ragioni di carattere propriamente economico che spingono verso la riforma della Costituzione italiana.

Per individuarle conviene partire da un fatto ampiamente noto. J.P.Morgan, una delle Istituzioni finanziarie più importanti su scala globale, in un documento del 2013, ha rilevato l’impronta “socialista” che sarebbe implicita nella nostra Carta costituzionale[2]

In effetti, si tratta di un’interpretazione che può essere condivisa se si leggono gli articoli che più direttamente riguardano la sfera economica e, in particolare, quelli che danno allo Stato anche funzioni di programmazione. Evidentemente, dal punto di vista degli interessi della finanza che quella Istituzione rappresenta, la presenza di elementi di “socialismo” nella nostra Costituzione deve essere particolarmente sgradita. Va chiarito che il documento di J.P. Morgan è estremamente rilevante, anche al di là del progetto di riforma costituzionale, perché aiuta bene a comprendere i processi di depoliticizzazione in atto: ovvero processi che demandano a tecnici non eletti la gestione della politica economica, a condizione che quest’ultima sia concepita in modo da “non essere invisa alle banche centrali”[3].

La propaganda governativa non richiama l’ammonimento di J.P. Morgan, non fa riferimento al ‘socialismo costituzionale’ italiano, preferendo concentrarsi essenzialmente su due aspetti. 

1. La riforma costituzionale si rende necessaria per ridurre i costi della politica. 

2. La riforma costituzionale si rende necessaria per accelerare i tempi di decisione.


Il primo argomento appare suscettibile di una immediata critica, che riguarda il fatto che, se davvero si intende ridurre i “costi della politica”, non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta. Peraltro, come è stato osservato, la previsione per la quale i senatori non percepiranno indennità in quanto senatori (il che, ci viene detto, è un risparmio) è combinata con la previsione che le medesime indennità i senatori le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi[4]. Ciò al netto del fatto che – ed è bene ricordarlo – la remunerazione accordata a chi svolge attività politica ha il suo fondamento nella possibilità data ai meno abbienti di assumere incarichi. E’ evidente che nella situazione attuale questi emolumenti hanno assunto dimensioni la cui legittimazione è oggettivamente difficile da darsi, ma è altrettanto evidente che la politica ha un costo; riforma o meno. 

Vi è di più, considerando che sebbene elevati in termini assoluti questi costi appaiono assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico. E che serve semmai a generare avanzi di bilancio. E tuttavia, nel confronto con la media europea, ci troviamo di fronte al paradosso per il quale siamo maggiormente tassati per pagare più di altri una classe politica che, nella sua espressione governativa, ci somministra dosi di austerità fiscale (riduzioni di spesa combinate con aumenti della pressione fiscale) superiori a quanto accade altrove.

Il secondo argomento, apparentemente inoppugnabile (chi vorrebbe maggiore lentezza delle decisioni?), è maggiormente rilevante giacché attiene ai rapporti fra dimensione economica e sfera delle decisioni politiche. La Costituzione che si intende ridisegnare è, a ben vedere, una Costituzione modellata su parametri di efficienza economica, ovvero, finalizzata a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri. Questo sembra il punto essenziale sul quale si gioca questa partita. In un contesto che si definisce di globalizzazione, effettivamente ciò che conta è la rapidità delle decisioni politiche che asseconda la rapidità dei processi di produzione e vendita di merci: la c.d.time-based competition che diventa competizione fra Stati anche sulla rapidità delle scelte politiche. Letta in questa prospettiva, la riforma appare del tutto coerente con una logica, per così dire, efficientista: logica che, tuttavia, è in radicale contrasto con la tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali. Ciò che conta è l’efficienza dei processi decisionali, come si legge nei documenti preparatori della riforma redatti da questo Governo (peraltro, del tutto in linea con i governi che lo hanno preceduto).

Vi è anche da rilevare che il tema della qualità delle istituzioni è stato oggetto, negli ultimi anni, di studi compiuti prevalentemente da economisti (si pensi, innanzitutto, alla c.d. analisi economica del diritto). Si tratta di studi che, applicando l’assunto della scelta razionale ai problemi di decisione politica e di disegno delle istituzioni, giungono fondamentalmente alla conclusione che è ottimale quel disegno delle istituzioni (costituzioni comprese) che istituisce un meccanismo di incentivo/disincentivo tale da rendere possibile la massimizzazione del benessere sociale[5].

In un certo senso, è questa la base teorica della riforma che si intende attuare: il passaggio, niente affatto neutrale, da un modello costituzionale pensato per la tutela dei diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un modello costituzionale pensato in una logica di perseguimento di obiettivi di efficienza economica, da perseguire mediante il minimo intervento pubblico in economia (si pensi, a riguardo, alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio).

Ma qui, il punto ulteriore in discussione riguarda il nesso che viene a istituirsi fra ‘governabilità’ ed efficienza, dal momento che non è affatto scontato che una maggiore rapidità dei tempi della decisione politica implichi un aumento dell’efficienza di sistema. In altri termini, appare discutibile l’idea che, se anche il superamento di una Costituzione basata sulla tutela di diritti sociali si renda necessario per garantire la ‘governabilità’, quest’ultima produca benessere per tutti.

A ben vedere, sussistono ottime ragioni per ritenere che il decisore politico è “catturato” da gruppi di interesse e che, ponendo la questione in questi termini, il solo risultato ragionevolmente prevedibile a seguito della riforma costituzionale può configurarsi sotto forma di maggiore governabilità a beneficio dei gruppi di interesse che il Governo difende[6]. E, almeno in questa fase storica, non sono certo né i lavoratori dipendenti, né i pensionati, né le piccole imprese. Va chiarito, a riguardo, che esiste un’ampia letteratura economica che mostra come un fondamentale presupposto per la crescita economica risieda esattamente nella tutela dei diritti sociali e, a questi connessi, a una più equa distribuzione del reddito. Ma si tratta di una letteratura marginalizzata dal pensiero dominante e palesemente non funzionale all’attuale modello di sviluppo, basato semmai su crescenti diseguaglianze distributive e su quella che Luciano Gallino, nei suoi ultimi scritti, definiva la ‘lotta di classe dall’alto’.

In questo senso, il referendum ha una notevole implicazione economica, giacché pone in evidenza il fondamentale discrimine fra una visione della carta costituzionale come strumento di tutela delle fasce deboli della popolazione e una visione della stessa come dispositivo finalizzato alla governabilità per l’efficienza, laddove quest’ultima passa attraverso il superamento del modello di democrazia economica delineato nella Costituzione attualmente vigente. 

NOTE
[1] Si veda, fra gli altri, per il fronte del NO: Zagrebelsky, Il mio no per evitare una democrazia svuotata, Micromega-on line, maggio 2016. Si rinvia anche a G.Azzariti,Contro il revisionismo costituzionale, Bari, Laterza, 2016. Per le ragioni del SI si rinvia, fra gli altri, a Salvatore Curreri, Le critiche che la riforma costituzionale non merita:http://www.huffingtonpost.it/salvatore-curreri/riforma-costituzionale-critiche-giuseppe-gargani_b_10201920.html

[2] J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfay there, “European Economic Research”, 28 marzo 2013. Per un commento a questo articolo, si veda:http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/

[3] H. Radice, Reshaping fiscal policies in Europe, “The Bullet”, febbraio 2013. 

[4] D. Gallo, Le ragioni del NO all’arretramento costituzionale, Micromega on-line, 31 maggio 2016. 

[5] V., fra gli altri, R.A Posner, The economic analysis of law, Harvard, Harvard University Press, 1999. 

[6] Sul tema, si rinvia, fra gli altri a P. Burnham, New Labour and the politics of depoliticization, “British Journal of Politics and International Relations” 3/2, 2001, pp. 127-149, che sottolinea la sostanziale impossibilità di coniugare le nuove modalità di regolazione del capitalismo con la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/nel-nome-di-j-p-morgan-le-ragioni-economiche-della-controriforma-costituzionale/

La democrazia senza velo. - Paolo Flores d'Arcais



La società belga “G4S Secure Solutions” ha come norma che i dipendenti non possano esibire segni di appartenenza religiosa. Samira Achbita dopo tre anni di lavoro pretende di indossare il velo islamico e l’azienda la licenzia. Il “Centro belga per le pari opportunità e la lotta al razzismo” fa causa alla società e la Cassazione del Belgio investe del problema la Corte di giustizia europea, il cui avvocato generale, Juliane Kokott, conclude a favore dell’azienda.

Sumaya Abdel Qader, leader musulmana “progressista” e candidata del Pd al Consiglio comunale di Milano, si indigna: «Mettersi il velo è una pratica religiosa, che dovrebbe essere garantita dall’ordinamento giuridico a tutela della libertà religiosa». Sumaya Abdel Qader ha torto, e con lei i moltissimi “multiculturalisti” di una “sinistra” anti-illuminista che ha completamente perduto la bussola dell’eguaglianza e dell’emancipazione. In una società democratica i simboli religiosi dovrebbero anzi essere vietati in tutti gli uffici e servizi pubblici, scuola in primis (e il divieto dei privati non dovrebbe essere considerata discriminazione).

Un ufficio pubblico è infatti un bene comune, deve appartenere a tutti, non solo ai cittadini diversamente credenti ma a tutti i diversamente miscredenti e atei. Laddove si esibisca o campeggi un simbolo di appartenenza religiosa quello spazio è sottratto a quanti non vi si riconoscono, è confiscato e privatizzato. Che i simboli religiosi consentiti siano più di uno non cambia nulla, lottizza la confisca tra alcune fedi, ma una prevaricazione plurale sempre prevaricazione resta. 

Per garantire eguaglianza bisognerebbe che ogni possibile religione (compreso il “Dio degli spaghetti volanti” la cui Chiesa è ufficializzata negli Usa) e ogni possibile ateismo avessero i propri simboli appesi alle pareti, ma così non saremmo allo spazio comune bensì al bailamme delle identità in conflitto. Esattamente l’opposto dell’eguale cittadinanza, l’unica appartenenza che una democrazia riconosce.

Sumaya Abdel Qader e i “multiculturalisti” di “sinistra” naturalmente sono in buona compagnia, il Papa, niente meno. Non solo il fondamentalista Karol Wojtyla e il teologo della crociata contro la modernità Joseph Ratzinger, per i quali l’aborto è “il genocidio del nostro tempo” (medici e infermieri che rispettano la volontà della donna all’interruzione della maternità messi moralmente sullo stesso piano di un Ss, del resto l’anatema di Wojtyla, perché non vi fossero dubbi, fu pronunciato in Polonia a pochi chilometri da Auschwitz), ma anche il buonissimo e apertissimo Francesco che manda ormai in estasi fior di “laici” in debito di “Senso” e marrani del valore fondante e irrinunciabile della sinistra, l’eguaglianza sostanziale.

Ma questa convergenza, che vorrebbe le fedi religiose come humus per la democrazia contro il pericolo nichilista, e che ha affatturato anche pensatori un tempo di riferimento come Habermas, non fa che rendere esplicita e improcrastinabile per l’intera Europa (se ancora ha una chance di nascere) la necessità di radicarsi in una laicità coerente e adamantina, quella “alla francese”, rettificata anzi in alcune sue “concessioni” (scuole private, ad esempio).

La democrazia per funzionare, infatti, e più che mai per uscire dalla sua devastante crisi attuale, ha bisogno di decretare l’ostracismo di Dio dalla sfera pubblica. Valga il vero.

L’eguale sovranità non consiste nella mera conta delle volontà, ma nell’argomentazione reciproca con cui i cittadini mettono capo alla decisione della legge attraverso la scelta dei loro rappresentanti. Se la sfera pubblica si riduce alla semplice conta di volontà irrelate e non vincolate al dovere di “fornire ragioni”, il terreno è già fertile perché si passi dal “perché sì” del voto al “perché sì” del manganello. Un cittadino, e un politico, devono argomentare le proprie scelte, condizione pregiudiziale (benché non sufficiente) per essere tutti concittadini. Ma ogni argomento-Dio nega il dialogo, è autoreferenziale, ne esclude i non credenti o i diversamente credenti, ecco perché il ricorso alla fede non deve avere spazio nella sfera pubblica. 

Solo i fatti accertati, la logica, e i valori fondamentali della Costituzione (per la nostra, nata dalla Resistenza, suonano “giustizia e libertà”). Se invece si può “argomentare” perché “Dio vuole così” (lo hanno fatto fin troppi presidenti americani) siamo già alla sharia. Che non a caso, con la benedizione di governi “cristiani”, è ormai vigente in molti ghetti delle metropoli europee.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-democrazia-senza-velo/

Flores d'Arcais mi trova pienamente d'accordo.
Oltretutto il simbolismo del velo, in particolare, non sarebbe altro che un rafforzativo della presunta inferiorità, sottomissione della donna nei confronti dell'uomo e, quindi, non farebbe altro che fomentare il femminicidio.

sabato 4 giugno 2016

Curarsi il cancro con 20 euro: la terra del Molise restituisce la speranza


TERMOLI. “La ricerca è partita due anni fa – spiega all’Adnkronos Salute Stefania Meschini, ricercatrice dell’Istituto superiore di sanità che ha testato l’estratto di Prunus – ed è nata da una collaborazione con l’azienda Biogroup. Queste è una pianta italiana che, soprattutto in Molise, ha trovato un habitat particolarmente efficace per sviluppare al meglio le proprietà antiossidanti, ma contiene anche molti flavonoidi. Siamo partiti con la sperimentazione in laboratorio trattando le cellule cancerose di pazienti con cancro al colon, polmone e cervice uterina con l’estratto della pianta. Ma da solo non funzionava pur non essendo tossico. Quindi – prosegue – l’abbiamo addizionato a un particolare complesso a base di aminoacidi, minerali e vitamine, denominato Can

Questo ’mix’ è stato in grado di ridurre la sopravvivenza delle cellule tumorali e di eliminare tra il 70% e il 78% delle cellule cancerose nell’arco di 24 ore”.
Ed è così che il Molise irrompe nelle speranze di tutto il Mondo. La notizia (quanto vi riportiamo è estratto dell’Adnkronos salute) dell’integratore, messo a punto dalla collaborazione tra l’Iss e l’azienda Biogroup, da giugno in vendita in farmacia nella formulazione in pasticche, verrà presentato ufficialmente il 27 giungo all’Expo di Milano è quanto di meglio ci si poteva aspettare. L’antidoto ai tumori starebbe proprio nella più dimenticata regione d’Italia che, per molti, addirittura non “esiste”.
“Sono molte le piante ’antitumorali’ che studiamo all’Iss e che possono aiutare le terapie oncologiche tradizionali – ricorda Meschini – è un settore che potrà offrire ancora molte possibilità, ma servono fondi per studi e ricerche. Senza lasciar fuori da questo discorso le aziende”.
Bello smarco per la nostra Regione ma al di là di tutto, resta la speranza di poter ripartire da questa scoperta per tentare di “sconfiggere” o quantomeno indebolire uno dei mali più incurabili che la storia ricordi.
Lo studio sul Prunus – riporta l’AdnKronos salute – è stato presentato al IV Congresso internazionale di Medicina biointegrata a Roma. “Le qualità di questa pianta sono note nel territorio del Molise – osserva Mastrodonato – dalle bacche, drupe in dialetto, si produce il liquore Trignolino. Quello che abbiamo fatto grazie a questa collaborazione con l’Iss e la Biogroup è stato trovare la giusta formulazione del complesso attivatore nutraceutico, poi brevettato, che ’accende’ l’effetto antitumorale del Prunus. I test in vitro – prosegue Mastrodonato – su linee cellulari umane colpite da cancro a colon, polmone e cervice uterina ne hanno dimostrato l’efficacia. Abbiamo un’arma in più per medici e pazienti – conclude – da aggiungere alle terapie oncologiche tradizionali”.
Torna attuale, quindi, la grande conoscenza dei nonni che, per l’appunto, da generazioni conoscono le proprietà benefiche delle foglie e dei suoi frutti dal colore blu di questa pianta, tanto da utilizzarli per produrci il liquore trignolino.
Ma non solo, le stesse sono anche utilizzate in aggiunta al tabacco della pipa. Adesso al via la sperimentazione … obiettivo “sperare di abbattere questo male”.
In fase di realizzazione del prodotto, quanto viene estratto dal Prunus viene abbinato a un composto studiato e brevettato ad hoc a base di aminoacidi, minerali e vitamine, denominato Can, per poter penetrale sin dentro la cellula.
Infine, il presidente della Società italiana di medicina biointegrata (Simeb), Franco Mastrodonato, ha precisato a Tgcom24 che “per motivi etici abbiamo ottenuto che il prezzo a confezione sia assolutamente accessibile, intorno ai 20 euro, rispetto ad un costo inizialmente stimato come molto più elevato”. In occasione dell’Expo di Milano, poi, “lo studio sulle potenzialità del prugnolo – annuncia l’esperto – sarà presentato, il 25 giugno, alla comunità scientifica internazionale, nell’ambito di un convegno sulle terapie oncologiche integrate”.

martedì 31 maggio 2016

Rodotà: Referendum, se Renzi falsifica anche la storia. - Stefano Rodotà




Era chiaro fin dall’inizio che la richiesta di tregua all’interno del Pd avanzata da Renzi mirava a tutt’altro che a una moratoria della politica. 
Occupando l’intero orizzonte con l’enfasi sull’epocale obiettivo della riforma costituzionale, si volevano creare le condizioni propizie per costruire nel fuoco di una lotta senza quartiere un’altra politica e un altro partito. Man mano che passano le giornate, e l’attivismo del Presidente del Consiglio si fa sempre più frenetico e compulsivo, tutto questo diviene più evidente, un rullo compressore viene lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo, e di questo contesto bisogna tenere conto perché la discussione sul referendum costituzionale corrisponda alla sostanza delle cose.

Innovato il linguaggio con la parola “rottamazione”, Renzi ne ha via via esteso l’uso dalle persone ai corpi sociali, poi alle istituzioni e, infine, alla stessa storia. La storia, perché ormai è evidente che si è costruito un oggetto polemico totale, un ancien régime che coincide con tutta la passata vicenda repubblicana della quale, a dire del Presidente del Consiglio, o ci si libera con un colpo solo o si sprofonda nell’impotenza, nell’inciucio. Chi conosce un po’ di storia, sa quale ruolo possa giocare il richiamo a un regime precedente. Oggi, tuttavia, non si tratta di affrontare una questione teorica, ma di rispondere a una domanda precisa: quanto è attendibile la presentazione renziana della storia della Repubblica?

Di fronte a questa domanda vi è una responsabilità di storici e scienziati politici. L’informazione corretta, non falsificata, è premessa indispensabile per il voto consapevole dei cittadini, e chi ha le conoscenze necessarie deve metterle a disposizione di tutti. Rischia altrimenti di consolidarsi un modo di discutere che colloca il voto referendario tra un passato inguardabile e un futuro infrequentabile, se diverso da quello affidato al testo della riforma. Un anno zero, l’evocazione del caos, l’associazione del “no” con l’irresponsabilità.

Poiché si sollecita la discussione sul merito, bisogna segnalare l’insistente falsificazione della posizione di coloro i quali nel passato avevano proposto l’uscita dal bicameralismo perfetto. Proposte che smentiscono la tesi di un radicato conservatorismo, ma che andavano nella direzione opposta da quella seguita dalla riforma, perché mantenevano al centro una legge elettorale proporzionale come garanzia essenziale per gli equilibri costituzionali. Vi sono poi episodi minori, anche se rivelatori dell’approssimazione di chi parla, per cui i governi della storia repubblicana da 63 ogni tanto diventano 69 e si giunge addirittura ad adottare logiche da seduta spiritica annunciando che Enrico Berlinguer avrebbe votato “sì”, con una falsificazione clamorosa dei suoi atti e delle sue posizioni.

La storia della Repubblica non è una zavorra da buttare via senza un fremito. Nelle tambureggianti rievocazioni di Marco Pannella e della sua azione per i diritti civili bisogna dare a ciascuno il suo e ricordare anche che gli anni Settanta furono un tempo di vera rivoluzione dei diritti civili, politici e sociali. Di pari passo con divorzio e aborto andarono i diritti dei lavoratori, la scuola, la salute, la carcerazione preventiva, la maggiore età a 18 anni, l’obiezione di coscienza al servizio militare, gli interventi su carceri e manicomi e una riforma del diritto di famiglia scritta con uno spirito ben più aperto di quello che ha accompagnato la legge sui diritti civili. Fu un tempo di sintonia tra politica e società, tra politica e cultura, ma non fu il solo, e bisogna ricordarlo non con spirito nostalgico, ma per ristabilire una qualche verità storica e istituzionale, perché quel rinnovamento avvenne basandosi proprio sulla Costituzione.

Certo, sarebbe antistorico fermarsi qui e sottovalutare le dinamiche che hanno poi percorso il sistema politico-istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. 


In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti.
Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sotto rappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una «illimitata compressione della rappresentatività» del Parlamento, «alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza». Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale. Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario.

Stando sempre attenti al merito, si incontrano due questioni paradossali. Persino accesissimi sostenitori della riforma riconoscono che poi saranno necessari aggiustamenti, altri condizionano il loro voto a cambiamenti della legge elettorale. Ma come? Si dice che stiamo combattendo la madre di tutte le battaglie, stiamo traghettando la Repubblica dal buio alla luce e invece sembra che si possano ancora cambiare le carte in tavola in una affannosa ricerca di consenso, ribadendo quella logica di inciucio preventivo all’origine dei tanti vizi della riforma.

Più sorprendente ancora è l’argomentazione di chi descrive il diluvio, il caos che inevitabilmente si determinerebbero se la riforma fosse bocciata, perché si dovrebbe tornare al voto intrecciando diverse leggi elettorali per Camera e Senato con problemi di governabilità. Singolare argomentazione, perché proprio i critici della riforma avevano messo in evidenza questo rischio ed è davvero da apprendisti stregoni, o da irresponsabili, prima creare le condizioni di un possibile fallimento, quindi agitarlo come uno spauracchio. E poi chi dice che alle annunciate dimissioni di Renzi di fronte ad un “no” debba seguire lo scioglimento delle Camere? La democrazia ha le sue risorse, produce i suoi anticorpi, si potrebbe anzi avviare una seria stagione riformatrice, visto che proprio sui punti caldi del bicameralismo o monocameralismo, del governo, dei sistemi elettorali più adeguati erano venute proposte precise e diverse dal semplice accentramento dei poteri e della democrazia d’investitura.

Futile, a questo punto, diviene il balletto intorno alla personalizzazione del referendum, alla richiesta che Renzi non lo trasformi in un plebiscito su di sé. Le cose stanno così fin dall’inizio. Il Presidente del Consiglio continuerà ad esibire la sua pedagogia sociale su Facebook, invaderà ogni spazio pubblico. Ma questo non fa scomparire i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati. 


http://temi.repubblica.it/micromega-online/rodota-referendum-se-renzi-falsifica-anche-la-storia-2/