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giovedì 17 marzo 2022

La Lolita “mitra e lecca-lecca”: oscenità bellica a uso dei voyeur. - Daniela Ranieri

 

Noi eravamo rimasti che il fenomeno dei bambini-soldato era uno dei crimini più osceni delle guerre.

Oggi no, anzi: la foto di una ragazzina ucraina che imbraccia un fucile e mangia un lecca-lecca, postata su Facebook dal padre, e diventata virale, è una bellissima favola per adulti occidentali iperconnessi, contenti di aver trovato nella guerriera in età prepuberale un simbolo tanto potente del coraggio del popolo ucraino.

“La ‘Bambina con la caramella’ icona della resistenza dei bambini di Kiev”, titola HuffPost. “Fucile e lecca- lecca. Un urlo al mondo”, titola La Stampa sotto la foto in prima pagina. Una strana euforia si è impossessata delle redazioni. La semantica aberrante dell’arruolamento di bambini al fine di farli combattere e uccidere altri esseri umani ha cambiato di segno. Quel che fanno gruppi armati in Uganda, Sud Sudan, Afghanistan etc. (dove i bambini vengono usati anche come rilevatori di mine, cuochi, oggetti sessuali) è una barbarie. La piccola ucraina col fucile è glamour: “I capelli castani intrecciati con un nastro che ha i colori giallo-azzurro della bandiera ucraina, la gamba destra distesa lungo il davanzale e lo sguardo volto verso l’esterno, come un soldato che sta di guardia, un soldato di soli 9 anni che non pare affatto terrorizzato” (La Stampa). Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo, ha twittato la foto con la didascalia: “Per piacere non ditele che sanzioni più pesanti potrebbero essere troppo costose per l’Europa”.

La bambina così è usata due volte: come combattente (ma la foto era “posata”, dicono i minimizzatori: ma allora non si spiega la retorica resistenziale) e come icona. Romantizzazione ed eroizzazione di un crimine (per la Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia) caricano la foto di un vitalismo incongruo quanto osceno: citazioni iconografiche, Vermeer e Lolita, rendono seduttivo il racconto della fierezza di un popolo che resiste all’invasore mettendo i propri figli sui muretti a sparare. Gli ucraini, dicono gli esperti, sono bravissimi a comunicare: Zelensky chiama il popolo alle armi con le storie di Instagram; il governo ha reso la propaganda di guerra una cosa frizzante, ironica, battagliera, perfetta per TikTok. A questa propaganda si possono sacrificare anche i bambini (come negli antichi riti collettivi di morte e rinascita). (E se la bambina fosse russa?). Lo sciame digitale assorbe cadaveri e bambina, la cui bellezza da copertina incita l’indugio consumistico dello sguardo, che è sempre guidato dal potere snervante del capitalismo. A questa barbarie non opponiamo resistenza.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/14/la-lolita-mitra-e-lecca-lecca-oscenita-bellica-a-uso-dei-voyeur/6524823/?utm_campaign=Echobox2021&utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR32iYjeWSvxkySUk8aYyuJ_wQRLnyozzkz2MOFgrBnQirKR6Dj1aMCowOk#Echobox=1647252293

domenica 9 novembre 2014

Giuseppina Ghersi, la martire bambina - Cristina Di Giorgi





Ha 13 anni Giuseppina. 
E’ una bambina studiosa e diligente, che grazie anche all’amore della sua famiglia, fino a quei maledetti giorni di fine aprile del 1945 ha vissuto un’infanzia serena. 
I Ghersi sono proprietari di un piccolo negozio di frutta e verdura in quel di Savona e quando i partigiani si presentano alla porta della loro casa chiedendo materiale di medicazione, il padre di Giuseppina non esita a fornire loro tutto quello che riesce a mettere insieme. 
E’ il pomeriggio del 25 aprile. 
Il giorno successivo i coniugi Ghersi si recano, come di consueto, al loro negozio. 
Ma vengono fermati per la strada da due partigiani armati, che li portano al Campo di concentramento di Legino. 
Poco dopo vengono arrestati anche gli altri componenti della famiglia tranne la piccola Giuseppina, in quel periodo ospite di alcuni amici. 
Non c’è quindi più nessuno che possa testimoniare contro coloro che, indisturbati, depredano il negozio e la casa dei malcapitati.
Nel frattempo i Ghersi chiedono ai partigiani i motivi della loro detenzione e viene loro risposto che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di interrogare anche la loro figlia che, vincitrice di un concorso, aveva ricevuto una lettera con i complimenti del Segretario particolare del Duce. 
In realtà credono che sia una spia al servizio del regime fascista. 
Convinti della buona fede di chi li aveva arrestati, i coniugi accettano di essere accompagnati a prendere la piccola. 
Ma quando tornano al Campo di concentramento, si consuma un dramma che ancora oggi suscita orrore e disgusto: Giuseppina e la sua mamma vengono infatti stuprate e ripetutamente picchiate ed il papà è costretto ad assistere allo “spettacolo” e anche lui viene percosso su schiena e testa con il calcio di un fucile. 
Per tutta la durata della violenza, gli aguzzini, non contenti di quello che avevano già razziato, gli chiedono più volte di rivelare il nascondiglio di altro denaro e preziosi. 
Alla fine di quella terribile giornata, i coniugi Ghersi vengono condotti al Comando partigiano locale che, nonostante a loro carico non fosse emerso nulla, li rinchiude in carcere. 
Per Giuseppina, rimasta sola nelle mani di quelle belve, si consumano purtroppo altri giorni di atroci sofferenze. 
Che hanno termine il 30 aprile 1945, quando viene finita con un colpo di pistola e gettata su un mucchio di altri cadaveri davanti alle mura del Cimitero di Zinola. 
Qui viene notata da un signore, che descrive la visione di quel piccolo corpo martoriato con parole tremende: “Era un cadavere di donna molto giovane – scrive Stelvio Murialdo – ed erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta. 
Evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei. 
L’orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue con un occhio bluastro tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno”.
La vicenda di Giuseppina Ghersi è stata dettagliatamente ricostruita grazie alla coraggiosa pazienza del papà, che il 29 aprile 1949 ha presentato al Procuratore della Repubblica di Savona un esposto di sei pagine scritte a mano. 
Pagine che molto probabilmente non riescono a rendere la tremenda sofferenza patita da quella bambina, la cui storia è drammaticamente simile a tante altre, generate da un odio cieco e disumano che ancora oggi alcuni tendono a giustificare, mascherandolo da “azione di guerra giusta e necessaria per combattere il nazifascismo”. 
Per fortuna c’è però chi vuole ricordare quanto accaduto con onestà e rispetto per la verità. Tra essi, i promotori di una mozione presentata in alcuni Municipi della Capitale, in cui si afferma la necessità che questi “terribili fatti legati alla guerra siano conosciuti e di monito a tutte le generazioni future, affinché se ne tragga un insegnamento: che lo strumento dell’odio deve essere superato. 
Al di là del colore politico – si legge infine nel documento pubblicato da Roma.it – una sola tinta si presta a connotare il racconto: il rosso del sangue dei martiri di tutti i tempi, assieme al bianco dell’innocenza e al verde della speranza. 
Speranza che si riscriva la storia, che sia fatta giustizia”. Senza più odio, nel rispetto della verità e della pace.


Della serie non tutti gli uomini sono uguali; non basta esser stati partigiani per meritare rispetto, è il buon comportamento che ci rende degni di stima.