giovedì 7 maggio 2020

Di Matteo contro Bonafede, lo show che fa felice Giletti e Cosa nostra. - Gaetano Pedullà

NINO DI MATTEO

E anche ieri ci siamo presi una vagonata d’insulti sui social, questa volta per aver detto a La7 che il processo di Sua eccellenza Giletti al ministro Bonafede ha fatto un bel regalo alla mafia, con l’effetto collaterale di affondare la credibilità del consigliere al Csm Nino Di Matteo. Per chi si fosse perso i fatti ecco un rapido riassunto. Con una premessa: conosco la vicenda per averla vista sul web, in quanto non guardo mai la sedicente Arena dove qualunquismo e vanità del conduttore lasciano poco spazio al resto. Ma veniamo alla trasmissione. Giletti indignatissimo protesta perché il Dap (cioè il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha permesso la scarcerazione temporanea per gravi motivi di salute di alcuni boss. Per questo motivo il ministro Bonafede – che nel suo ruolo di governo non può scarcerare o arrestare nessuno – ha fatto approvare nell’ultimo Consiglio dei ministri una norma che impedisce qualsiasi scarcerazione dei detenuti più pericolosi senza l’assenso della Direzione nazionale antimafia e delle Procure distrettuali. In più, sempre Bonafede si è chiamato il direttore del Dap, che aveva scelto, cioè il dott. Francesco Basentini, e ne ha accettato le dimissioni. Tutto questo però per Giletti non conta, e in una puntata che sarebbe passata per direttissima nel dimenticatoio ecco arrivare una telefonata del dott. Di Matteo. Si tratta, diciamolo subito, di una bandiera della lotta alle criminalità organizzata.
Un pm che cosa nostra voleva far saltare in aria, che ha sostenuto con capacità e coraggio la pubblica accusa nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia, e anche per questo vive da anni sotto scorta. Di Matteo è una persona alla quale tutti gli italiani dobbiamo dire grazie. Questa volta però il magistrato vuole intervenire, e nel farlo racconta per tre volte, praticamente senza interruzione, di essere stato chiamato due anni fa da Bonafede e di aver ricevuto la proposta di fare il direttore del Dap. Nel loro stesso colloquio si fa riferimento alle intercettazioni su quanto i boss mal sopportassero una tale nomina. Passano pochi giorni e Bonafede ci ripensa, e invece di un’Audi offre a Di Matteo una Mercedes, cioè la Direzione degli Affari penali, cioè l’avamposto della lotta alla mafia e, per inciso, il ruolo che fu di Giovanni Falcone. Questo a Di Matteo, chissà perché, non sta bene e la cosa finisce li, fin quando due anni dopo la sentiamo da Giletti, raccontata in modo tale da far giungere gli spettatori a una lapidaria sentenza: il ministro Bonafede si fa dettare le nomine dai capi della mafia. Naturale che il diretto interessato chiami subito in diretta per smentire la percezione di Di Matteo, finendo però più volte interrotto da Giletti, che liquida una questione così grave in pochi minuti, perché “la tv ha i suoi tempi” e deve passare ad altro argomento: far gettare una carrettata di fango sul Governo dal signor Flavio Briatore, noto maître à penser dell’Italia del fare, con qualche amnesia quando si tratta di fare i conti col Fisco.
Fatta la cronaca, veniamo al succo della faccenda, che ho sintetizzato nella trasmissione di Andrea Pancani, unico tra tutti i programmi de La7 dove resiste un clima non totalmente fazioso verso il Governo e soprattutto i Cinque Stelle. Per questo spero vivamente di non averlo messo nei guai, vista l’aria che tira su questa rete, dove per inciso l’highlight del mio intervento (disponibile sul sito de La Notizia) è stato rapidamente cancellato dal sito della trasmissione. Se argomenti tanto delicati sono utilizzati per fare informazione e non propaganda o avanspettacolo, di fronte alla telefonata del dott. Di Matteo Giletti avrebbe dovuto chiedere immediatamente al pm come mai faceva tali dichiarazioni solo due anni dopo i fatti. Non un gigante del giornalismo, ma un praticante alle prime armi in redazione avrebbe chiesto a Di Matteo se sia accettabile un tale reiterato silenzio nella sua posizione di Consigliere del Csm, dove è arrivato per sostituire altri consiglieri che con altrettanto silenzio provavano a spartirsi nomine e Procure (il caso Palamara). Un giornalista che vuole fare emergere la verità dei fatti, e non utilizzare ministri e magistrati per fare show, avrebbe chiesto a Di Matteo perché ha rinunciato alla poltrona che fu di Falcone. E si domanderebbe come può ora il Csm far finta di niente di fronte a un Consigliere che ha messo in croce i colleghi del tribunale di sorveglianza di Sassari, che hanno disposto la scarcerazione di Pasquale Zagaria, recluso in regime di 41 bis, e fratello del capo dei casalesi Michele, detto Bin Laden.
Di queste domande ovviamente non c’è stata traccia e quello che rimane è un bravissimo magistrato che accusa il ministro di una forza politica arci nemica della mafia. Uno scontro tra bandiere della guerra ai clan, che in questo modo fanno il gioco dei criminali e di chi ha da guadagnare da uno Stato debole e in conflitto tra le sue istituzioni.  Da siciliano, da semplice cittadino che odia la mafia, ma anche da giornalista che tra i rottami fumanti di Capaci ha giurato di fare con la schiena dritta questo mestiere, penso che Bonafede e Di Matteo debbano incontrarsi, e chiarirsi, perché figure di questo spessore non possono giocare in squadre diverse quando c’è da battere un nemico comune. Su Giletti e una certa tv alla carlona stendo invece un velo non pietoso, ma penoso. E mi tengo come medaglie le centinaia di insulti e di minacce che ho subito ieri da persone che hanno portato il cervello all’ammasso della destra peggiore, anche grazie a trasmissioni spazzatura, dove il fatto di essere quasi sempre solo contro tutti mi rafforza nell’idea che sull’informazione questo Paese è definitivamente fottuto.

Caro Nino Di Matteo, caro ministro basta guerre tra persone perbene. - Gian Carlo Caselli

Sentenza Cedu su Provenzano, l'opinione di Caselli e Di Matteo
Di Matteo e Caselli
Difficile non intervenire, anche se avrei preferito starne fuori. Perché – lo confesso – sono molto tormentato e diviso. Da una parte Nino Di Matteo, magistrato che stimo da sempre per il coraggio e la capacità professionale dimostrati in processi complessi, spesso di importanza che va ben oltre il perimetro del fascicolo per investire la tenuta stessa della nostra democrazia. Dall’altra, Alfonso Bonafede, del quale – come ministro della Giustizia – apprezzo varie iniziative (fra tante: la “spazzacorrotti”; la prescrizione finalmente interrotta; gli interventi sul versante antimafia, ultimo il coinvolgimento del Procuratore nazionale nelle decisioni riguardanti la scarcerazione di mafiosi, cosicché anche il profilo della pericolosità sia valutato bilanciandolo con gli altri). Ovviamente, stima e apprezzamento non escludono che su specifici punti possano esserci nel reciproco rispetto opinioni divergenti. Per esempio, il proclama del ministro che ieri alcuni media hanno sintetizzato con lo slogan “rimando dentro tutti i boss finito il rischio Covid”, potrebbe impallarsi sull’autonomia della magistratura.
Tanto premesso, confesso che le reazioni scatenatesi dopo la trasmissione tv di Massimo Giletti di domenica scorsa, presto degenerate in una tremenda bagarre, appaiono per svariati profili anomale. Andiamo con ordine. Giletti raccoglie alcune opinioni che accennano a “trattative” (termine usato da alcuni ospiti in studio) per la nomina nel 2018 del capo del Dap. Giletti chiede al parlamentare europeo dei 5 Stelle Dino Giarrusso perché non fu scelto Di Matteo che sembrava quello più giusto. Giarrusso risponde di non sapere nulla nel merito e aggiunge che “quelle erano trattative, contatti tra ministro e Di Matteo in cui io non c’entro”. Telefona Di Matteo e subito rivendica energicamente: “Non ho mai fatto trattative con nessun politico né ho mai chiesto nulla”. Segue la ricostruzione dei colloqui avuti con Bonafede nel 2018 circa la sua eventuale nomina a capo del Dap o dell’ufficio Affari penali. All’irruzione di Di Matteo segue a ruota quella del ministro Bonafede e si innesca – in una sede comunque impropria – un cortocircuito istituzionale (Di Matteo è attualmente componente del Csm).
La mia potrà sembrare una lettura minimizzante, ispirata a uno psicologismo d’accatto, ma penso che la molla, il fattore scatenante dell’intervento di Nino Di Matteo sia stata la parola “trattativa”. Non solo perché la sua esperienza professionale è legata al processo definito proprio come “trattativa”, ma soprattutto perché un magistrato come lui non può assolutamente tollerare che il suo nome sia accostato all’ipotesi di trattative con chicchessia, men che mai per attività d’ufficio. Lo confermano alcuni passaggi delle due interviste che Di Matteo ha rilasciato ieri a Repubblica e a La Stampa, che al riguardo contengono alcuni passaggi piuttosto illuminanti. Cito alla rinfusa: domenica sera ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa; sapevo e so che non devo chiedere niente; non sono uno che fa calcoli; i colloqui col ministro si sono svolti su suo invito e per sua iniziativa; non sono stato io a chiamarlo; non è mio costume chiedere niente ai politici; sono un soldato della Repubblica. E non è un caso che Bonafede – con la stringata risposta nel “question time” di ieri – abbia precisato che quelle con Di Matteo furono “normali interlocuzioni per formare una squadra”.
Dato atto a Di Matteo che l’idiosincrasia per ogni indebito intreccio fra la sua figura e la parola “trattativa” è comprensibile e giustificata; preso atto altresì (intervista a La Stampa) della sua esplicita dichiarazione: “Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia”; è troppo sperare che la violentissima querelle possa placarsi e concludersi?
Senza dubbio gioverebbe una chiara ammissione del ministro: vale a dire che, ferma restando la sua autonomia in scelte di quel livello, era e rimane criticabile la nomina a capo del Dap non di Di Matteo, ma di un magistrato con ben altre caratteristiche. Mentre Di Matteo dovrebbe convincersi che abbandonare il proprio cuore alla tristezza e alle recriminazioni non aiuta. Rischia anzi di lasciare macerie sul terreno dell’antimafia quando finiranno i rantoli di questa guerra. Una guerra fra persone perbene (Di Matteo e Bonafede), ambedue ben consapevoli che ci si può dividere su tutto ma non nella lotta alla mafia. Che invece rischia proprio lacerazioni profonde nel surreale clima creato ad arte da chi fino a ieri considerava Di Matteo un laido giustizialista incompatibile con lo Stato di diritto: e oggi invece lo usa strumentalmente come uno splendente totem in funzione anti- Bonafede.

Azienda siciliana crea iMask, la mascherina con filtro FFP3 eterna e riciclabile.



La mascherina del futuro è un’idea della startup siciliana iMask. Si tratta di una mascherina 100% Made in Italy, l’unica senza valvola in grado di proteggere sia chi la indossa sia chi gli sta vicino. Il filtro utilizza un innovativo tessuto a base di polipropilene certificato nella classe di protezione FFP3, lo standard più elevato disponibile sul mercato per le mascherine semipermanenti di protezione individuale e chirurgiche.
Il filtro è lavabile e sterilizzabile e dai test effettuati nei laboratori della tedesca Fiatec Filter & Aerosol Technologie GmbH assicura una protezione di livello FFP3 fino a un mese dopo il suo primo utilizzo. Può essere utilizzata infinite volte grazie al filtro FFP3 sostituibile, che può durare fino ad un mese. Lavabile e sterilizzabile non è un dispositivo usa e getta. iMask è riciclabile, riduce il consumo delle mascherine usa e getta e limita il problema dello smaltimento dei prodotti monouso. È realizzata con una gomma termoplastica anallergica certificata per uso medicale è leggera e ha una vestibilità unica grazie al suo “comportamento elastico”.
Il prezzo di una mascherina, che contiene il filtro e che dai test effettuati assicura una copertura fino a ad un mese di effettivo utilizzo, è pari a 15 euro, mentre un blister con cinque filtri, che garantiscono una copertura fino a cinque mesi di effettivo utilizzo, costa 10 euro, solo 2 euro a filtro.

iMask, le certificazioni.

iMask è un dispositivo di protezione individuale con certificazione in deroga ed è in corso l’iter di certificazione come dispositivo medico, che richiede 20 giorni lavorativi dall’avvio della procedura, nel rispetto della norma europea Uni En 149:2001+A1:2009 sui “Dispositivi di protezione delle vie respiratorie – Semimaschere filtranti antipolvere – Requisiti, prove, marcatura”. Ideata, progettata e realizzata interamente in Italia, iMask è protetta da tre brevetti internazionali (depositati nell’aprile del 2020).

mercoledì 6 maggio 2020

Malafede. - Marco Travaglio

Le persone perbene, che a certi livelli si contano sulle dita di un monco, sono naturalmente portate al battibecco: l’antimafia, anche la migliore, è piena di casi del genere (Sciascia-Borsellino, Orlando-Falcone…). Invece i manigoldi, che a certi livelli si contano sulle dita della Dea Kalì, sono molto più flessibili grazie ai loro stomaci moquettati. Quindi oggi in Parlamento assisteremo alla scena più comica della storia dopo la mozione “Ruby nipote di Mubarak”: Bonafede trascinato a render conto di presunti cedimenti alla mafia indovinate da chi? Da Forza Italia, partito ideato da un mafioso e fondato da un finanziatore di Cosa Nostra, che sventola senza pudore la bandiera di Nino Di Matteo, il pm che ha fatto condannare Dell’Utri per la trattativa Stato-mafia durante i governi Amato, Ciampi e B. e che, se dipendesse da FI, sarebbe stato spazzato via dalla magistratura prima che ci pensasse la mafia. La fiera del tartufo, e della malafede.
Dopo i trii comici Troisi-Arena-De Caro, Aldo-Giovanni-Giacomo e Lopez-Marchesini-Solenghi, ora abbiamo FI-Lega-Iv. Salvini – appena eletto dalla Bbc cazzaro dell’anno insieme a Trump e Bolsonaro, con gran scorno dell’Innominabile – parla di “sospetti preoccupanti avanzati da un pm antimafia. Pensate se fosse accaduto a un ministro della Lega o a Berlusconi: sarebbe stata la rivoluzione della sinistra”. Veramente Di Matteo non ha mai detto che Bonafede abbia ceduto a pressioni mafiose. Quanto a cosa sarebbe accaduto alla Lega o a B., non c’è bisogno di immaginare: durante i loro governi si tennero trattative fra Stato e mafia sul 41-bis, sul decreto Biondi, sulla dissociazione ecc, un ministro mai cacciato disse che “bisogna convivere con la mafia”, si approvarono leggi svuotacarceri à go go e si propose di abrogare il 41-bis, il 416-bis, l’ergastolo e i pentiti, come da papello di Riina. Quanto alla “nuova” Lega, che da Nord a Sud ha imbarcato il peggio del forzismo, chi fu ad arruolare e sponsorizzare Paolo Arata (socio occulto del fiancheggiatore di Messina Denaro e compare del pregiudicato Siri)? Naturalmente Salvini. 
Ultimo del trio in ordine di voti è l’Innominabile che riesce a definire, restando serio, la polemica Di Matteo-Bonafede “il più grande scandalo della giustizia degli ultimi anni”. Modesto, il ragazzo: e dove lo mette lo scandalo del Csm, coi suoi amichetti Ferri e Lotti impegnati in notturni conversari a pilotare le nomine dei procuratori? Cosimino Ferri, anziché darle lui, ha chiesto le dimissioni di Bonafede. Una zampata da capocomico che stermina in un sol colpo il trio FI-Cazzaro-Innominabile e fa di lui il nuovo Principe della Risata.

TARTAGLIA E PETRALIA AL DAP. - Viviana Vivarelli.

Auguri di buon lavoro a Petralia e Tartaglia
Dino Petralia e Roberto Tartaglia

Di Matteo sulla carica di direttore dei penitenziari ci contava troppo e il suo orgoglio è rimasto talmente ferito che dopo due anni non ha superato la ferita. E' un magistrato eccezionale ma non è un santo. Del resto ha sbagliato anche lui che doveva prendere al volo l'offerta e non procrastinarla. Dopo ha sbagliato ancora perché poteva accettare il ruolo di capo degli Affari penali dove avrebbe potuto incidere fortemente sulle leggi.
A sua volta, Bonafede ha sbagliato a preferire un oscuro magistrato coma Basentini, che di mafia non si era mai occupato e aveva fatto processi solo di rimborsopoli, al più grande nemico della mafia come Di Matteo che avrebbe impedito che dal carcere di massima sicurezza i boss della mafia continuassero a gestire i loro affari criminosi, persino con il 51 bis. La sua scelta non è comprensibile né accettabile. L'unica spiegazione possibile è che Basentini sia stato imposto dalla Lega, per non offendere Cosa nostra. Del resto, se la Lega vuole vincere al sud, deve ereditare il posto servente di Berlusconi e andare a patti con la criminalità organizzata che può darle un notevole bacino elettorale. Certo è che con Di Matteo non sarebbe mai avvenuto che con la scusa dal contagio e dopo l'esplosione delle rivolte nelle carceri e i 14 morti, ben 367 detenuti mafiosi fossero mandati ai domiciliari. La condotta di Basentini dovrebbe essere sottoposta a inchiesta e le sue dimissioni non bastano. Ma, se fosse così, quella soggetta alla mafia sarebbe la Lega, non certo Bonafede, che è riuscito ugualmente a realizzare leggi importantissime nella lotta alla mafia come la legge anticorrotti, la legge contro lo scambio dei voti mafioso, il decreto di indurimento al rilascio di detenuti mafiosi, il peggioramento del 51 bis, e infine la nomina di due degne persone ai penitenziari come Tartaglia e Petralia.
Roberto Tartaglia ha lavorato a Palermo presso la Direzione distrettuale antimafia della Procura della Repubblica, dove è stato titolare di importanti processi di criminalità organizzata, come quello sulla trattativa Statp-mafia o quelli contro imputati esponenti di primo piano di Cosa Nostra (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella) insieme ad esponenti della politica e delle Istituzioni di sicurezza (Marcello Dell’Utri, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Subranni), si è occupato degli omicidi di Piersanti Mattarella e di Peppino Impastato. Ha investigato Dell'Utri e ha permesso il sequestro del patrimonio occulto del tesoriere di Riina e Provenzano
Dal maggio 2019 è consulente della Commissione parlamentare antimafia.
Dino Petralia, amico di Falcone e da sempre toga antimafia, è il nuovo capo delle carceri scelto da Bonafede, ha lavorato a Trapani, Sciacca, Marsala, Palermo e Reggio Calabria. Al Csm ha contestato le leggi di Berlusconi. Una vita spesa nella lotta alle cosche e, nello stesso tempo, nell'approfondimento giuridico per garantire una giustizia giusta, vita che va tutta in una direzione, dalla parte dello Stato contro chi ne viola le leggi. Contro la mafia, senza indulgenze di sorta, ma nel pieno rispetto della Carta e delle leggi che ne originano.
Lavoreranno in team.Tra i due, Petralia e Tartaglia, il rapporto è ottimo, perché entrambi hanno lavorato a Palermo, Tartaglia pm e Petralia procuratore aggiunto. Di più: Tartaglia lavorava nel pool sulla corruzione, di cui Petralia era il diretto coordinatore. È la prima volta che la scelta di un vertice cade su due figure già in stretto rapporto tra di loro, che quindi possono garantire una guida concordata.


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Il dubbio. - Massimo Erbetti

Psicoterapia cognitiva: diamoci il beneficio del dubbio

Insinuare il dubbio, screditare, infangare, deridere...e alla fine, se tutto questo non funziona...una bomba.
La mafia ha sempre usato questi metodi, la mafia non ti uccide subito, no, prima di farlo ti isola, fa in modo che tu rimanga solo, uccidere qualcuno che è appoggiato dallo Stato, che ha l'opinione pubblica dalla sua parte è pericoloso, fa troppo clamore. La mafia non vuole essere al centro dell'attenzione, agisce nel buio, in silenzio, non vuole i riflettori puntati. Lo stesso Falcone subì questo trattamento, quando fu vittima del primo attentato, al quale miracolosamente scampó, ci fu qualcuno che insinuó addirittura, che fu lo stesso Falcone ad organizzarlo, motivo? Per emergere, per farsi paladino dell'antimafia. "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno", questo diceva Falcone, "... perché si è soli... privi di sostegno". Così uccide la mafia, isolando. Oggi nella diatriba Bonafede Di Matteo, vedo tanto, troppo tifo da stadio, ha ragione uno, la ha l'altro.. si deve dimettere il Ministro...Di Matteo ha deluso...e se invece fossero entrati a far parte di "... un gioco troppo grande..."? E se invece di tifare, si cominciasse a pensare che entrambi sono vittime? O magari la vittima, la vittima designata fosse uno dei due e si usasse l'altro per screditarlo? Ci sono troppe cose che non quadrano in questa storia, prima la rivolta nelle carceri. Non trovate strano che siano scoppiate tutte insieme? Non pensate che dietro quelle rivolte, apparentemente singole, ci sia un'unica regia? Poi le scarcerazioni dal 41bis...colpa del Ministro, dicono in molti, ma non è così, "la colpa", se di colpa si può parlare, non è del ministro, ma di alcuni magistrati, per chi non lo sapesse in Italia c'è la divisione dei poteri, non è la politica ad attuare le scarcerazioni, ma la magistratura, che agisce attuando le leggi, quelle leggi che non ha certo fatto il governo attuale, leggi emanate sotto il governo Berlusconi e dovrebbero saperlo bene Salvini e Meloni, che oggi vogliono le dimissioni del Ministro...quelle leggi sono anche le loro, visto che con Berlusconi ci governavano. Altra cosa strana: sembrerebbe che alcune scarcerazioni siano state attuate da un magistrato che "casualmente" è moglie di un leghista, sicuramente le colpe dei padri, in questo caso delle mogli, non possono ricadere sui figli (in questo frangente dei mariti), ma qualche dubbio abbiamo il diritto di averlo no? E per ultimo, ma non ultimo, sembrerebbe che la mancata nomina di Di Matteo al ruolo ambito nel 2018 e la scelta dell'altro candidato sia dovuta a pressioni della Lega...è vero? È falso? Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai.
Insinuare il dubbio, screditare, infangare, deridere...e alla fine se tutto questo non funziona...una bomba.
Bonfade per le sue leggi e Di Matteo per le sue lotte, sono personaggi scomodi e se vogliamo bene a questo paese, se vogliamo veramente combattere mafia e malaffare, se proprio vogliamo avere dei dubbi, non è certo su di loro che dobbiamo averli, ma su chi sta cercando di screditarli entrambi.

"Si muore... perché si è soli... privi di sostegno", non dimenticatelo mai.

Pignatone ammette: “Forti richieste da Centofanti”. - Antonio Massari

Pignatone ammette: “Forti richieste da Centofanti”

Agli atti dell’indagine su Palamara, le pressioni dell’imprenditore per far trasferire il fratello.
Che l’imprenditore Fabrizio Centofanti, indagato a Perugia con il pm romano Luca Palamara per corruzione dell’esercizio della funzione, fosse stato in contatto con l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, è un fatto ormai noto. Quel che non si sapeva, ma si ricava dai documenti depositati nell’inchiesta perugina su Palamara, è che i rapporti di Centofanti con Pignatone erano tali da consentirgli di fare richieste pressanti per il trasferimento di suo fratello Andrea, che nel 2016 fu arrestato a Genova per tentata concussione. Al Fatto risulta che le vicissitudini di Andrea Centofanti erano piuttosto delicate sotto il profilo personale. E che, proprio per questo, suo fratello Fabrizio se ne occupò. Pignatone spiegherà al pm Stefano Fava (anche questi indagato a Perugia, ma per rivelazione di segreto), in un carteggio del 19 marzo 2019, che non si adoperò per il trasferimento anche se, come vedremo, in qualche modo affrontò l’argomento con alti generali della Guardia di Finanza. A segnalare l’argomento al pm Fava – titolare dell’indagine prima che fosse trasferita a Perugia – era stato il capitano della Gdf, Silvia di Giamberardino.
Scrive Pignatone: “Quanto alle notizie riferite dalla Di Giamberardino (…) Ho partecipato a una unica cena con il Centofanti Fabrizio e il gen. Minervini (Domenico, ndr) Comandante Interregionale della GdF e altre persone. Non sono andato, né sono stato invitato al matrimonio di Centofanti Andrea, non ho segnalato il Centofanti Andrea Ufficiale della GdF in servizio a Milano per il trasferimento al Nucleo PT di Genova, ma mi limitai su pressante richiesta del fratello, a informarmi se il predetto poteva restare in Lombardia per, così mi fu detto, una difficile situazione familiare”. Pignatone ne parlò con Saverio Capolupo, comandante generale della Gdf dal 2012 al 2016. “Chiesi notizie al gen. Capolupo, mio buon amico, che senza darmi particolari mi disse che la situazione era complessa e diversa da quella prospettatami, per cui era difficile che l’aspirazione dell’ufficiale potesse essere soddisfatta. Mi limitai a riferire la risposta in termini ancora più generici a Fabrizio Centofanti e, in effetti, il fratello fu poi trasferito a Genova sede a lui non gradita”. Nessun reato, com’è ovvio, ma un segnale d’interessamento, dopo la pressante richiesta di Centofanti, c’è stato.
Oltre ai rapporti con Centofanti – ed è anche questo il motivo del carteggio con il pm Fava – c’erano poi le consulenze del fratello di Pignatone, Roberto. In particolare quelle su Piero Amara del quale, come vedremo, Fava aveva chiesto inutilmente l’arresto. Piero Amara è un ex legale esterno dell’Eni. Era stato imputato in due procedimenti a Siracusa e aveva nominato consulente Roberto Pignatone che appare nella sua lista testi. Anche in questo caso, nessun reato. Ma Fava si chiede – e il 27 febbraio depositerà la sua richiesta al Csm – se Pignatone non avrebbe dovuto astenersi dai fascicoli che riguardavano Amara. Il 18 marzo, Fava si vede revocare l’inchiesta perché non è in linea con il pool di magistrati che segue il fascicolo, sull’esigenza dell’arresto di Amara. Accusato di rivelazione del segreto d’ufficio con Palamara, proprio perché, secondo la Procura di Perugia, gli ha rivelato il contenuto dell’esposto al Csm, Fava spiega ai pm perugini il senso del suo esposto: “Ribadisco che volevo solo rendere edotto il Csm di una situazione per me di incompatibilità, perché noi avevamo incontrato Amara molto prima del luglio 2017 che è il periodo al quale risulterebbe la richiesta di astensione del dr. Pignatone”.
Il 19 marzo, nella stessa lettera in cui parla di Centofanti, Pignatone spiega: “Ribadisco quanto affermato durante la riunione con i colleghi Prestipino, Sabelli, Ielo, Palazzi e Tucci e cioè di essere sicuro di aver informato la Signoria Vostra a suo tempo, e cioè nella seconda metà del 2016 ,quando divennero oggetto di indagini l’Amara Pietro e il Bigotti Ezio dell’esistenza di rapporti professionali peraltro già cessati tra il Bigotti e mio fratello avv. Roberto Pignatone”. In effetti, oltreché da Amara, Roberto Pignatone riceve consulenze anche da Ezio Bigotti, arrestato con lo stesso Amara e Centofanti.
Pignatone sottolinea che tutti i colleghi citati “hanno confermato di essere stati a suo tempo informati e che era stato concordemente ritenuto che non ci fosse motivo di astensione da parte mia”. Aggiunge infine di aver informato anche il procuratore generale “che aveva, con provvedimento formale, escluso che vi fossero ragioni di astensione”.