sabato 26 settembre 2020

Toh! sommosse per il reddito di cittadinanza. - Antonio Padellaro













In giro per festival estivi noto che c’è sempre un momento in cui l’oratore, a corto di argomenti e di pubblico, tira fuori il Reddito di cittadinanza citato come l’esempio più esecrabile del populismo del piffero. Quello dell’incompetenza bovina, della stupidità politica, frutto avvelenato della peronospora grillina da debellare al più presto. A questo punto il copione prevede (in un crescendo rossiniano di toni) la nota romanza del “sono gli stessi che annunciarono dal balcone la fine della povertà”. Applausi. Onestamente la povertà abolita per decreto continua a sembrarmi, come dire, un tantino sopra le righe. Anche se poi l’occhio mi è caduto su questo titolo dell’edizione siciliana di Repubblica: “In centomila senza più Reddito. Allarme alla Regione: “Rischio sommossa”.

In un documentato articolo, il collega Antonio Fraschilla scrive che l’erogazione dell’assegno sarà sospesa per due mesi “come previsto dalla legge manifesto del Movimento 5 Stelle per verifiche” e per ripresentare quindi la domanda nei Centri per l’impiego o nei Caf. “Uno stop – leggiamo – che coinvolgerà comunque tutti i 560mila beneficiari del sussidio in Sicilia. Un’intera grande comunità perché molti non possono fare lavoretti, in nero o meno”. Si parla di circa 400mila persone “inabili, o che non hanno alcuna qualifica oppure hanno in carico parenti e figli con handicap”. Una deplorevole condizione umana che, probabilmente, farebbe storcere il naso all’oratore di cui sopra, che a questo punto potrebbe invocare maggiori controlli per debellare furbi e furbetti (applausi). Il fatto è che l’assessore regionale Antonio Scavone ha scritto alla ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, anche lei siciliana: “Parliamoci chiaro, rischiamo una sommossa nelle nostre città se non ci saranno garanzie sul ripristino dell’assegno”. Apprendiamo infatti che in Sicilia il sostegno varia dai 560 ai 1.000 euro al mese, in base a numero di figli a carico e affitto di casa. Che problemi analoghi li ha pure la Campania, dove i beneficiari del reddito sono più di 600mila. E che l’indigenza che soffoca il Sud impone di accelerare le pratiche visto che l’emergenza Covid rende di difficile accesso uffici e strutture. In un prossimo dibattito proverò a sfidare l’impopolarità ponendo all’uditorio due semplici domande. Come saremmo messi oggi in Italia se con la pandemia, il lockdown e la catastrofe economica non ci fosse stato il Reddito di cittadinanza? E pure se l’abolizione della povertà è un vasto programma, non potremmo accontentarci di abolire le sommosse?

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Tutti gli errori di Madrid e Londra “Ritardi e sbagli nei tracciamenti”. - Marco Pasciuti


Lo studio sui Paesi più in difficoltà. The Lancet. L’analisi. Tra le carenze di Spagna e Regno Unito la rivista indica l’assenza di criteri pubblici per le restrizioni.

Ora assistono a una nuova impennata delle curve epidemiche e stanno procedendo a nuovi lockdown, ma entrambe hanno “avuto problemi” nel mettere in piedi un efficace sistema di contact tracing. Hanno revocato e ripristinato le restrizioni “senza seguire criteri espliciti e pubblici”. Non è chiaro, poi, se nel farlo Londra utilizzi i propri “sistemi di allerta”. Madrid, invece, ha usato gli indicatori scelti “senza alcuna ponderazione esplicita nel processo decisionale”. Uno studio pubblicato su The Lancet ha passato in rassegna i modelli di risposta all’epidemia di Covid-19 utilizzati in 9 Paesi. Nel quadro che ne emerge Regno Unito e Spagna hanno commesso diversi errori.

Lo studio, pubblicato su una tra le più importanti riviste scientifiche a livello internazionale, ha analizzato la situazione di 5 Stati nella regione Asia-Pacifico (Sud Corea, Hong Kong, Giappone, Nuova Zelanda e Singapore) e 4 in Europa (Germania, Norvegia, Spagna e Regno Unito), questi ultimi in un contesto in cui “più di un decennio di misure di austerità hanno indebolito sistemi sanitari e protezione sociale”: esperti provenienti da ognuno di questi Stati hanno analizzato la risposta data dai rispettivi governi al virus e le loro scelte in materia di allentamento delle restrizioni. Allentamento che sarebbe dovuto avvenire in base a 5 prerequisiti: “Conoscenza dello stato dell’infezione”, “grado di coinvolgimento della comunità”, “capacità del sistema di salute pubblica”, “capacità del sistema sanitario” e “controlli alle frontiere”.

Il primo problema è comune: sia a Londra che a Madrid “i politici, avvalendosi della consulenza di esperti, decidono quando e quali restrizioni ridurre, ma senza criteri espliciti e pubblici”. Il governo Sanchez (che ieri ha avuto altri 12.272 contagi a 120 morti) in particolare “ha pubblicato un pannello di indicatori, inclusi parametri epidemiologici, di mobilità, sociali ed economici, senza alcuna ponderazione esplicita nel processo decisionale”. Senza cioè spiegare quale peso abbia ognuno di questi nelle decisioni. La mancanza di coordinamento è stato, invece, uno dei principali errori di Boris Johnson, che ieri ha dovuto registrare un nuovo record di contagi, 6.874 contro i 6.634 di giovedì: Inghilterra, Galles, Nord Irlanda e Scozia, “le 4 nazioni del Regno si sono allineate nella loro strategia fino a metà marzo, quando ognuna si è discostata nei suoi approcci specifici ed è uscita dal blocco”. Rompendo l’uniformità di misure che avrebbero potuto limitare la circolazione del SarsCov2 nel Paese. Esempio: in Inghilterra, “la distanza consigliata tra le persone è di almeno un metro, mentre in altre aree di due”. Quindi la comunicazione “è stata confusa e incoerente”.

Come le decisioni: a partire da giugno, sottolinea lo studio, il Regno ha adottato il modello della “bolla sociale” introdotto dalla Nuova Zelanda, che “consente a un gruppo di persone di avere uno stretto contatto fisico tra loro e praticare il distanziamento con soggetti esterni”. Il punto è che “a quelle che erano nate come bolle domestiche bloccate è stato lentamente consentito di estendersi a piccoli gruppi di familiari e amici, e poi di fondersi con altre bolle”. Tutte e 4 le nazioni britanniche “hanno avviato una simile strategia”. In questo momento, poi, in cui la Gran Bretagna sta “revocando o ripristinando le restrizioni sulla base di soglie epidemiologiche” (da ieri sono 16 milioni su 66 i britannici sottoposti a un lockdown bis localizzato) lo fa in maniera confusa: sebbene questi tre Paesi “dispongano anche di sistemi a livello di allerta, il collegamento a particolari contromisure non è stato altrettanto esplicito e non è chiaro se il sistema del Regno Unito venga effettivamente utilizzato”.

Il problema in diversi casi è a monte: “Sembra intuitivo che uno Stato non debba aprirsi finché non dispone di un sistema di sorveglianza di alta qualità” che opera attraverso le fasi di “ricerca, test, tracciamento, isolamento e supporto”. “Questo principio è stato spesso ignorato” e anche sotto questo punto di vista Londra e Madrid “si sono mosse con fatica”. La seconda, a corto di medici di base e personale nei distretti sanitari, ha dovuto far ricorso ai militari. Problemi anche nel proteggere i sanitari per la carenza di guanti e mascherine: in Spagna “il personale medico ha rappresentato oltre il 10% dei casi totali di Covid-19”.

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I rivoltosi dell’(ex) buvette: “Basta con il caffè ciofeca”. - Ilaria Proietti

 


Protesta bipartisan - Sugli standard alimentari.

E va bene che non è più tempo di lusso sfrenato, che la crisi morde e c’è pure l’emergenza coronavirus. Ma a Palazzo c’è chi è pronto a fare le barricate per tornare all’antico con pasti degni di ristoranti stellati e trasporti al top della comodità, altro che risparmi. Ché, per dirla con il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato di Italia Viva, ne va “della giusta considerazione per la funzione parlamentare”. E così, come tollerare i disservizi della caffetteria? E che dire del nuovo corso che imporrebbe, quando possibile, di ripiegare su biglietti per aerei e treni meno costosi o comunque a miglior prezzo? Giammai.

Ora va detto che Montecitorio è già orfano della buvette, tempio indiscusso della politica della Prima e pure della Seconda Repubblica: il bar adiacente al Transatlantico dove gustare spuntini veloci, frutta prelibatissima, dolci di fine pasticceria e gli intramontabili supplì e che era un must ha chiuso i battenti a causa della riorganizzazione degli spazi imposti dall’epidemia. Ora i deputati devono addirittura scendere al ristorante anche solo per il caffè. Che però, stando alle lamentele di Palazzo, manco quello è come una volta. Anzi, qualcuno, sotto la garanzia dell’anonimato, dice proprio che “è una ciofeca”. Ma la rivolta è ormai affiorata, come è successo qualche settimana fa in Ufficio di presidenza impegnato con l’approvazione del Bilancio interno: nessuna accusa personale, per carità. Ma sulla graticola sono finiti Roberto Fico (“manidiforbice”) e pure il Collegio dei questori accusati implicitamente di voler cedere a una certa demagogia anti-casta. Certo, i tempi in cui il servizio di ristorazione veniva svolto in house con camerieri e cuochi della Camera disposti a tutto per accontentare gli onorevoli inquilini, grazie a una possibilità di spesa in menu da mille e una notte, sono lontani. Ma c’è chi teme che vada sempre peggio: il pesce surgelato anziché la spigola appena pescata come un tempo è il segno tangibile del declino e non è l’unico. La società che ha vinto l’appalto per la ristorazione è stata formalmente diffidata dal proporre prodotti non previsti dal contratto, ossia non italiani o comunque di provenienza non europea: l’incidente diplomatico si è verificato al banco della frutta che in passato riservava solo primizie doc. E quelli che vanno a combinare? Hanno provato a rifilare agli onorevoli commensali arance egiziane “ed erano pure cattive”. Lapidario il commento di un salviniano doc. “Gli attuali standard di qualità non sono soddisfacenti”, ha tuonato Marzio Luini della Lega facendo eco al renzianissimo Rosato. Che proprio non si dà pace che alla Camera, dove è appunto vicepresidente, vengono calpestati così alti principi. “Le politiche di contenimento dei costi dell’Istituzione siano state perseguite nella più ampia condivisione tra le forze politiche, ma non si può cedere alla demagogia”, ha detto il suonando la carica per rivendicare innanzitutto il diritto a condizioni di viaggio confortevoli, “non trattandosi in questo caso di uno spreco, ma della giusta considerazione per la funzione parlamentare”. Per tacere delle disfunzioni negli orari dei servizi di ristorazione e caffetteria “non più collegabili all’emergenza da Covid-19 e dovute a logiche di risparmio che non possono essere condivise”.

Già, il Covid: a causa del morbo, per un po’ i deputati si sono dovuti accontentare del cestino con i panini e poi di pasti preincartati come in aereo e già questo ha scombinato radicalmente le abitudini, anche se nessuno ha fiatato. Ma poi, quando le cucine della Camera si sono rimesse in funzione, qualcuno si è lamentato del menu comunque stringato e pure del servizio non garantito nei giorni di lunedì e venerdì: per placare le rimostranze, si è deciso che il ristorante resta aperto anche in quei giorni in cui però obiettivamente c’è poco afflusso di deputati, mentre garantire i coperti ha un costo. Per starci dentro con le spese, le porte dell’onorevole desco sono state allora spalancate anche ai consiglieri parlamentari che tutti gli altri giorni della settimana devono accontentarsi della mensa per il personale dell’amministrazione.

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“Sì, Vincenzo m’è padre a me”: quanti figli di papà per De Luca. - Antonello Caporale

 



“Vincenzo m’è pate a me”. Sono tanti i Peppiniello di Totò, i figli d’arte destinati alla politica. Preferiti ed eletti a furor di popolo. È questo un bell’esempio, per chi dovrà occuparsi della nuova legge elettorale, di capire a fondo ciò che significa il voto di preferenza. Se esso sia il miglior modo di dare valore alla rappresentanza, o piuttosto titolo dinastico, potere delegato e rendita parassitaria. Dalla Campania di De Luca padre (da qui la trasposizione dal teatro del Totò di Miseria e nobiltà alla realtà fattuale del “Vincenzo m’è pate a me”) che giustamente ha preteso per i suoi due figlioli un accesso immediato e riservato all’impegno pubblico, destinando un maschio, Piero, a Montecitorio, e un altro maschio, Roberto, al Comune di Salerno, le ultime elezioni restituiscono il valore assoluto del pater familias.

Cosicché con 11.147 voti la giovanissima Vittoria Lettieri, 21 anni spesi nella spensieratezza del mondo karaoke, si ritrova votatissima e al primo posto degli eletti della sua lista. In un memorabile video avverte che confida nella “speranza”. Conduce questa prova per realizzare un piano di resistenza contro i cattivi, coloro che hanno sgovernato e tolgono speranza. Sarà consigliere regionale. Per un caso provvidenziale Vittoria è figlia di Raffaele, sindaco di Acerra e trascinatore di passioni nell’urna. Solo il papà, per dire, è riuscito a consegnarle nel suo comune 7.152 voti di preferenza conducendo la lista della speranzosa e giovanissima Vittoria (De Luca Presidente) al primo podio assoluto e a stracciare il Pd. Trentasei per cento dei voti totali contro un misero 12 per cento dell’intero apparato di Zingaretti.

Favole? Fantasie? Lettieri, al tempo nell’Udc di Pier Ferdinando Casini, quindi convintamente nel centrodestra, era legatissimo a Stefano Caldoro, al tempo in cui quest’ultimo guidava la Regione, e a un assessore della sua giunta, anzi al vero uomo forte: Pasquale Sommese.

Mutatis mutandis. E così anche Sommese ha cambiato cavallo e anche a Sommese, ora con De Luca, è venuta voglia – visto che improvvisi guai giudiziari gli consigliavano di stare fermo almeno questo giro – di capire quanto valesse il suo giovane erede Giuseppe. Prova magnifica. Il Peppiniello di Sommese ha sbaragliato, in una lista fabbricata ad hoc (Liberaldemocratici-Moderati) i concorrenti ottenendo ben 5.554 voti di preferenza. Eletto e urrà! E Gianpiero Zinzi, figlio di Domenico, ex presidente della Provincia di Caserta, ex assessore regionale, ex eurodeputato, noto esaminatore democristiano di schede elettorali, è ora un cavallo vincente della Lega, salviniano di grande appeal. E Bruna Fiola, figlia di Ciro, presidente della Camera di Commercio? Eletta! E Mario Casillo, figlio di Franco, un potente di ieri e di oggi? Eletto! E Andrea Volpe, figlio di Mimmo, acchiappavoti di Bellizzi, nella cintura salernitana, di cui è sindaco da anni? Eletto!

Non c’è trucco e non c’è inganno. I “figli di” oltre a essere piezz ’e core risultano anche cavalli vincenti. Sorrisi smaglianti e un abbraccio virtuale. “Una campagna bellissima!” dice su facebook Andrea Volpe. “Ma quanto vi voglio bene?”, domanda ai suoi elettori Bruna?

Quanto ci vuole bene, e quanto vuole bene alla realtà, che si dimostra anche generosa, Giovanni Mensorio, diecimila voti nel nome del defunto papà Carmine, deputato di fattura democristiana e poi di grandissima stagionatura mastelliana, caduto nel vortice di Tangentopoli e morto suicida pur di protestare la sua innocenza (si lanciò dal traghetto Patrasso-Ancona il 16 agosto 1996).

E cosa vogliamo dire di Annarita Patriarca, undicimila voti raccolti nel mare magnum del mondo di mezzo dell’area stabiese, da Gragnano fino a Castellammare, in cui per buoni vent’anni ha regnato suo papà Francesco, prima deputato, poi senatore, devoto di Antonio Gava, il grande possidente dello scudocrociato napoletano? Papà Francesco fu condannato in via definitiva a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Ma Annarita, senza perdersi d’animo, volle testimoniare il valore e la figliolanza. Si fece eleggere al municipio di Gragnano, il feudo paterno, ne fu sindaco, ufficio che purtroppo dovette abbandonare nel marzo 2012, giacché il ministero dell’Interno stava valutando lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, e suo marito, Enrico Martinelli, a sua volta sindaco di San Cipriano d’Aversa, fu arrestato nel corso di un’indagine su Antonio Iovine, il boss dei Casalesi.

Oggi Annarita è più forte di prima, più preferita che mai. È l’anima e il vessillo del centrodestra. Stupirsene? Così è se vi pare.

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I Nominati e le porcate: chi ha vietato di scegliere. - Giacomo Salvini

 












Luglio 1993. Mentre i partiti della Prima Repubblica venivano spazzati via dalle inchieste di Mani Pulite (il 30 aprile Bettino Craxi veniva ricoperto di monetine davanti all’hotel Raphael), i due deputati Lucio Magri (ex Pci) e Sergio Mattarella (Dc) si incontrarono in Transatlantico davanti alla sala della Lettura e, dopo un breve conciliabolo, si scambiarono un bigliettino enigmatico: “75-25”. Nacque così la legge elettorale “Minotauro” – poi coniata (con disprezzo) da Giovanni Sartori come “Mattarellum” dal nome del suo relatore – perché per la prima volta nella storia repubblicana si mettevano insieme due sistemi elettorali diversi: tre quarti del Parlamento (il 75%) sarebbe stato eletto con i collegi maggioritari, il restante 25% con il proporzionale. E, per abolire le preferenze che nella Prima Repubblica erano diventate il ricettacolo della mafia e delle correnti Dc, per la prima volta i partiti decisero di inserire le liste bloccate. Da quel momento i cittadini non poterono più scegliere i propri rappresentanti.

Un passo indietro. Per quarant’anni – dal 1948 al 1993, con la breve parentesi della “Legge Truffa” abrogata nel 1953 – i cittadini hanno sempre potuto scegliere i propri parlamentari. Anche troppo. La Camera era eletta con un sistema proporzionale puro, senza soglie di sbarramento, ma soprattutto liste che permettevano all’elettore di esprimere fino a un massimo di 5 preferenze. E allora era un profluvio di santini, ambi, terne, quaterne (specializzati erano i ras della Dc), date (Clemente Mastella invitava i suoi elettori a votare l’anno 1976, dove 1 era De Mita, 9 lui, 7 Bianco e 6 Gargani), fino ai ministri democristiani che per mantenere il proprio pacchetto di voti arrivarono a far costruire intere autostrade per arrivare nella propria città natale: il potente doroteo e sedici volte ministro Remo Gaspari (detto anche il “Duca degli Abruzzi”) spinse per due autostrade per collegare Pescara e l’Aquila a Roma con uno svincolo apposito nella sua Gissi (poco più di 3mila abitanti). Lo stesso fece il sei volte presidente del Consiglio Amintore Fanfani che ideò la “curva Fanfani” per far deviare la A1 nella sua Arezzo. Ad ogni tornata, quindi, gli elettori li premiavano generosamente. Le preferenze multiple ormai non erano più un esercizio di democrazia ma la certezza dell’elezione del micronotabile più clientelare.

Così si decise di abolire le preferenze. Mariotto Segni e il Movimento dei 31 (da Carlo Bo a Umberto Agnelli fino a Rita Levi Montalcini) promossero un referendum per abolire le preferenze multiple passando a una unica. Il quesito fu approvato con una maggioranza bulgara, nonostante Craxi avesse invitato gli elettori ad “andare al mare”: il 96% disse Sì. Le prime liste bloccate furono inserite per la prima volta con il “Mattarellum”: per il 25% dei collegi assegnati con il sistema proporzionale i candidati a Camera e Senato erano nominati dai partiti. Anche il “Mattarelllum” si portava dietro molte distorsioni come le liste civetta create ad arte per superare il meccanismo dello scorporo dei voti maggioritari per determinare la quota dei seggi nel proporzionale, ma anche altri effetti indesiderati: alle elezioni del 1996 l’Ulivo fece il pieno in Campania con tutti i suoi candidati nei collegi senza far eleggere il primo nel listino proporzionale, Giorgio Napolitano, poi paracadutato al Viminale nel primo governo Prodi.

Il “minotauro” durò nove anni fino al 2005, quando il premier Silvio Berlusconi arrivò a minacciare la crisi di governo se il Parlamento non avesse approvato una legge proporzionale: lo scopo era quello di rendere più difficile la maggioranza assoluta all’Ulivo alle elezioni dell’aprile 2006. E così fu. Il quindicesimo Parlamento fu eletto con una legge che il suo padrino, il leghista Roberto Calderoli, definì apertamente “una porcata”: un sistema proporzionale con lunghe liste bloccate (tutti nominati dai partiti) e un premio di maggioranza del 55% alla coalizione che avesse ottenuto il maggior numero di voti. Quella legge, che a parole non piaceva a nessuno, è stata applicata per le elezioni del 2006, 2008, 2011 e 2013. Tutti i partiti se ne dissociavano ma poi se la tenevano. A fine 2012, a pochi mesi dalle elezioni politiche del febbraio successivo, il redivivo Berlusconi e Bersani affidarono la partita della legge elettorale ai propri sherpa, Denis Verdini e al senatore piacentino Maurizio Migliavacca. Dopo settimane di trattative, si decise di non modificare il “Porcellum” per non toccare le liste bloccate. Fabrizio Cicchitto arrivò a gridare al “pactum sceleris à la Ribbentrop-Molotov”, il celebre patto di non aggressione del 1939 tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica. Non proprio un complimento. Ci fu bisogno della Corte Costituzionale per eliminare la “porcata”: incostituzionale sia l’abnorme premio di maggioranza, sia le liste bloccate.

Dopo il Consultellum, un proporzionale puro con preferenze, Matteo Renzi decise che abolire le liste bloccate sarebbe stato troppo anche se da Rottamatore si diceva favorevole “alle preferenze”. Prima arrivò il “Toscanellum” o anche “Verdinellum” (ancora una volta lo zampino era del macellaio di Fivizzano): nel 2014 il consiglio regionale della Toscana approvò un sistema che prevedeva un premio del 57% se uno dei candidati avesse raggiunto la soglia del 40%. Poi il mantra del renzismo fu rispettato anche sulla legge elettorale: dalla Toscana al Paese. L’Italicum approvato nel maggio 2015 era una brutta copia del “Toscanellum”: oltre al premio, i capilista erano tutti bloccati. Ma questa legge, primo caso nella storia repubblicana, non è mai stata applicata: bocciata anch’essa dalla Consulta nel 2017. Alle politiche del 2018 gli italiani sono andati a votare con una nuova legge, il “Rosatellum” dall’idea di Ettore Rosato, in parte maggioritaria e in parte proporzionale. Ma ancora una volta, gli elettori non hanno potuto scegliere: le liste erano più corte, ma tutte bloccate e con le pluricandidature. Dopo il Sì al referendum, chissà se il prossimo Parlamento sarà più snello e soprattutto eletto dai cittadini.

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L’Ingegner Golpe. - Marco Travaglio











        Mentre gli elettori e gli eletti 5Stelle si domandano se il loro movimento abbia ancora un senso, ci ha pensato Carlo De Benedetti, padrone del nuovo giornale senza padroni, a dissipare i loro dubbi. L’ha fatto a Piazzapulita, davanti al conduttore che lo auscultava come l’oracolo di Delfi e a Bersani che lo riduceva in poltiglia. Lì ha intimato a Mattarella di sciogliere subito le Camere perché alle Regionali i partiti hanno avuto risultati diversi da quelli delle Politiche del 2018 e sarebbe assurdo che chi ha perso le Regionali elegga il nuovo presidente della Repubblica. L’idea che le Regionali decidano chi governa le Regioni, le Politiche chi governa il Paese (o meglio, chi ha la maggioranza in Parlamento per governare il Paese) e il Parlamento chi fa il capo dello Stato non sfiora il nostro costituzionalista della mutua. Strano, perché anni fa fondò Libertà e Giustizia per difendere la Costituzione: quell’agile libretto di 139 articoli che separa nettamente l’elezione indiretta del capo dello Stato (per 7 anni) e quelle dirette del Parlamento, dei Consigli regionali e dei Consigli comunali (per 5 anni). La durata sfasata e la maggioranza qualificata del Quirinale sottolineano vieppiù la volontà dei Costituenti di proteggere il capo dello Stato dalle logiche momentanee della politica e dai contingenti rapporti di forza fra governo e opposizione. Infatti neppure un analfabeta costituzionale come il Cazzaro Verde chiede al Quirinale di sciogliere le Camere. E l’unico a congratularsi con CdB è Pietro Senaldi su Libero: sono soddisfazioni.

Chi non conoscesse CdB potrebbe pensare che abbia studiato la Costituzione su Tiramolla. O rinfacciargli l’incoerenza di aver sostenuto in passato presidenti e governi votati da maggioranze parlamentari non indebolite, ma illegittime. Come Napolitano e i governi Letta, Renzi e Gentiloni, figli del premio di maggioranza (anzi di minoranza) del Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Ma l’Ingegner Golpe, del diritto e della coerenza, se ne infischia. E sa benissimo di aver detto una somarata (una più, una meno). Ma l’ha detta lo stesso, consapevolmente, confessandone pure il movente (a una certa età, si è più portati a confessare): “In Parlamento ci sono più di 300 cinquestelle e saranno decisivi per scegliere il prossimo presidente della Repubblica”. In effetti, avendo preso il 33% dei voti, il M5S ha un terzo dei parlamentari: a pensarci prima si potevano abolire gli elettori, o sterminare quelli intenzionati a disobbedire a CdB, ma ormai è andata così. Purtroppo siamo in democrazia. Lui però è abituato a fare e disfare maggioranze e governi. A dettare liste dei ministri e leggi à la carte.

A creare partiti e leader o pseudotali in laboratorio (ultimi capolavori: l’Innominabile e Pisapia). A pagare mazzette per rifilare telescriventi obsolete alle Poste. A farsi anticipare i decreti per specularci e guadagnarci in Borsa. Dunque non può tollerare l’esistenza di un movimento che non prende ordini da lui, anzi non se lo fila proprio. Né tantomeno di un premier che non fa insider trading e, se gli mandi degli emissari per avvicinarlo, te li rispedisce al mittente. Infatti vuole B. al governo “pur di cacciare Conte”. E votare subito per far vincere Salvini&C. e far scegliere da loro, anziché dagli odiati “grillini”, il nuovo capo dello Stato. Da Tessera Numero Uno del Pd a leader della Sinistra per Salvini. Tanto, con la destra come con la sinistra, lui s’è sempre messo d’accordo. Franza o Spagna purché se magna. L’importante è levarsi dai piedi i 5Stelle perché “hanno truffato gli elettori e non han fatto niente”. Ma, se fosse vero, lui li appoggerebbe e forse li voterebbe pure. Il guaio è che hanno mantenuto un bel po’ di promesse (non con lui, però): hanno smontato un bel pezzo di Jobs Act (“A Renzi il Jobs Act l’ho suggerito io, lui mi è stato sempre molto grato”) col dl Dignità, dato un sacco di soldi ai poveri anziché a lui col Reddito di cittadinanza, varato la legge anticorruzione e antiprescrizione (lui per le sue tangenti fu per metà prescritto), imposto le manette agli evasori (e lui di indagini per elusione, evasione e falsi in bilancio se ne intende) e ora minacciano una legge contro i conflitti d’interessi fra imprese e giornali (un po’ come parlare di corda in casa dell’impiccato).
Non solo: non vogliono il Mes, il prestito europeo ipercondizionato per la sanità che l’accordo Ue sui 209 miliardi di Recovery Fund ha reso ancor più inutile di quanto già non fosse (infatti in Europa non l’ha preso nessuno, perché il primo che si alza confessa di essere in default). Tantopiù che il governo ha già stanziato 10 miliardi in un anno per la sanità, altri ne stanzierà col Recovery e per ora non ha problemi di cassa. Eppure CdB vuole a tutti i costi il Mes, non riesce a farne a meno, ne parla come il Papa del Paradiso. Qualche maligno potrebbe ricordare che la sua famiglia è padrona del gruppo Kos, titolare di 55 fra cliniche private e Rsa (alcune indagate per i contagi da Covid): vedi mai che qualche miliarduccio piova anche da quelle parti. Ma sarebbe un’ingiusta cattiveria. L’impressione che dava l’altra sera l’attempato prenditore, mentre smetteva di colpo la mutria malmostosa di chi sente dei cattivi odori per magnificare estasiato i balsamici effetti del Mes, era quella di un increscioso equivoco dovuto all’anagrafe. Che, cioè, avesse scambiato il Mes per un nuovo tipo di Viagra.

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venerdì 25 settembre 2020

La melodia della Via Lattea. - Ilaria Marciano


 













Un concerto galattico dal cuore della Via Lattea. Questo è il risultato ottenuto convertendo i dati dei telescopi spaziali Nasa ChandraHubble e Spitzer in suoni, attraverso il processo noto come sonificazione.

La conversione inizia dal lato sinistro dell’immagine (nel video in basso) e si sposta verso destra. I suoni rappresentano la posizione e la luminosità delle sorgenti: la luce degli oggetti situati verso la parte superiore dell’immagine viene convertita in suoni più alti mentre il volume del suono viene regolato in base all’intensità della luce.

Le stelle e le sorgenti compatte vengono convertite in singole note, mentre le estese nubi di gas e polvere producono delle variazioni armoniche in evoluzione. Il crescendo avviene quando si raggiunge la regione luminosa in basso a destra nell’immagine: è qui che risiede il buco nero supermassiccio noto come Sagittarius A*, con una massa di 4 milioni volte quella del Sole, situato centro della galassia, dove le nubi di gas polvere sono le più luminose.

Ogni immagine ottenuta dai tre telescopi spaziali, convertita poi in suono, rivela diversi fenomeni che accadono in questa regione, a circa 26.000 anni luce dalla Terra. I dati di Hubble delineano le regioni energetiche in cui nascono le stelle, l’immagine a infrarossi di Spitzer mostra le nubi di polvere incandescenti, contenenti strutture complesse, e i raggi X di Chandra rivelano gas riscaldato a milioni di gradi da esplosioni stellari provenienti da Sagittarius A*.

Oltre al nostro centro galattico, il progetto, guidato dal Chandra X-ray come parte del programma Universe of Learning della Nasa, ha prodotto versioni ‘musicali’ anche dei resti di una supernova, chiamata Cassiopea A, e dei cosiddetti “Pilastri della Creazione”, situati nella Nebulosa dell’Aquila Messier 16.


https://www.globalscience.it/22520/la-melodia-della-via-lattea/?fbclid=IwAR0nJxfyM1B6BN4k058EXkPolBMk7nOr5IB-meieg5MuVJazLc9EQrcc0Xc