mercoledì 19 luglio 2017

Nuove ipotesi sull’ibridazione tra uomo e Neanderthal. - Dario Iori

Nuove ipotesi sull’ibridazione tra uomo e Neanderthal

Risultati di analisi effettuate sul DNA mitocondriale appartenente ad alcune specie di Homo fanno supporre che un gruppo di antenati dell’uomo moderno migrò dall’Africa all’Europa incrociandosi con i Neanderthal molto prima di quanto si supponesse in precedenza, contribuendo a fare luce sui loro complicati rapporti.

Alcuni ominidi, presumibilmente appartenenti alla specie Homo sapiens, circa 270.000 anni fa si spostarono dall’Africa all’Europa e si incrociarono con i Neanderthal. Ad affermarlo sono alcuni scienziati del Max Planck Institute for the Science of Human History di Lipsia e dell’Università di Tübingen (entrambe in Germania), che hanno pubblicato i risultati della loro ricerca su Nature communication. Le loro conclusioni derivano dall’analisi del DNA mitocondriale ottenuto dal femore di un neanderthaliano, rinvenuto nel 1937 all’interno della grotta di Hohlenstein- Stadel (HST) in Germania sud-occidentale. Tali resti, secondo le stime risalgono a 124.000 anni fa, ben prima dell’arrivo precedentemente stimato di Homo sapiens (45.000 anni fa) sul continente europeo.

In passato, alcune indagini bastate sul confronto del DNA nucleare di Homo neanderthaensis e di Homo sapiens avevano portato i ricercatori a stimare che la separazione tra i due avvenne tra i 765.000 e i 550.000 anni fa, e a concludere che i Neanderthal fossero strettamente imparentati con l’uomo di Denisova, specie ancora poco nota, i cui resti furono rinvenuti per la prima volta nel 2008 all’interno della Grotta di Denisova in Siberia (Pikaia ne ha già parlato qui). In questo scenario, i Denisoviani costituirebbero il sister group dei Neanderthal, a seguito della separazione dal gruppo che avrebbe portato all’uomo moderno.

Ma il DNA nucleare non è l’unico portatore di materiale genetico presente all’interno della cellula: tralasciando l’RNA, c’è anche il DNA contenuto nei mitocondri, che viene a ragione definito DNA mitocondriale (mtDNA). Tale componente del patrimonio genetico è di eredità esclusivamente materna e può essere un utile strumento per ricostruire il lignaggio materno e, utilizzando come riferimento il tasso di mutazione ( ovvero il numero medio di mutazioni che avvengono per unità di tempo), stimare il lasso di tempo intercorso dal momento in cui due individui hanno condiviso un progenitore comune.

Ebbene, il mtDNA racconta un’altra storia: gli studi effettuati su di esso indicano infatti che i Neanderthal e l’uomo moderno si separarono all’incirca 400.000 anni fa, molto più recentemente quindi rispetto ai risultati ottenuti dall’analisi del DNA nucleare. Il DNA mitocondriale di Homo neanderthalensis inoltre risulta molto più simile a quello di Homo sapiens che a quello appartenente ai Denisoviani. Come è possibile che le analisi del DNA nucleare e di quello mitocondriale diano risultati così diversi? In un certo momento della storia, i due gruppi devono essere venuti a contatto mescolando i propri corredi genetici. Ciò in realtà è già stato ampiamente dimostrato ed è risaputo che abbiano avuto luogo eventi di ibridazione tra la nostra specie ed i Neanderthal (Pikaia ne ha già parlato qui qui ad esempio). Tale incontro però sarebbe stato di molto antecedente rispetto a quelli già noti agli scienziati.

Per verificare questa ipotesi, i ricercatori del Max Planck Institute,guidati da Johannes Krause, hanno confrontato il mtDNA proveniente dal femore di HST con quello di altri 17 esemplari di Neanderthal più antichi, 3 denisoviani e 54 uomini moderni. I risultati ottenuti mostrano che il DNA mitocondriale proveniente da Hohlenstein- Stadel è decisamente molto diverso rispetto a quello dei primi neandertaliani presenti in Europa 430.000 anni fa.

Gli scienziati hanno dunque ipotizzato che un gruppo di primitivi H. sapiens uscì dall’Africa tra 470.000 e 220.000 anni fa (ben prima quindi di quanto precedentemente ipotizzato), introducendo il proprio DNA mitocondriale nella popolazione europea dei Neanderthal. Il gruppo non doveva essere sufficientemente numeroso per avere un profondo impatto sul DNA nucleare, ma abbastanza ampio per rimpiazzare il DNA mitocondriale dei cugini europei.

I risultati della ricerca non sono definitivi, e sarà necessario analizzare i DNA nucleari e mitocondriali di altri Neanderthal, provenienti da Hohlenstein- Stadel e da altri siti, per avere maggiori informazioni riguardo la storia delle popolazioni neanderthaliane europee. Ciò che è certo però è che la storia del genere umano è una vicenda complessa, fatta di migrazioni, incroci e vicende ancora ampiamente da chiarire.


Riferimento:Cosimo Posth, Christoph Wißing, Keiko Kitagawa, Luca Pagani, Laura van Holstein, Fernando Racimo, Kurt Wehrberger, Nicholas J. Conard, Claus Joachim Kind, Hervé Bocherens, Johannes Krause. Deeply divergent archaic mitochondrial genome provides lower time boundary for African gene flow into NeanderthalsNature Communications, 2017; 8: 16046 DOI:10.1038/NCOMMS16046
Immagine da Wikimedia Commons


http://pikaia.eu/luomo-migro-dallafrica-incrociandosi-con-i-neanderthal-270-000-anni-fa/

martedì 18 luglio 2017

Minuscoli e dall'aspetto alieno, ecco gli 'immortali' della Terra.

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I tardigradi sono l'unica specie che potrà vedere la morte del Sole.

Sono minuscoli e dall'aspetto alieno, gli unici esseri "immortali" della Terra: capaci di resistere a qualsiasi condizione di temperatura e aridita', e perfino al bombardamento dei raggi cosmici, i tardigradi sono la specie che al momento dimostra di avere un livello di resistenza tale da poter sopravvivere ancora per molti anni, tanto da poter assistere alla morte del Sole. E' quanto emerge dalla ricerca condotta dall'universita' britannica di Oxford e da quella americana di Harvard, pubblicata sulla rivista Scientific Reports.

Analizzando le caratteristiche di specie davvero singolare, i ricercatori ritengono che sia in grado di sopravvivere ancora per miliardi di anni, resistendo a qualsiasi catastrofe che potrebbe cancellare gli esseri umani dalla Terra, come l'eventuale impatto sulla Terra di un asteroide, l'esplosione di una supernova o una tempesta di lampi gamma.
I tardigradi sono considerati quindi l'esempio per eccellenza di come la vita possa essere resistente e armarsi di incredibili risorse, sulla Terra come su altri pianeti. Questi minuscoli animali sono infatti capaci di sopravvivere fino a 30 anni senza mangiare e bere e a temperature estreme, fino a 150 gradi, sul fondo degli oceani o nel gelo dello spazio. Ognuno di essi ha una vita media di 60 anni, durante la quale raggiunge la lunghezza massima di 0,5 millimetri.


I tardigradi sono “immortali” perché rubano il Dna a piante, batteri e funghi?


Il 17,5% dei geni dei tardigradi sono costituiti da materiale estraneo incorporato.

I Tardigradi sono animali che prosperano negli ambienti estremi. Conosciuti anche come o anche water bears o moss piglets, questi microscopici invertebrati acquatici sembrano essere immortali: sopravvivono al congelamento, all’ebollizione e addirittura nello spazio esterno. Un tardigrado completamente disseccato può resuscitare anni dopo semplicemente aggiungendo acqua. Questi singolari essi viventi “liofilizzabili” vivono in tutti i continenti, compresa l’Antartide, popolando le e più profonde fosse oceaniche, i deserti più caldi e le cime assiderate dell’Himalaya.
Come se non bastasse, ora gli scienziati hanno scoperto che tardigradi hanno anche un’altra caratteristica eccezionale che li rende unici e che forse spiega parte del segreto della loro immortalità: il loro genoma contiene più DNA estraneo di qualsiasi specie di animali conosciuta. Invece di ereditare tutti i loro geni dai loro antenati, parte del corredo genetico dei  tardigradi proverrebbe da piante,  batteri, funghi e archaeans.
L’eccezionale scoperta è descritta nello studio   “Evidence for extensive horizontal gene transfer from the draft genome of a tardigrade” pubblicato su Pnas da un team delle università della North Carolina e dello Utah e di Cofactor Genomics, che sottolineano: «Nonostante gli scienziati ne siano stati affascinanti da oltre 200 anni, a livello molecolare si conosce poco dei tardigradi, animali microscopici resistenti a sollecitazioni estreme».  Il team statunitense ha analizzato il genoma di un tardigrado ed ha scoperto che « Circa un sesto dei geni nel genoma del tardigrado sono risultati essere acquisiti attraverso trasferimento orizzontale, una proporzione quasi il doppio della percentuale di precedenti casi conosciuti di extreme horizontal gene transfer (HGT) negli animali. I geni estranei hanno avuto un impatto nella composizione del genoma dei tardigradi: integrando, espandendo e sostituendo famiglie di geni endogeni, tra cui le famiglie coinvolte nella tolleranza agli stress».
I ricercatori evidenziano che questi risultati «ampliano le recenti scoperte sul fatto che l’HGT è più frequente negli animali di quanto precedentemente sospettato  e suggeriscono che gli organismi che sopravvivono a sollecitazioni estreme potrebbero essere predisposti all’acquisizione di geni estranei».
Il leader del team di rcerca, Thomas Boothby, del dipartimento di biologia dell’università della North Carolina – Chapel Hill, spiega che «Quando la maggior parte della gente pensa alla diversità della vita e al  flusso delle informazioni genetiche, si immagina un albero con grossi rami che generano quelli più piccoli, ma senza alcuna connessione tra le articolazioni. Stiamo cominciando a renderci conto che, invece che all’albero della vita, potrebbe essere più opportuno pensare alla rete della vita».”
Il team di Boothby studiava il genoma del tardigrado nella speranza di scoprire le basi delle strategie di sopravvivenza estreme di queste creature. Per catalogare ogni gene il team statunitense ha prima estratto e poi sequenziato pezzi di DNA di migliaia di tardigradi, poi, utilizzando un programma al computer, ha ricucito le sequenze di nuovo insieme per produrre l’intero codice genetico del tardigrado.
«Quando ci siamo riusciti – spiega ancora Boothby – abbiamo visto subito che c’erano un sacco di geni che sembrava che non provenissero dagli animali. La nostra reazione istintiva è stata quella che avessimo incasinato qualcosa e che potessino aver contaminato il nostro campione».
Allora il team ha utilizzato la reazione a catena della polimerasi, un metodo che ingrandisce le regioni target del materiale genetico solo se corrispondono a specifici primers, per vedere se potevano amplificare geni animali e batterici come singole unità, cosa possibile solo se fossero fisicamente collegati all’interno dello stesso genoma. «Lo abbiamo fatto per oltre 100 geni, con il 98% di successo», dice Boothby.
Quindi la lettura del genoma era corretta e il team ha quindi ricostruito l’ascendenza evolutiva delle specifiche sequenze geniche. Questo ha confermato che quelli che sembrava geni estranei in realtà erano geni sviluppati da tardigradi stessi. Boothby aggiunge: «I risultati ci hanno detto abbastanza inequivocabilmente che i geni che sembrano stranieri, in realtà provengono da non-animali».
In tutto, il 17,5% dei geni dei tardigradi è costituito da materiale estraneo. La maggior parte di questi strani  geni hanno origini batteriche: migliaia di specie sono rappresentate all’interno del corredo genetico del tardigrado. Molti di questi geni sono noti per svolgere un ruolo nella tolleranza allo stress nei loro proprietari originali.
Ang drew Roger, un biologo canadese della Dalhousie University  che non ha partecipato allo studio, ha detto: «Penso che i risultati siano estremamente sorprendenti. Che un animale possa acquisire una così gran parte dei suoi geni da fonti esterne è sorprendente e senza precedenti».
In alcuni casi, i geni estranei hanno effettivamente sostituito quelli dei tardigradi, mentre in altri i tardigradi hanno mantenuto le loro versioni ma hanno incorporato copie singole o multiple da una o più specie batteriche. «Ipotizziamo che questo non sia stato un evento unico, ma probabilmente sia ancora in corso e può ancora accadere anche oggi», evidenzia Boothby.
Rispetto al tardigradi, i genomi di altri animali, compreso quello dell’uomo, contengono pochissimo materiale estraneo. Fino ad ora, i rotiferi, altri microscopici animali acquatici, detenevano il record con l’8 – 9%. Per tardigradi e rotiferi, la forte dose di geni estranei probabilmente svolge un ruolo significativo nel conferire loro capacità di sopravvivenza superiori: «Se possono acquisire il DNA da organismi che già vivono in ambienti stressanti, possono essere in grado di impossessarsi di alcuni degli stessi trucchi», aggiunge Boothby. Ma come i  tardigradi siano riusciti a mettere insieme tanto materiale genetico estraneo rimane un mistero.
Boothby e i suoi colleghi sospettano che la capacità dei tardgradi di disseccarsi completamente e poi resuscitare potrebbe spiegare molte cose: Quando i tardigradi essiccano, i loro genomi si frammentano, quando arriva l’acqua a farli rinascere, e membrane che circondano le cellule rimangono permebili per un po’ e, mentre le cellule lavorano febbrilmente a riparare il loro genoma “liofilizzato”, possono accidentalmente assumere altro DNA dall’ambiente.
Roberto Bertolani, uno zoologo evoluzionista dell’università di Modena e Reggio Emilia, considerato uno dei maggiori esperti di tardigradi del mondo, ha detto: «Questo documento conferma l’importanza dello studio di tutto il genoma, qui applicato ad un modello animale insolito, ma molto interessante e spesso trascurato. Un punto interessante che gli autori sottolineano è la possibile relazione tra l’essiccazione, la permeabilità della  membrana e le rotture del DNA che possono predisporre questi animali ad incorporare e integrare molti geni estranei».
Per ora si tratta solo di un’ipotesi e ì Boothby prevede di continuare le ricerche per rispondere a questa e ad altre domande. Il suo lavoro con queste eccezionali creature potrebbe persino portare a far vive re meglio gli esseri umani: studiare i geni dei tardigradi potrebbe aiutare a sviluppare farmaci e vaccini che non devono più essere mantenuti al freddo ma essere liofilizzati e “resuscitati” sul posto, in un dispensario medico rurale o zona di crisi.

domenica 16 luglio 2017

Sanità: corruzione dilaga in paesi Ue, in Italia 6 mld in fumo.

Risultati immagini per sanità corrotta
Rooma, 16 giu. (AdnKronos Salute) - Tra frodi, sprechi e abusi nell’assistenza sanitaria, l’Italia manda in fumo 6 miliardi di euro di denaro pubblico. Ma dal confronto con gli altri Paesi europei la corruzione in sanità sembra dilagare in quasi tutto il continente. I tipi di frode più diffusi sono soprattutto la non conformità alle regole di fatturazione e, più in particolare, la fatturazione di servizi sanitari male o mai erogati. Per una lotta comune e coordinata a difesa del 'sistema sanitario europeo', oggi, per la prima volta in Italia 50 delegati di 14 Paesi Ue si sono riuniti in un summit internazionale organizzato da Ehfcn (European Healthcare Fraud & Cirruption Network) a Roma.
Secondo i Rapporti nazionali di 9 Paesi Ue (Italia, Belgio, Francia, Regno Unito, Polonia, Portogallo, Paesi Bassi, Lituania e Slovenia) su corruzione e sanità, raccolti nel volume 'Healthcare Fraud, Corruption and Waste in Europe', si tratta di un male comune. Solo nel Regno Unito 4.819 episodi di frodi sono state registrate a danno del sistema sanitario nel biennio 2014-2015. In Francia l’attività anticorruzione di Stato dell’Assurance Maladie ha recuperato 220 milioni di euro nel 2016 e nell’anno precedente circa 231,5 milioni. In Belgio l’autorità di ispezione sanitaria governativa, il Meid, ha individuato 1.225.585 infrazioni nel 2015.
"I dati pubblicati dai Paesi sono difficili da confrontare a causa dei differenti metodi di valutazione vigenti - spiega Renè Jansen, presidente Ehfcn - Per uniformare i criteri di analisi e controllo della corruzione a livello europeo, Ehfcn ha messo a punto la 'matrice di tipologia degli sprechi', un importante strumento di analisi per la segnalazione della frode sanitaria, che consente standard uniformi e di cui auspichiamo la diffusione nei Paesi del Network europeo". Tra le frodi più diffuse il ricarico per cure eccessivamente costose.
La relazione britannica menziona gli errori causati da dichiarazioni come i 'pagamenti impropri' (34 casi), mentre in Polonia i costi di degenza ospedaliera sono rimborsati e ciò porta a 'nascondere' un paziente (dentro l'ospedale). Il ricarico per servizi non erogati In Italia (nello specifico nel privato) si manifesta con la falsificazione dei documenti. In altri Paesi con la prescrizione di farmaci non assegnati (nel Regno Unito segnalati 114 casi di multi-registrazione di medicinali). In Portogallo la prescrizione di trattamenti e medicinali complementari ammonta al 36% delle infrazioni.
L'Italia spicca poi nella fornitura di servizi inutili: relativamente alti sono i parti cesarei in alcune regioni (il 50% delle nascite contro la media Oms del 15%).
"Tra sprechi, inefficienze e corruzione i sistemi sanitari perdono un quinto delle risorse. Ma mentre nella maggior parte dei Paesi si registra la diffusione di frodi, in Italia il fenomeno corruttivo ha assunto ormai una dimensione strutturale - afferma Francesco Macchia, presidente di Ispe Sanità - Questo per la differente natura dei servizi, finanziati in prevalenza dalla fiscalità generale nel Sud Europa e su base assicurativa al Nord. Per cui in molti Paesi nordeuropei sono sotto osservazione le irregolarità contabili, mentre al Sud prevalgono corruzione e favoreggiamento. Servono strategie generali per difendere il sistema sanitario europeo che rappresenta il 9% del Pil dei Paesi europei".
Il Belgio ha svolto 886 indagini individuali nel 2015. I rimborsi finanziari vanno da 11,5 milioni del Belgio a 231 milioni della Francia nel 2015, a 449 milioni nel 2014 nei Paesi Bassi. In Polonia sono state imposte sanzioni per 217 mila euro. La Francia ha avviato circa 6.500 azioni legali nel 2015, mentre il Portogallo ha effettuato 92 procedimenti disciplinari. La Polonia ha ricevuto 158 notifiche riguardanti crimini sospetti.
Tra gli elementi critici comuni ai Paesi riuniti da Ehfcn nella lotta alla corruzione e alle frodi in sanità, in primo luogo emerge la mancanza di una cultura antifrode e anticorruzione efficace, seguita da complessità e incertezza delle normative, mancanza di finanziamenti strutturali e risorse umane e dispersione dei compiti tra gli stakeholder. Dunque, per migliorare la lotta comune su questo fronte servono una più ampia collaborazione internazionale (scambio di informazioni, metodi e best practice da condividere), professionalizzazione dei principali stakeholder, sviluppo della sanità digitale e attuazione di piani nazionali anticorruzione.

Irma.


Ora capisco il suo sguardo perso nel vuoto, il suo sgomento, quando era assorta nei suoi pensieri.
Non aveva avuto un'infanzia felice. Anche lei aveva perso la madre quando era piccola e quel lieve difetto alla gamba, dovuto alla poliomielite e che la costringeva a claudicare, anche se quasi impercettibilmente, ma visibile ad un occhio attento, aveva acuito il suo malessere interiore.
In compenso era molto carina e curava molto il suo aspetto.
Aveva modi gentili, sapeva cucinare pietanze gustosissime; aveva origini calabresi, pertanto, la tradizione nell'arte culinaria era radicata in lei; infine, l'altra sua caretteristica era il culto maniacale della pulizia, era un'igienista pura.

Difettava in effusioni però, forse perchè non era stata abituata a questo tipo di manifestazioni dall'ambiente circostante, pare che la sua matrigna non fosse molto disposta nei suoi confronti.

Aveva avuto due gravidanze, la prima sfumata al nono mese con un parto lungo due giorni ed il bimbo morto per asfissia - con lui mio padre perse la speranza di avere un figlio maschio.
La seconda andò meglio, partorì una bimba bellissima che divenne la luce degli occhi miei e di mia sorella oltre che della mamma e del papà.

Ora capisco e faccio ammenda: avrei dovuto prestarle più attenzione, ma non ero abbastanza matura, avevo ancora poca esperienza e anche io avevo subito i miei drammi infantili 

Un dolce pensiero mi pervade, ricordandoti, spero che l'energia del mio pensiero ti raggiunga e ti trasmetta quel benessere che ti è mancato in vita.


giovedì 13 luglio 2017

Ocse: pubblica amministrazione «anziana» e dirigenti strapagati. - Giuliana Licini



Non solo debito record, ma anche dipendenti attempati, dirigenti strapagati e una diffusa insoddisfazione dei cittadini. Nel rapporto «Government at a Glance», l'Ocse mette sotto la lente l'amministrazione pubblica dei Paesi membri e lo «sguardo» spesso si posa inclemente sugli squilibri italiani, noti e meno noti. Non mancano, d'altro canto, i progressi e le aree di distinzione. L'Italia, ad esempio, è seconda solo alla Germania nell'Ocse per indipendenza delle autorità di regolamentazione dei principali settori di rete. Sui conti pubblici - rileva lo studio - il deficit dell'Italia è migliorato, passando dal 5,3% del 2009 al 2,7% nel 2015, migliore del 2,8% medio Ocse, ma a causa della duplice recessione il debito resta molto elevato, avendo raggiunto nel 2015 il 157,5% del Pil - in base alle definizioni Ocse - contro una media del 112% ed è il terzo peggiore dell'area, dopo Giappone e Grecia. Il pagamento degli interessi sul debito è stato pari al 4% del Pil nel 2015, inferiore solo al 4,2% portoghese.
L'Ocse riconosce, peraltro, che l'Italia per contenere la spesa ha messo in atto nel 2008-2016 ben sei spending reviews, che hanno aiutato il Governo a navigare attraverso la stretta ai conti pubblici. La spesa pubblica nel 2015 è stata pari al 50,5% del Pil contro il 40,9% Ocse ed è stata assorbita per il 42,6% dalla protezione sociale contro il 32,6% medio Ocse. Ai servizi pubblici generali è andato il 16,6% contro il 13,2% Ocse, mentre all'istruzione è stato destinato il 7,9% sotto la media Ocse che è del 12,6% e alla sanità il 14,1% contro il 18,7%. Nel welfare il 64,3% della spesa va alle pensioni contro il 53,5% Ocse. Agli investimenti pubblici è andato solo il 2,1% del Pil nel 2016, in calo dal 2,3% del 2015, contro una media Ocse del 3,2%. L'Italia resta in ritardo sulla spesa tramite appalti pubblici, che riguarda solo il 20,5% del totale della spesa contro il 29% Ocse. Le entrate pubbliche sono salite al 47,1% del Pil nel 2016 dal 45,2% del 2007 e per il 63% derivano dalla tassazione (media Ocse 59% nel 2015). Passando alla forza lavoro pubblica, il rapporto sottolinea che l'Italia ha la più alta quota tra i Paesi industrializzati di dipendenti statali ultra-55enni, con il 45% contro il 24% medio e la minore proporzione (2%) di giovani tra i 18-34 anni che lavorano per il Governo centrale. Questo - sottolinea il rapporto - richiede è un'attenta pianificazione della forza lavoro in modo da assicurare che il pensionamento massiccio dei dipendenti non porti a una perdita di memoria istituzionale e non incida sulla qualità dei servizi pubblici.

I dipendenti pubblici, per altro, sono il 13,6% dell'occupazione totale in Italia, contro il 18% medio Ocse. I livelli di retribuzione sono più elevati rispetto alla media soprattutto nelle posizioni più elevate: i senior manager tricolori, cioè i più alti dirigenti della Pa, nel 2015 avevano un compenso annuo lordo di 395.400 dollari, il più alto dell'Ocse dopo l'Australia, a fronte di una media di 231.500 dollari. Anche per le mansioni di segreteria la P.a italiana è più generosa della media Ocse, mentre lesina sui compensi dei professionisti, cioè i dipendenti pubblici con competenze tecniche specifiche (67.900 dollari contro 88.700). Quasi biblici rispetto ai parametri internazionali i tempi della giustizia: oltre 2 anni e mezzo per le cause amministrative (solo in Grecia sono più lunghi) contro i 4 mesi della Svezia. 

Da ultimo, il grado di soddisfazione dei cittadini nei confronti dei servizi pubblici: anche in questo caso l'Italia si ritrova in coda. Nel 2016 solo il 49% degli interpellati nei sondaggi si dichiarava soddisfatto dei servizi sanitari. Il dato, che relega l'Italia al sestultimo posto nell'Ocse, è in calo dal 56% del 2007 e si confronta con il 70% medio Ocse. Tra scuole senza materiale didattico (secondo peggior caso dell'Ocse), test di apprendimento deludenti, istituti poco accoglienti e insegnanti poco collaborativi secondo gli studenti (e in coda per salario secondo il confronto internazionale), la Penisola è quintultima per soddisfazione nel sistema scolastico con il 55% contro il 67% Ocse

Penultimo posto, poi, per la fiducia nel sistema giudiziario, apprezzato solo dal 24% dei cittadini contro il 55% Ocse. Nel complesso, la fiducia nel governo nazionale, già scarsa nel 2007 (30%), nel 2015 è scesa al 24%. E' più bassa solo in Cile e in Grecia.

rapporto «Government at a Glance»

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-07-13/ocse-pubblica-amministrazione-anziana-e-dirigenti-strapagati--102934.shtml?uuid=AEK1KiwB

Riforma Madia, rivoluzione mancata. Su partecipate, dirigenti intoccabili, licenziamenti e meritocrazia tante occasioni perse. - Chiara Brusini

Riforma Madia, rivoluzione mancata. Su partecipate, dirigenti intoccabili, licenziamenti e meritocrazia tante occasioni perse

E' il settimo intervento "rivoluzionario" di riordino della pubblica amministrazione nell'arco di 24 anni. E doveva essere un fiore all'occhiello del governo Renzi. Ma i furbetti del cartellino erano licenziabili anche prima, i sistemi di valutazione dei risultati rimangono discrezionali, il ruolo unico per la dirigenza è saltato e la sforbiciata alle aziende pubbliche è depotenziata. L'economista: "Sullo sfondo resta una logica di forte influenza della politica".

I furbetti del cartellino potranno essere licenziati, certo. Come prevede fin dal 2009 la riforma Brunetta nei casi di “falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza”. Le partecipate dello Stato invece resteranno migliaia, perché la stretta annunciata da Matteo Renzi all’arrivo a Palazzo Chigi si è concretizzata in paletti larghissimi con numerose deroghe. E i 36mila dirigenti pubblici non saranno affatto costretti a cambiare poltrona ogni 4 anni in modo da “scardinare il meccanismo” per cui “troppe persone per troppo tempo gestiscono un potere“, come aveva promesso Marianna Madia: il decreto sul ruolo unico è saltato. A quasi due anni dal varo del disegno di legge sulla riforma della pubblica amministrazione, la ministra ha dichiarato chiuso il cantiere di quello che doveva essere uno dei fiori all’occhiello del governo del leader Pd, “la riforma da cui dipendono le altre”. Ma, al netto del fatto che in realtà manca ancora all’appello il decreto correttivo sui dirigenti sanitari, l’obiettivo di rivoltare come un calzino la macchina della burocrazia per “avere servizi di maggiore qualità e fare pagare meno tasse ai cittadini” dovrà attendere ancora.
La settima “rivoluzione” in 24 anni – Quello firmato dalla Madia, rimasta alla guida del ministero nonostante lo scandalo della tesi di dottorato plagiata, è il settimo intervento di riordino della pa annunciato come rivoluzionario nell’arco degli ultimi 24 anni. Questo se non si vogliono contare pure le (anch’esse rivoluzionarie) norme sulla mobilità degli statali volute nel 1988 dall’allora ministro della Funzione pubblica Paolo Cirino Pomicino. Ma secondo Veronica De Romanis, per 12 anni membro del Consiglio degli esperti del Tesoro, oggi docente di Politica economica europea nella sede fiorentina della Stanford University e alla Luiss, l’esito anche in questo caso lascia a desiderare. “Renzi ha puntato molto sugli slogan, a partire dalla battaglia contro i furbetti del cartellino”, sintetizza. “Ma, piuttosto che iniziare dalle sanzioni contro quelli che non lavorano, meglio sarebbe stato concentrarsi su chi è preposto a verificare il loro lavoro, per migliorare l’efficienza dei servizi per i cittadini. Inoltre nella riforma non sono stati fissati obiettivi quantitativi. La Madia ha addirittura rivendicato di non sapere quanti risparmi avrebbe portato la riforma e di essere contenta di non saperlo, perché secondo lei la spending review è “un risultato, non un punto di partenza”. Invece la programmazione è fondamentale”. Sullo sfondo, poi, “resta immutata la logica di grande influenza della politica sulla pubblica amministrazione”. Cosa che con l’efficienza tende a fare a pugni. Ma, in attesa di vedere come funzionerà in concreto, sono almeno cinque – dai licenziamenti al “disboscamento” delle partecipate – i punti rispetto ai quali la riforma già sulla carta non mantiene le promesse. 
Sui licenziamenti nulla di nuovo rispetto alla riforma Brunetta.
Lotta ai furbetti e licenziamenti rapidi sono stati tra gli aspetti della riforma più decantati da Renzi. Ma secondo Luigi Oliveri, dirigente della provincia di Verona e collaboratore de lavoce.info su questi temi, l’attuazione è all’acqua di rose. “Per cambiare davvero qualcosa servirebbero regole operative: quali sono concretamente i parametri in base ai quali gli statali vanno valutati? Con quali tecnologie si può combattere in modo efficace l’assenteismo? Invece ci si limita a intervenire su aspetti formali. Così gli obiettivi restano fumosi, non ci sono standard oggettivi”. E i “licenziamenti in 48 ore” dei furbetti del cartellino? “Il termine di 48 ore vale solo per la sospensione di chi viene colto in flagranza. Per i licenziamenti cambia in realtà pochissimo rispetto alle norme scritte da Brunetta: non a caso il Comune di Sanremo l’anno scorso ha licenziato 32 assenteisti (tra cui il famigerato vigile che timbrava il cartellino in mutande, ndr) appellandosi alla vecchia legge. Sul fronte dei provvedimenti minori, come il rimprovero scritto o la multa pari a 4 ore di retribuzione, c’è invece un paradosso: nell’ultima versione del decreto Madia il tempo massimo per concludere l’azione disciplinare è fissato in 120 giorni, il doppio rispetto a quanto era previsto finora”. Per quanto riguarda i licenziamenti dopo tre “pagelle” negative di fila, celebrati come il trionfo della meritocrazia, il decreto Brunetta già sanciva che gli statali fossero lasciati a casa a fronte di “una valutazione di insufficiente rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa” nell’arco di almeno un biennio.
Obiettivi fumosi e organismi di valutazione nominati dalla politica.
Il vero nodo, però, sta proprio nelle valutazioni: il decreto attuativo “non entra nel dettaglio, lascia all’autonomia delle singole amministrazioni il compito di definirsi il sistema valutativo”, sottolinea Marta Barbieri, docente di Public management and policy alla Scuola di direzione aziendale (Sda) della Bocconi. “Bene sottolineare la rilevanza della performance organizzativa, oltre che di quella individuale, però resta il dubbio su cosa si intenda con questo. Per valutare positivamente le politiche per il lavoro, per esempio, basterà verificare di aver svolto le attività previste o si dovrà guardare come è variato il tasso di occupazione?”. E tener conto dei giudizi di soggetti terzi rimane solo un consiglio. Per quanto riguarda la performance individuale, negli altri Paesi funziona diversamente: “Il numero di obiettivi, le scale di valutazione relative e l’individuazione di pesi variano, ma sono in generale disciplinati nel dettaglio“, si legge nel white paper sui Sistemi di selezione e valutazione dei dirigenti pubblici in Europa, pubblicato lo scorso anno in una collana della Sda Bocconi. In Irlanda, Lettonia, Polonia, Portogallo e Regno Unito, in particolare, ci sono schede di valutazione standard in cui indicare obiettivi, indicatori e risultati conseguiti e comportamenti. “Da noi invece”, spiega Barbieri, “a validare le relazioni sulle performance sono gli Organismi indipendenti di valutazione“. Che però sono nominati, previa selezione pubblica, dalla politica. E che ad oggi non validano ex ante i piani della performance. Inoltre le richieste all’ente che affiancano nel monitoraggio – per esempio sostituire un indicatore troppo generico con uno oggettivo – sono “non vincolanti“. La Madia in compenso ha affidato agli Oiv anche il compito di stabilire come il giudizio dei cittadini sui servizi pubblici, espresso attraverso “sistemi di rilevamento della soddisfazione”, contribuirà alla valutazione.
Ai premi di risultato vanno le briciole: "500-600 euro all'anno".
L’altra faccia del cambiamento all’insegna della meritocrazia avrebbero dovuto essere i premi alla produttività differenziati e non a pioggia. Ma la distribuzione dei premi dipende dalle valutazioni troppo discrezionali di cui sopra. In più, se il principio di base è giusto, le cifre in ballo sono davvero piccole. “Ci sono eccezioni, ma in media parliamo di 500-600 euro l’anno“, quantifica Barbieri. “Per i dipendenti degli enti locali la parte accessoria del salario può arrivare a 4mila euro annui su un totale di 29mila”, aggiunge Oliveri. “Ma attenzione, nella parte accessoria sono compresi anche straordinari e indennità per i turni e le reperibilità”. E l’ultimo decreto Madia si limita a stabilire che a premiare la performance vada la “quota prevalente” di questa fetta, esattamente come prevedeva il decreto Brunetta. La vera differenza rispetto alla norma del 2009 è che viene meno l’obbligo di dividere i dipendenti di ogni amministrazione statale in tre fasce di merito azzerando del tutto i premi per quelli che finiscono nella più bassa. Ma quel che più ha fatto storcere il naso ai giuristi è che la riforma del pubblico impiego, oltre a sancire che per gli statali continuano a valere le tutele dell’articolo 18, dice esplicitamente che la contrattazione nazionale potrà derogare alle disposizioni di legge, regolamento o statuto sul lavoro nella pa. E sempre alle complicate intese tra Stato (attraverso l’agenzia Aran) e sindacati, che nei prossimi mesi dovranno trovare la quadra sul rinnovo dei contratti congelati dal 2010, è demandato il capitolo delle progressioni economiche.
Non passa la riforma della dirigenza: addio ruolo unico.
Sui dirigenti statali, i veri inamovibili della Repubblica, è andata anche peggio. Una débâcle totale. “C’era nell’amministrazione pubblica una perversione che arrivava a costruire degli intoccabili che crescevano sempre di più. C’era chi diceva che erano intoccabili perché senza di loro crollava il ministero. Ma nessuno deve essere insostituibile”, ragionava la Madia nel settembre 2015, annunciando l’arrivo di un decreto attuativo che avrebbe scardinato il sistema attraverso il ruolo unico e il licenziamento per i grand commispubblici che, persa una poltrona, rimanessero per diversi anni senza incarico. Nell’agosto 2016, dopo un rinvio dovuto alle resistenze dei boiardi di Stato e a pochi giorni dalla scadenza della delega, il testo è arrivato. Ma a novembre la Consulta ha bocciato il provvedimento, insieme ad altri tre, perché varato con il solo “parere“della Conferenza Stato-Regioni invece della necessaria intesa. A quel punto la delega era scaduta e addio decreto (peraltro già demolito dal Consiglio di Stato che aveva rilevato l’assenza di nuovi sistemi di valutazione). Tripudio del sindacato dei dirigenti pubblici, che avevano gridato allo scandalo sostenendo che l’intenzione del governo era evidentemente quella di “distruggere i servitori dello Stato nonché “annichilireasserviresottomettere la dirigenza pubblica”. “E’ stato un vero un peccato”, è invece il giudizio di Marta Barbieri. “Potenziare la classe dirigente pubblica è un obiettivo in cui hanno investito tutti i Paesi Ocse”. Oliveri fa però notare che il decreto era a rischio incostituzionalità, perché di fatto avrebbe trasformato dirigenti a tempo indeterminato in “lavoratori a chiamata”. Quanto alla licenziabilità, sulla carta c’è: la riforma del 2009 la prevede come extrema ratio nei casi di “mancato raggiungimento degli obiettivi” o “inosservanza delle direttive”.
La sforbiciata alle partecipate pubbliche? "Misure irrilevanti o dannose".
“Non un euro delle risorse pubbliche, delle tasse pagate dai cittadini, deve andare sprecato. Per questo aggrediamo gli enti inutili e resteranno solo le partecipate pubbliche che servono, mentre saranno eliminate quelle che sono state utilizzate come un ammortizzatore sociale e non per dare risposte ai cittadini”. Parola di Marianna Madia, il 3 agosto 2015. Quello sulle partecipate è stato l’ultimo decreto attuativo della riforma approvato in consiglio dei ministri, nella versione corretta dopo la bocciatura della Corte costituzionale. Una versione talmente piena di cavilli e scappatoie che Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review autore nel 2014 di un dettagliato piano di riforma delle aziende pubbliche, fino al prossimo autunno direttore esecutivo per l’Italia al Fondo monetario internazionale, opta per un “no comment”. A depotenziare la norma, peraltro, sono non tanto le deroghe – non solo il presidente del Consiglio ma pure tutti i governatori regionali potranno decidere a piacimento quali società “salvare” dalla stretta – quanto i parametri stessi con cui selezionare le partecipate da chiudere. Roberto Perotti, ex consigliere economico del governo Renzi per la revisione della spesa, ha scritto su Repubblica che “una riforma efficace dovrebbe intervenire con il machete basandosi su tre semplici principi: un limite alle attività gestibili in forma societaria”, per esempio non c’è bisogno di una società di servizi cimiteriali perché può occuparsene direttamente l’ente locale, “un limite inderogabile al numero e alle dimensioni delle partecipate a seconda degli enti locali (…) e cinque fasce di retribuzione di dirigenti e amministratori, basate su criteri dimensionali”.
Invece “la riforma approvata dal governo adotta solo il terzo principio; per il resto prende una strada completamente diversa, adottando misure irrilevanti o addirittura dannose, oltreché quasi tutte già presenti nell’ordinamento”. Sull’amministratore unico, che nella prima versione era un obbligo, deciderà l’assemblea dei soci, che “con delibera motivata” potrà optare per un consiglio formato da 3 o 5 membri. Anche se la società è piccolissima. Dovranno poi essere chiuse le aziende con più amministratori che dipendenti, ma la soglia minima di fatturato necessaria per scampare alla tagliola è stata dimezzata, da 1 milione a 500mila euro, fino al 2020. E ancora: vanno chiuse le partecipate che hanno chiuso in rosso quattro degli ultimi cinque bilanci, ma sono escluse le società che gestiscono case da gioco. I casinò di Saint Vincent, Campione d’Italia, Sanremo e Venezia sono salvi. E le cinque fasce in cui andranno graduati i compensi, principio chiave secondo Perotti? Non pervenute. Bisogna aspettare ottobre.