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mercoledì 27 novembre 2024

Omochiralità.

 

Con il termine omochiralità ci si riferisce, in chimica, a un gruppo di molecole non necessariamente uguali, ma con la stessa configurazione assoluta (R o S). In biologia alcune molecole costituenti gli esseri viventi sono omochirali. Praticamente tutti gli amminoacidi hanno configurazione L e tutti i carboidrati biologicamente rilevanti hanno configurazioni D.

L'origine dell'omogeneità chirale in natura non è ancora chiara come non è ancora chiaro se la vita avrebbe potuto evolversi nello stesso modo qualora al posto degli stereoisomeri presenti ci fossero state le loro immagini speculari, ad esempio se tutti gli amminoacidi fossero stati D e non L. In ogni caso, le strutture tridimensionali di macromolecole complesse, come le proteine, non potrebbero formarsi partendo dal racemo e non dagli amminoacidi otticamente puri. È stato dimostrato sperimentalmente che gli amminoacidi riescono a formare meglio aggregati partendo da substrati enantiopuri piuttosto che partendo da racemi.

Si pensa che l'origine dell'omochiralità sia avvenuta in tre passaggi sequenziali: una rottura della simmetria, che crea un piccolo eccesso enantiomerico, una amplificazione, in cui si ha un arricchimento di molecole di una data configurazione, e una trasmissione, in cui l'eccesso enantiomerico interagendo con altre molecole genera stereoselettivamente altre molecole chirali.

https://it.wikipedia.org/wiki/Omochiralit%C3%A0

domenica 17 marzo 2024

Origini della vita: risolto il mistero? Di retemedia

Gli scienziati dell'Università di Hiroshima in Giappone ritengono di aver risolto uno dei misteri più duraturi della scienza, ovvero come la vita sia scaturita dalla materia non vivente nel primo ciclo di sviluppo della Terra.

Gli scienziati dell’Università di Hiroshima in Giappone ritengono di aver risolto uno dei misteri più duraturi della scienza: come le origini della vita siano scaturite dalla materia non vivente nel primo ciclo di sviluppo della Terra, ha spiegato un rapporto del New Atlas.

Origini della vita: create protocellule autoreplicanti in laboratorio.

Nello studio sulle origini della vita pubblicato sulla rivista Nature Communications, i ricercatori hanno spiegato in dettaglio come hanno creato protocellule autoreplicanti in laboratorio. Gli esperti hanno ritenuto che queste abbiano dato peso all’ipotesi dell’evoluzione chimica, che è  stata una proposta lanciata per la prima volta negli anni ’20 .

 “Le origini della vita hanno avuto inizio con la formazione di macromolecole da piccole semplici molecole, e quelle macromolecole hanno formato assemblaggi molecolari che potrebbero proliferare”, ha spiegato Muneyuki Matsuo, primo autore dello studio, in un comunicato stampa.

I ricercatori di Hiroshima si sono proposti specificamente di indagare sull’origine degli assemblaggi molecolari che proliferano da piccole molecole, poiché questi sono rimasti un mistero sin da quando è stato ipotizzato per la prima volta lo scenario dell‘evoluzione chimica. Nel comunicato stampa dell’Università di Hiroshima, Matsuo li ha definiti: “L’anello mancante tra chimica e biologia nell’origine della vita“.

L’ascendenza comune dell’umanità risale alle sue origini molecolari.

Per il loro studio, i ricercatori hanno mirato a ricreare queste protocelle proliferanti in laboratorio. In primo luogo, hanno creato una nuova piccola molecola a partire da derivati ​​di amminoacidi che si sarebbero autoassemblati in cellule primitive. Dopodiché è stata aggiunta in acqua a temperatura ambiente a pressione atmosferica.

I ricercatori hanno scoperto che le molecole erano disposte in peptidi in cui successivamente si sono formate spontaneamente goccioline. Aggiungendo più aminoacidi, gli scienziati hanno osservato che queste goccioline crescevano di dimensioni e poi si dividevano: un processo paragonabile all’autoriproduzione delle cellule biologiche.

“Costruendo goccioline di peptidi che proliferano nutrendosi di nuovi derivati ​​di amminoacidi, abbiamo chiarito sperimentalmente il mistero di lunga data di come gli antenati prebiotici fossero in grado di proliferare e sopravvivere concentrando selettivamente sostanze chimiche prebiotiche”, ha aggiunto Matsuo, riguardo lo studio sulle origini della vita.

“I nostri risultati hanno indicato che le goccioline sono diventate aggregati molecolari evolutivi, uno dei quali è diventato il nostro antenato comuneInoltre, durante l’esperimento, alcune delle goccioline hanno anche concentrato acidi nucleici, che trasportano informazioni genetiche”, ha specificato l’esperto.

Sebbene i risultati non abbiano chiarito in modo definitivo come sono sviluppate le origini della vita sulla Terra primordiale,  hanno dato una certa rilevanza all’ipotesi dell’evoluzione chimica e hanno indicato ulteriori strade di ricerca per la comunità scientifica. Gli scienziati hanno anche testato l’ipotesi dell’RNA, che afferma che le molecole di RNA sono state le prime molecole autoreplicanti che hanno portato alla vita sulla Terra.

La teoria  della replicazione dell”RNA è stata verificata di recente, sempre in laboratorio, Gerald Joyce, presidente di Salk e uno degli autori del nuovo studio, ha dichiarato:“Questa è la strada che spiega come la vita possa nascere in un laboratorio o, in linea di principio, in qualsiasi parte dell’Universo”.

Origini della vita: sono necessari altri studi.

Altre vie di ricerca, nel frattempo, hanno suggerito che gli asteroidi potrebbero aver portato i componenti necessari per la vita sulla Terra: i ricercatori del Southwest Research Institute con sede negli Stati Uniti hanno affermato che le loro scoperte hanno indicato che asteroidi delle dimensioni di una città hanno colpito la Terra molto più frequentemente di quanto pensato in precedenza, dando peso a quella particolare ipotesi.

Successivamente, i ricercatori di Hiroshima punteranno a continuare le loro indagini sugli amminoacidi per acquisire maggiori conoscenze su come le origini della vita abbiano potuto esordire nel nostro pianeta natale.

(Foto Pixabay)

https://reccom.org/origini-della-vita-risolto-il-mistero/

lunedì 27 luglio 2020

Neanderthal sentivano dolore più facilmente a causa di variazione genetica.


Credito: sgrunden, Pixabay, 4731920

Secondo un nuovo studio condotto da ricercatori della società Max Planck, i Neanderthal erano caratterizzati da una soglia più bassa del controllo della percezione del dolore.
I ricercatori sono giunti a questa conclusione esaminando un gene portatore di questa caratteristica e hanno dimostrato che essa è presente anche in alcuni esseri umani provenienti soprattutto da aree quali quelle dell’America centrale e meridionale così come in alcune aree dell’Europa.
Questi esseri umani hanno ereditato questa variante genetica che codifica un particolare canale ionico il quale è responsabile della sensazione del dolore.
Per scoprire queste particolari caratteristiche del gene in questione i ricercatori hanno utilizzato i dati di un grande studio contenente le caratteristiche genetiche di molte persone provenienti dal Regno Unito scoprendo che quelle persone che possedevano questa particolare variante erano più soggette a sentire il dolore e la sensazione del dolore partiva più presto rispetto a chi non possedeva questa variante.
Come spiega Hugo Zeberg, scienziato dell’istituto Max Planck per l’antropologia evoluzionistica e del Karolinska Institutet, autore principale dello studio, questo particolare variante del canale ionico semplicemente ” ti fa provare più dolore”, come se tu fossi un bambino di otto anni.
Questo non vuol dire che i Neanderthal automaticamente sentivano più dolore rispetto all’Homo sapiens, come chiarisce Svante Pääbo, un altro degli autori dello studio. L’impulso del dolore, infatti, viene modulato anche dal midollo spinale e dal cervello, tuttavia che la soglia oltre la quale inizia la sensazione del dolore fosse nei neanderthaliani più bassa sembra ora un dato di fatto.
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mercoledì 19 luglio 2017

Nuove ipotesi sull’ibridazione tra uomo e Neanderthal. - Dario Iori

Nuove ipotesi sull’ibridazione tra uomo e Neanderthal

Risultati di analisi effettuate sul DNA mitocondriale appartenente ad alcune specie di Homo fanno supporre che un gruppo di antenati dell’uomo moderno migrò dall’Africa all’Europa incrociandosi con i Neanderthal molto prima di quanto si supponesse in precedenza, contribuendo a fare luce sui loro complicati rapporti.

Alcuni ominidi, presumibilmente appartenenti alla specie Homo sapiens, circa 270.000 anni fa si spostarono dall’Africa all’Europa e si incrociarono con i Neanderthal. Ad affermarlo sono alcuni scienziati del Max Planck Institute for the Science of Human History di Lipsia e dell’Università di Tübingen (entrambe in Germania), che hanno pubblicato i risultati della loro ricerca su Nature communication. Le loro conclusioni derivano dall’analisi del DNA mitocondriale ottenuto dal femore di un neanderthaliano, rinvenuto nel 1937 all’interno della grotta di Hohlenstein- Stadel (HST) in Germania sud-occidentale. Tali resti, secondo le stime risalgono a 124.000 anni fa, ben prima dell’arrivo precedentemente stimato di Homo sapiens (45.000 anni fa) sul continente europeo.

In passato, alcune indagini bastate sul confronto del DNA nucleare di Homo neanderthaensis e di Homo sapiens avevano portato i ricercatori a stimare che la separazione tra i due avvenne tra i 765.000 e i 550.000 anni fa, e a concludere che i Neanderthal fossero strettamente imparentati con l’uomo di Denisova, specie ancora poco nota, i cui resti furono rinvenuti per la prima volta nel 2008 all’interno della Grotta di Denisova in Siberia (Pikaia ne ha già parlato qui). In questo scenario, i Denisoviani costituirebbero il sister group dei Neanderthal, a seguito della separazione dal gruppo che avrebbe portato all’uomo moderno.

Ma il DNA nucleare non è l’unico portatore di materiale genetico presente all’interno della cellula: tralasciando l’RNA, c’è anche il DNA contenuto nei mitocondri, che viene a ragione definito DNA mitocondriale (mtDNA). Tale componente del patrimonio genetico è di eredità esclusivamente materna e può essere un utile strumento per ricostruire il lignaggio materno e, utilizzando come riferimento il tasso di mutazione ( ovvero il numero medio di mutazioni che avvengono per unità di tempo), stimare il lasso di tempo intercorso dal momento in cui due individui hanno condiviso un progenitore comune.

Ebbene, il mtDNA racconta un’altra storia: gli studi effettuati su di esso indicano infatti che i Neanderthal e l’uomo moderno si separarono all’incirca 400.000 anni fa, molto più recentemente quindi rispetto ai risultati ottenuti dall’analisi del DNA nucleare. Il DNA mitocondriale di Homo neanderthalensis inoltre risulta molto più simile a quello di Homo sapiens che a quello appartenente ai Denisoviani. Come è possibile che le analisi del DNA nucleare e di quello mitocondriale diano risultati così diversi? In un certo momento della storia, i due gruppi devono essere venuti a contatto mescolando i propri corredi genetici. Ciò in realtà è già stato ampiamente dimostrato ed è risaputo che abbiano avuto luogo eventi di ibridazione tra la nostra specie ed i Neanderthal (Pikaia ne ha già parlato qui qui ad esempio). Tale incontro però sarebbe stato di molto antecedente rispetto a quelli già noti agli scienziati.

Per verificare questa ipotesi, i ricercatori del Max Planck Institute,guidati da Johannes Krause, hanno confrontato il mtDNA proveniente dal femore di HST con quello di altri 17 esemplari di Neanderthal più antichi, 3 denisoviani e 54 uomini moderni. I risultati ottenuti mostrano che il DNA mitocondriale proveniente da Hohlenstein- Stadel è decisamente molto diverso rispetto a quello dei primi neandertaliani presenti in Europa 430.000 anni fa.

Gli scienziati hanno dunque ipotizzato che un gruppo di primitivi H. sapiens uscì dall’Africa tra 470.000 e 220.000 anni fa (ben prima quindi di quanto precedentemente ipotizzato), introducendo il proprio DNA mitocondriale nella popolazione europea dei Neanderthal. Il gruppo non doveva essere sufficientemente numeroso per avere un profondo impatto sul DNA nucleare, ma abbastanza ampio per rimpiazzare il DNA mitocondriale dei cugini europei.

I risultati della ricerca non sono definitivi, e sarà necessario analizzare i DNA nucleari e mitocondriali di altri Neanderthal, provenienti da Hohlenstein- Stadel e da altri siti, per avere maggiori informazioni riguardo la storia delle popolazioni neanderthaliane europee. Ciò che è certo però è che la storia del genere umano è una vicenda complessa, fatta di migrazioni, incroci e vicende ancora ampiamente da chiarire.


Riferimento:Cosimo Posth, Christoph Wißing, Keiko Kitagawa, Luca Pagani, Laura van Holstein, Fernando Racimo, Kurt Wehrberger, Nicholas J. Conard, Claus Joachim Kind, Hervé Bocherens, Johannes Krause. Deeply divergent archaic mitochondrial genome provides lower time boundary for African gene flow into NeanderthalsNature Communications, 2017; 8: 16046 DOI:10.1038/NCOMMS16046
Immagine da Wikimedia Commons


http://pikaia.eu/luomo-migro-dallafrica-incrociandosi-con-i-neanderthal-270-000-anni-fa/

domenica 9 luglio 2017

Il Disco Genetico: un oggetto fuori dal tempo.

Lato A
disco genetico
Lato A
Quello che segue è ben lontano da ciò che si trova nei libri scolastici e nei libri di storia moderna. Molte delle grandi scoperte archeologiche non sono mai state presentate al grande pubblico e difficilmente lo hanno fatto i media.
Uno tra i più misteriosi artefatti è il Disco Genetico (Genetic Disc)
Il merito di questa straordinaria scoperta va al signor Klaus Dona, ricercatore indipendente che per primo rese pubblica l’immagine del disco.
 Il Disco Genetico è un reperto archeologico unico e straordinario, un disco in pietra di epoca precolombiana che sulle sue due facce racchiude i “segreti della vita”.
Su questo Disco ritrovato in Colombia ed ora esposto al Museo di Scienze Naturali di Vienna, che misura circa 27 centimetri di diametro, ed ha un peso di 2 Kg vi sono ancora molti enigmi da risolvere.
Il materiale di cui è composto risulta essere lidite, una pietra nera. per quanto riguarda la sua datazione, anche essendo di pietra non è stato possibile assegnarlo ad un periodo storico ben preciso, comunque sembra risalire a circa 6000 anni fa.
La particolarità del disco consiste nelle incisioni che sono presenti sulle sue due facciate che sembrano contenere informazioni genetiche.
Secondo Klaus Dona, queste incisioni rappresenterebbero il processo evolutivo che porta dalla rana all’uomo.
Lato B
disco genetico
Altri dettagli che si possono notare sulle due facce del disco genetico sono la visibile presenza di organi genitali, spermatozoi, ovuli, e perfino la fecondazione dell’ovulo che si trasforma in embrione fino ad arrivare alla formazione del feto.  Nella parte inferiore del disco vi sono raffigurati un uomo ed una donna, con i genitali in evidenza; sul lato destro un bambino, un uomo ed una donna, ma con tratti somatici, diversi dall’uomo moderno. Una vera e propria rappresentazione della fecondazione, che parte dalla fecondazione dell’ovulo, ai vari stadi della crescita, del feto, all’embrione, arrivando alla nascita di due creature, forse gemelli.
L’aspetto interessante del disco genetico riguardo il campo biologico, sono le piccole immagini su di esso, note a noi per via dell’uso dei microscopi, ma stiamo parlando di un oggetto che ha migliaia di anni.
Esso mostra le immagini di un ovulo, spermatozoi, feti, e anche l’organo sessuale femminile.
Osservando le immagini, viene da pensare che l’uomo antico poteva sapere qualcosa, che a noi è profondamente noto tecnologicamente.
Questo ci porta a chiederci come hanno fatto a crearlo, e sopratutto chi lo ha creato ?
Quanto era avanzata l’antica conoscenza della genetica?