venerdì 15 maggio 2020

Niente tamponi e morti che spuntano dal nulla, Agnoletto: “Commissariare la Lombardia per salvare il salvabile”. - Daniale Nalbone



Dietro questa richiesta non c’è una battaglia politica ma “la rabbia della gente”. L’hashtag #commissariarelalombardia è stato per giorni in “trend topic”, segno di una mobilitazione dal basso per chiedere l’intervento del governo nella gestione dell’emergenza. Al centro, ci spiega Vittorio Agnoletto, docente di Globalizzazione e politiche della salute all’università Statale di Milano, non solo le responsabilità della fase uno ma le modalità con cui si sta gestendo la fase due.

Dottor Agnoletto, partiamo dal lavoro che state facendo con Osservatorio Coronavirus, realizzato da Medicina Democratica in collaborazione con 37e2, trasmissione che conduce su Radio Popolare. Com’è nato questo progetto?

Partiamo da un presupposto: l’informazione ufficiale, istituzionale, in questo scenario ha mostrato tutte le sue lacune. Gli organi ufficiali della Regione Lombardia in particolare continuano a raccontare una realtà che non corrisponde minimamente alla quotidianità che vivono i cittadini. C’è un totale scollamento e la gente si sente abbandonata. Da qui la necessità delle persone di aggrapparsi ad altre realtà con il rischio, però, di incappare nelle tantissime bufale che stanno girando in rete. La televisione, poi, è diventata il regno del chiacchiericcio e delle polemiche che trasmettono solo, a parte qualche raro caso, confusione. Da qui è emersa la necessità di fare un’informazione seria e rigorosa dal punto di vista scientifico e divulgativo. Il risultato è che ogni giorno riceviamo centinaia di segnalazioni da parte di medici e infermieri, che il più delle volte chiedono di restare anonimi, e da cittadini.

Quali sono le “segnalazioni tipo” che vi arrivano?

In assenza di un riferimento sono molti i medici e gli operatori sanitari che si rivolgono a noi per denunciare le tantissime lacune del sistema sanitario lombardo in questa emergenza: negli ultimi giorni, ad esempio, ci è arrivata una segnalazione su ospedali dove operatori sanitari “covid positivi” sono rientrati al lavoro dopo aver fatto un solo tampone. In queste settimane abbiamo raccolto decine di casi che dimostrano il fallimento della gestione della pandemia. Ve ne racconto solo un paio. Sono stati i medici di medicina generale, i cosiddetti medici di famiglia, a denunciare di essere stati contattati dall’Agenzie di tutela della salute (Ats)– la Asl – per andare a ritirare le mascherine. Era il 2 marzo e la distribuzione sarebbe avvenuta il giorno seguente. Nel tardo pomeriggio del 3 marzo le mascherine erano già finite e il primo contagio accertato risale al 21 febbraio. Per 11 giorni i medici di base hanno lavorato senza che l’Ats procurasse al proprio personale alcun dispositivo di protezione. Pochi giorni fa, invece, ci è arrivata una lettera, umanamente bellissima, da parte di una ragazza che ci ha raccontato l’odissea vissuta dalla sua famiglia: la nonna è morta di Covid in una RSA. Durante l’ultimo periodo del ricovero non solo non sono mai riusciti a parlarle ma non sanno, ancora oggi, nemmeno il giorno in cui è deceduta. Questi sono solo due esempi delle segnalazioni che ci arrivano, tanto dal personale sanitario che dalla cittadinanza. Noi raccogliamo tutto questo materiale e avviamo indagini che, spesso, vengono poi riprese dai magistrati o dal Difensore civico regionale.

In questi giorni si parla tanto di commissariamento della sanità regionale. La richiesta, almeno guardando a quanto avviene sulle reti sociali, è spinta dal basso, tanto che su Twitter l’hashtag #commissariarelalombardia è stato per giorni in “trend topic”.

La gente è furibonda. Chi non è qui non si rende conto della situazione. Questo è il fallimento di tutti noi perché il servizio sanitario regionale è patrimonio comune delle persone. Non si tratta di una richiesta ideologica o politica. È una richiesta materiale, che arriva dalla drammatica esperienza quotidiana delle persone.

Volevo arrivare proprio qui: quanto c’è di battaglia politica dietro la richiesta di commissariamento della sanità regionale e quanto, invece, di decisione da prendere per la salute delle persone?

Qui non si tratta di “battaglia politica”! Abbiamo migliaia di persone, decine di migliaia, che sono a casa, in quarantena, e non saprebbero dirti perché: se sono a casa perché in convalescenza dopo essere stati colpiti dal Covid oppure no. Sanno di aver avuto la febbre e basta, nessuno gli ha mai fatto un tampone. Poi ci sono altre migliaia di persone costrette a casa per aver avuto contatti con parenti che, a loro volta, sono positivi, lo sono stati, o potrebbero esserlo stati. Ma non lo sanno. È un effetto domino inaccettabile che ha degli effetti incredibili sulla quotidianità delle persone.
Può farci qualche esempio per capire?

Anche qui ne basta uno e riguarda sempre quelle persone che avrebbero un bisogno disperato di fare il tampone per sapere se sono stati infettati o se sono ancora contagiosi. Nell’accordo del 24 aprile tra Governo e parti sociali, inserito poi nel decreto del 26 aprile, si prevede che il medico del lavoro debba attestare, fra coloro che sono risultati positivi al Covid, chi può tornare al lavoro. Ebbene, l’accordo prevede esplicitamente che il “nulla osta” per il rientro al lavoro debba essere certificato dopo due tamponi risultati negativi. Ma se il tampone non viene fatto a nessuno, cosa può fare il medico del lavoro? E il lavoratore? Va o non va a lavorare? Senza considerare il dramma che stanno vivendo i miei colleghi medici di famiglia: alcuni mi hanno scritto, disperati, chiedendo che gli fornissi indirizzi di laboratori in cui fare i tamponi o almeno il test sierologico, e iniziano ogni messaggio con le scuse per avermi chiesto di indirizzarli verso il privato. Ovviamente io gli rispondo di insistere a richiedere il tampone alle strutture pubbliche, ma sono esasperati. Eccolo il fallimento del sistema sanitario lombardo.

Le responsabilità, in questo scenario, però sono politiche. È inevitabile quindi che anche le polemiche intorno a questo fallimento siano politiche, non trova?

Sono “anche” politiche. Qui parliamo di un fallimento generale, strutturale, per aver sottomesso tutta la sanità regionale all’ideologia del privato. Il guadagno, in una sanità “privatizzata”, è nella cura del malato, non nella prevenzione che può diventare addirittura controproducente in relazione al proprio interesse economico. Non è un caso che le cliniche convenzionate siano concentrare negli ambiti più produttivi della sanità: niente pronto soccorso ma “tanta” cardiologia o alta chirurgia. La Regione Lombardia negli anni ha dato al privato uno spazio enorme e, soprattutto, non complementare ma sostitutivo del pubblico, che di riflesso ha introiettato ideologie e valori del privato arrivando a distruggere il sistema preventivo e la medicina sul territorio. Basta ricordare la tristemente famosa frase del leghista Giancarlo Giorgetti, allora sottosegretario, quando alla festa di Comunione e Liberazione dichiarò: “I medici di base appartengono al passato”.

La sensazione è che si stia andando un po’ al buio. Sbaglio?

In una pandemia si fa l’esame diagnostico, in questo caso il tampone, a chi ha sintomi, poi a chi è entrato in contatto con un positivo. Quindi si inizia a inseguire, letteralmente, ogni contagiato. Contatto dopo contatto si costruiscono cerchi concentrici e, soprattutto, si “mappano” gli operatori sanitari. Qui non è stato fatto nessuno studio, non esiste alcun campione di popolazione stratificata da analizzare. Nessuno sa ancora dire con esattezza come si è mosso il virus e come si sta muovendo. La medicina preventiva e territoriale è stata totalmente ignorata. Però nella medicina di alta tecnologia la Lombardia è un modello …

Non mi ha ancora risposto sulle responsabilità politiche, però.

Non le ho risposto perché non c’è molto da dire. La scelta dei dirigenti delle aziende sanitarie regionali avviene, da anni, per assoluta fedeltà politica. Veniamo da venti anni di regno Formigoni e ora abbiamo una giunta a trazione leghista che sta operando in perfetta continuità. Sa perché in Lombardia ci sono stati tanti morti nelle Residenze sanitarie assistenziali? Perché sono stati chiusi vari ospedali e molti reparti per far posto allo sviluppo di nuove strutture private, contemporaneamente non sono state realizzate le necessarie e previste strutture intermedie e i posti in emergenza erano pieni, così i malati “non gravi” sono stati mandati nelle Rsa. La politica in questo caso doveva fare solo una cosa: obbligare le cliniche private a partecipare alla gestione dell’emergenza fino ad arrivare a requisirle. E ovviamente non lo ha fatto.

Torniamo sulla richiesta di commissariamento. Ora che la “fase uno” è, almeno a parole, alle spalle, è ancora necessario a suo avviso procedere in quella direzione?

Stanno gestendo la fase due nella stessa modalità con cui è stata gestita la fase uno, cioè senza fare tamponi. Un governo nazionale come fa a fidarsi di un governo regionale che il 2 maggio tira fuori, così, dal nulla, 282 morti di Covid che non erano stati segnati ad aprile? Parliamo di 282 persone decedute, non di una ventina di morti in più da mettere nella contabilità dell’anno a livello nazionale come avviene con altre patologie. Il problema è che in Lombardia non funziona nemmeno il sistema di sorveglianza. E l’intera fase due è incentrata sul sistema di sorveglianza.

Veniamo a un altro tema caldo, i luoghi di lavoro. Lei è specializzato in medicina del lavoro, ci può spiegare qual è la situazione?

Le fabbriche, ma è un discorso che vale per tutti i luoghi di lavoro, sono state – diciamo così – chiuse e poi riaperte. Il messaggio arrivato dal governo è stato: non si può riaprire nelle stesse condizioni di prima. Quanti datori di lavoro si sono dati da fare per organizzare i luoghi della produzione in maniera diversa? Sono state messe in atto tutte le forme di prevenzione? La risposta non la sappiamo perché la medicina del lavoro è stata smantellata. Il medico del lavoro oggi è una partita iva che lavora con il proprietario dell’azienda e se non si adegua alla linea viene sostituito. Il medico di una fabbrica non è un medico del servizio sanitario nazionale, ma “della fabbrica”. Contestualmente nei servizi di Medicina del Lavoro delle ASL/ATS è stato ridotto il personale sanitario che si deve occupare di verificare quello che accade. In questo scenario uno degli errori più gravi è stato quello di non prevedere sanzioni per i datori di lavoro che non applicano le misure di sicurezza: il rischio che si corre è la chiusura della ditta fino alla sua messa in regola. La ratio, quindi, di un proprietario di fabbrica è la seguente: “Io riapro, se mi beccano, chiudo, investo nella sicurezza e riapro. Se non mi beccano, tanto di guadagnato”. Un altro problema riguarda i prezzi: è assurdo che lo stato non sia intervenuto per una calmierazione dei costi di sanificazione e ora molte aziende del settore stanno sfruttando questa emergenza facendo impennare le tariffe.

Quali sono gli scenari che abbiamo davanti?

Nessuno sa cosa succederà in autunno e poi in inverno, se avremo farmaci per contenere il virus e se questo evolverà in maniera più o meno aggressiva. Quel che è certo è che in futuro dovremo confrontarci e convivere con una moltitudine di agenti infettivi: attenzione, non si tratta di “nuovi” virus ma di agenti che non venivano a contatto con gli esseri umani. E qui entrano in gioco le responsabilità dell’uomo: dai cambiamenti climatici agli allevamenti intensivi fino alla deforestazione. L’unica strada è modificare radicalmente l’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale. Dobbiamo pensare a una medicina fondata sulla collaborazione tra cittadino e mondo sanitario. Saremo davanti a patologie in cui sarà determinante il nostro comportamento: puntare solo sulla cura, che poi è il modello lombardo, sarebbe un errore imperdonabile. Educazione sanitaria e comportamentale e rafforzamento della medicina territoriale, non c’è altra strada. Non si tratta, attenzione, di un “modo nuovo” di concepire la tutela della salute: fin dal 1978, l’Oms ha messo come punto fondamentale, e uno degli indicatori dello sviluppo di un paese, la primary care ed è la medicina di base territoriale che si occupa della cura primaria, dove il cittadino è parte attiva. La strada da seguire è solo una: fare un’inversione a U, ridare centralità al pubblico ad un vero servizio sanitario universale sostenuto dalla fiscalità generale.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/agnoletto-commissariare-la-lombardia-per-salvare-il-salvabile/

È tornato Capannelle. - Marco Travaglio

Viterbo, l'informazione online: l'invasione dei "copincollisti ...
E niente, volevo assegnare il premio “Oggi le comiche” della settimana, ma ho dovuto arrendermi per eccesso di pretendenti, tutti meritevoli. Ex aequo.
Francesco Merlo, sulla nuova Repubblica alla Sambuca, non sapendo più cosa inventarsi contro Conte, spiega che fascisti e odiatori insultano Silvia Romano per colpa del governo che l’ha “esibita sul red carpet degli squilibrati”. Giusto: dovevano carrucolarla direttamente sui tetti di casa sua, onde evitare fotografi e telecamere.
A proposito di Silvia: Toni Capuozzo, inviato di guerra Mediaset con la sindrome di Rambo in tempo di pace, già noto per le equilibrate posizioni sul Covid, si associa su La Verità al frullo del Merlo e dice che “al governo hanno agito da cazzari e fatto pubblicità ai terroristi”, oltre ad aver “pagato il riscatto”. Sono opinioni rispettabili, o meglio lo sarebbero se il Capuozzo le avesse mai esternate quando a pagare i riscatti e a far pubblicità ai terroristi erano Berlusconi e Gianni Letta. Cioè quei cazzari che gli pagano lo stipendio. Ma non risulta.
A proposito di Mediaset: Elisabetta Casellati Alberti Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, interpellata sui vergognosi delirii alla Camera del siculoleghista Alessandro Pagano su Silvia “neo-terrorista”, risponde che “la stigmatizzazione di questo intervento esula dalle mie competenze”, essendo lei (inopinatamente) presidente del Senato. È fatta così: ha l’indignazione selettiva, retrattile e perimetrale. Al metro quadro.
Il Giornale, sul governo che stanzia 55 miliardi (oltre ai 25 dell’altro decreto: cifre mai viste tutte insieme) per le vittime dell’emergenza Covid, titola “Le mancette di Conte”. Urge colletta per Sallusti.
A proposito di mancette e anche di red carpet: la Regione Lombardia ha buttato dalla finestra una cinquantina di milioni di donazioni private (inclusi i 3 raccolti dagli incolpevoli lettori di Libero e Giornale) per il famoso ospedale alla Fiera di Milano, orgoglio e vanto della Nazione e di Bertolesso, che ora ospita 4 malati dopo aver raggiunto la vetta di 12 e ora – parola del capo delle Terapie intensive della Regione stessa – verrà presto chiuso per manifesta inutilità. Alla fine della Fiera.
A proposito di Lombardia: leggiamo su Libero che “Le Regioni sono stufe di aspettare” il governo. Povere stelle. E in prima fila c’è “la Lombardia in pressing sul governo”, cioè la Regione che – in tandem col gemello Piemonte – non ne ha azzeccata una, infatti continua a moltiplicare i morti e i contagi e a costringere tutte le altre a restare ferme. Stufe di aspettare.
A proposito di Vien dal Mare. Per imperscrutabili motivi, Pd e M5S vogliono promuovere direttori di Rai3 e Tg3 due sugheroni quattro-stagioni: Franco Di Mare, che faceva le marchette ai pannolini alle convention della Pampers con la scenografia del Tg1; e Moiro Orfeo, il cui curriculum spazia fra De Benedetti, Caltagirone e la Rai, in quota ora B., ora Monti, ora Renzi, plurimedagliato per aver cacciato la Berlinguer dal Tg3 e la Gabanelli e Giletti dalla Rai, ultimamente segnalato dalle parti del Pd ma anche del M5S. Due tipini di bosco e di riviera. Anzi, Di Mare.
A proposito di sugheroni galleggianti: l’emerito Sabino Cassese è tornato a colpire sul Corriere con uno dei suoi celebri editoriali senza capo né coda. Nel senso che si capisce sempre che ce l’ha con Conte, ma mai perché. Stavolta gli fa schifo il dl Rilancio: “Le ombre sui tempi (e sui modi)”. La data del 13 maggio non va bene, forse per via dell’anniversario della Madonna di Fatima. Peggio ancora i modi di Conte che, direbbe Totò, sono interurbani. Eppoi ’sto decreto ha un “intento risarcitorio” (orrore) e “il mezzo consiste nelle elargizioni” (paura). Lo fanno in tutto il mondo, i tipi studiati lo chiamano helicopter money, ma lui ci è rimasto male. E poi “lo strumento prescelto è il decreto legge, atto al quale si dovrebbe ricorrere ‘in casi straordinari di necessità e urgenza’. Il governo non ha tenuto conto dell’urgenza” perché il dl doveva arrivare a fine aprile e invece siamo a maggio: ergo – seguite la logica – tanto valeva arrivare a dicembre con un bel disegno di legge. Del resto 35 mila morti e qualche milione di contagiati non saranno mica motivi di necessità e urgenza: “Le opposizioni hanno ragione a lamentare che lo Stato di diritto è violato e il Parlamento non è messo nelle condizioni di vagliare questa massa di atti”. Infatti Conte ha lucchettato gli ingressi di Montecitorio e Palazzo Madama. Anche per l’impressionante somiglianza fisica, Scassese ricorda sempre più Capannelle, il malmostoso vecchietto de I soliti ignoti che ha sempre qualcosa da imprecare, ma non sa nemmeno lui il perché (“Che hai da guardare, mi sono vestito spurtivo!”, “Ma quale spurtivo, tu sei vestito da ladro!”. “Ma guarda un po’ dove son capitato: fra i lavoratori!”. “Ehi, dove vai, vedi che quelli ti fanno lavorare davvero!”). Poi però, a fine articolo, i motivi di tanto rosichìo vengono a galla: Incassese butta lì “la storica inadeguatezza degli uffici di staff dei ministri”. Che sono da sempre infestati da allievi suoi, ma ultimamente un po’ meno. Tutti i Capannelle del mondo sempre lì finiscono: nella pignatta della pasta e ceci.

“Quelle scarcerazioni scoraggiano i cittadini”. - Gianni Barbacetto

“Quelle scarcerazioni scoraggiano i cittadini”

“Il Dap non ha agito in malafede. Non do pagelle ad altri giudici”.
“L’effetto delle scarcerazioni di questi mesi è stato devastante. Ha minato la fiducia nella giustizia e nello Stato che avevamo faticosamente conquistato negli ultimi anni”. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, magistrato antimafia, è anche sicuro che le organizzazioni criminali stiano già sfruttando l’emergenza coronavirus per mettere le mani su pezzi dell’economia italiana.
Il decreto Bonafede del 10 maggio è riuscito a fermare l’epidemia di scarcerazioni avvenute negli ultimi mesi?
Obbliga almeno a controllare, prima di scarcerare, se è attuale e concreto il pericolo che il detenuto possa infettarsi di Covid-19; e a trovare eventuali soluzioni alternative alla detenzione domiciliare. Nei mesi scorsi sono stati mandati a casa molti detenuti per ragioni di salute: nell’ipotesi che, se contagiati, sarebbero potuti morire. L’ipotesi si basa sulla possibilità di essere contagiati. Ebbene, due mesi fa avevo detto che era più facile essere contagiato in piazza Duomo a Milano che non nelle carceri di San Vittore o di Opera. Sono stato criticato e attaccato. Oggi i fatti mi danno ragione: i contagiati in carcere sono 159 su 62 mila detenuti. Intanto ottomila persone sono uscite di cella, diminuendo il sovraffollamento carcerario. Ma intanto sono state scarcerate 400 persone che erano detenute al 41 bis o in alta sicurezza. In nome di un pericolo di contagio che non si è manifestato. I detenuti avevano il 99,5 per cento di possibilità di non infettarsi: a dirlo è il Garante nazionale delle private libertà. Era più pericoloso fare la spesa al supermercato che stare in carcere.
Il decreto Bonafede impone anche di chiedere il parere, prima di scarcerare, alle Procure distrettuali antimafia e alla Procura nazionale.
Le Direzioni distrettuali devono rilasciare il parere in due giorni: troppo pochi, ce ne vorrebbero almeno cinque. Anche perché la Direzione nazionale antimafia, che invece ha a disposizione quindici giorni, il parere lo chiede a noi delle Procure distrettuali.
L’ondata di scarcerazioni è stata causata dalla circolare del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) del 21 marzo?
Non credo sia stata fatta in malafede. Chiunque l’ha pensata non voleva certo favorire i mafiosi e non prevedeva neppure l’ondata di uscite dal carcere.
La responsabilità è allora dei magistrati di sorveglianza?
Non voglio dare pagelle e non posso sovrappormi alle decisioni di altri magistrati, perché non conosco gli atti.
L’effetto delle scarcerazioni è stato comunque un rafforzamento dei gruppi criminali?
Le ragioni poste a fondamento delle scarcerazioni sono legate a rischi di salute per il detenuto; purtuttavia un rafforzamento c’è stato in ragione dell’alto valore simbolico del rientro nei territori di provenienza degli appartenenti ai gruppi criminali. Un effetto devastante. La gente è smarrita di fronte a certe scarcerazioni. Ho visto una ricerca secondo cui i cittadini calabresi sono quelli con maggiore fiducia nella giustizia in Italia: da calabrese sono fiero di questo risultato che mi riempie d’orgoglio. Spero che l’effetto delle scarcerazioni non venga interpretato come debolezza dello Stato.
Un effetto collaterale: a causa del coronavirus si è ripreso a parlare di mafia.
Sì, e una gran parte dell’informazione ha fatto un ottimo lavoro. Ora dovremmo fare dei passi avanti. Per esempio istituendo i Tribunali distrettuali antimafia, per celebrare i processi di criminalità organizzata. Ogni mattina dal mio ufficio, qui a Catanzaro, partono sette auto per portare i pm in sette diversi Tribunali della Calabria, perché i processi si celebrano nel luogo dove è stato commesso il reato. Ma sarebbe più razionale unificarli tutti nei capoluoghi sedi delle Direzioni distrettuali antimafia. Otterremmo anche dei giudici con maggiore specializzazione ed esperienza.
L’emergenza virus non ha fermato le attività dei gruppi mafiosi.
Per niente. Le difficoltà di tante attività produttive o commerciali spingerà a chiedere soldi a usura ai gruppi criminali, i quali prestano soldi per poi rilevare le attività, che saranno usate per fare riciclaggio. Dopo il traffico di cocaina, l’usura è l’attività criminale più facile e frequente. Le cosche sono già al lavoro.

giovedì 14 maggio 2020

Mafia, il capo dell’Anticrimine: “Fu Baiardo e dirci dei rapporti tra i Graviano e Dell’Utri. Informammo i pm nel ’97, nessuno si mosse”. - Lucio Musolino


 Mafia, il capo dell’Anticrimine: “Fu Baiardo e dirci dei rapporti tra i Graviano e Dell’Utri. Informammo i pm nel ’97, nessuno si mosse”

I rapporti con i Graviano - Al processo ’ndrangheta stragista il capo dell’Anticrimine Messina spiega: “Non ci fecero indagare”.
“C’era un rapporto tra il signor Marcello Dell’Utri e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che, tramite lui, erano interessati al finanziamento del nascente movimento politico Forza Italia perché erano convinti che questo li avrebbe garantiti e avrebbe garantito i loro interessi”. Il contenuto delle confidenze di Salvatore Baiardo lo riferisce in aula, ieri a Reggio Calabria, il capo della Direzione centrale anticrimine della polizia, Francesco Messina. È stato lui, assieme all’allora dirigente della Direzione investigativa antimafia di Firenze, Nicola Zito, a redigere il 4 novembre 1996 l’informativa sul colloquio avuto con Salvatore Baiardo, uno dei principali fiancheggiatori del boss di Brancaccio oggi imputato nel processo ’ndrangheta stragista.
A due anni dalla fondazione di Forza Italia e pochi mesi dopo la caduta del primo governo Berlusconi, le rivelazioni di Baiardo avrebbero provocato un terremoto non solo all’interno di Cosa Nostra ma anche nella politica italiana. Quella nota finì sulla scrivania del procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna. E poi? Alla domanda del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, Messina risponde senza tentennamenti: “Noi non abbiamo ricevuto delega come Dia. Almeno fino a quando ci sono stato io a Firenze e fino a quando era operativo il gruppo Stragi”.
In quell’informativa non c’è il nome di Salvatore Baiardo: “All’epoca – spiega Messina – non voleva comparire e fu utilizzato il termine ‘persona indagata nel procedimento penale 3309/93 (il processo sulle stragi, ndr) e per la quale pende richiesta di archiviazione a Firenze’”.
In sostanza, quelle informazioni “non furono sviluppate” dalla Procura che “diede atto del fatto che si trattava di un soggetto che non intendeva apparire”. Nel corso della deposizione, il capo dell’Anticrimine più volte definisce “ondivago” l’atteggiamento di Salvatore Baiardo, di fatto un potenziale pentito che, a metà degli anni Novanta, prima dei colloqui investigativi con la Dia era stato sentito a sommarie informazioni anche dai carabinieri di Palermo. “Fu convocato dai dottori Patronaggio e Caselli, ma si rifiutò di parlare”. “Io l’ho visto due volte – ricostruisce Messina –. Ci furono dei contatti preliminari finalizzati a capire se lui avesse intenzione di fare questo passo. Ci fu un tentativo di interrogatorio. Fu convocato ma all’atto dell’apertura del verbale disse che non aveva niente da dire. Nelle fasi in cui sembrava orientato a dare un contributo, ascoltammo questo signore per capire che spazio c’era e lui rappresentò genericamente di essere in possesso di informazioni che potevano essere strategiche per ricostruire tutto il periodo della latitanza dei Graviano e fornirci delle indicazioni che potevano essere utili”.
Al centro dell’informativa della Dia ci sono proprio quei colloqui investigativi: “Accennò – aggiunge il capo dell’Anticrimine – all’esistenza di un rapporto tra i fratelli Graviano e alcuni soggetti in particolar modo milanesi. Parlò di un tale Rapisarda, di origine siciliana, con cui c’erano degli interessi economici. E poi accennò anche a un rapporto tra il signor Marcello Dell’Utri e i fratelli Graviano e in particolare con Filippo, ritenuto la mente finanziaria dei Graviano”.
Agli investigatori della Dia, il fiancheggiatore Baiardo raccontò un episodio avvenuto a casa sua tra il 1991 e il 1992: “Ci disse – ricostruisce Francesco Messina – di avere assistito a due conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri. Conversazioni da cui emergeva che i due avevano in comune interessi economici”.
“Baiardo – continua Messina – disse di avere avuto informazioni particolari in merito alla natura dei rapporti che legavano Dell’Utri ai fratelli Graviano. Aveva capito che in questo contesto era coinvolto tale Fulvio Lima di Palermo, a suo dire parente del noto onorevole Salvo Lima (ucciso dalla mafia nel 1992, ndr)”. Sempre nella stessa informativa, il direttore dell’Anticrimine aveva appuntato che “Baiardo disse di avere accompagnato fisicamente, tra il 1992 e il 1993, i fratelli Graviano al ristorante ‘L’Assassino’ di Milano dove i due si sono incontrati con Dell’Utri” anche se lui non l’ha visto.
Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo insiste, riprova a chiedere che fine abbia fatto quell’indagine. Al termine dell’udienza, Messina ribadisce: “Fino alla mia permanenza nel gruppo investigativo della Dia non ho mai avuto deleghe”. E ritorna attuale la frase detta a mezza bocca da Baiardo in un’intervista fatta da Peter Gomez e Marco Lillo e pubblicata dal Fatto nel giugno del 2012: “Di queste cose non voglio parlare adesso. C’è già la Dia di Firenze che mi martella, l’ultima volta son venuti tre mesi fa”.

Milano, uno tsunami di denaro sporco: oltre un miliardo di euro di operazioni sospette in sei anni. - Davide Milosa


Milano, uno tsunami di denaro sporco: oltre un miliardo di euro di operazioni sospette in sei anni
Una cifra mai vista e mai denunciata prima che comprende riciclaggio mafioso, finanziamento al terrorismo, evasione e corruzione. In tempi di Covid molto passa in secondo piano, non questi movimenti di denaro che rappresentano oggi un vero alert che dovrà essere tenuto in grande considerazione dalla Procura.
Uno tsunami di denaro sporco. Oltre un miliardo di euro in sei anni. A tanto ammonta il tesoretto complessivo delle operazioni sospette sulla piazza di Milano. Una cifra mai vista e mai denunciata prima che comprende riciclaggio mafioso, finanziamento al terrorismo, evasione e corruzione. In tempi di Covid molto passa in secondo piano, non questi movimenti di denaro che rappresentano oggi un vero alert che dovrà essere tenuto in grande considerazione dalla Procura.
La cifra di 1,1 miliardi di euro è prodotta da 23 operazioni complessive che l’unità antiriciclaggio del comune di Milano in stretta collaborazione con la Commissione antimafia ha segnalato all’Unità di informazioni finanziaria presso la Banca d’Italia. Il tutto compreso tra il 31 marzo 2014 e il 20 aprile scorso. Nelle decine di atti accumulati in questo periodo e trasferiti sul tavolo dell’antiriciclaggio nazionale ci sono diverse storie che illustrano i tanti settori economici a rischio. Dalla ristorazione ai parcheggi, dalle società sportive fino al settore alberghiero. A scorrere i numeri si resta impressionati.
Il lavoro ha riguardato l’analisi di 4.795 operazioni economiche che hanno coinvolto in modo diretto e non 1.256 società e 2.427 persone. Da questo screening iniziale si è arrivati a iscrivere 23 dossier complessivi. Ognuna di queste segnalazioni si porta dietro una serie di dati che messi insieme danno da soli l’idea del fenomeno a Milano. A monte delle 23 segnalazioni alla Uif, infatti, ci sono ben 303 operazioni economiche per un totale complessivo di 144 milioni di euro. Non è finita, perché dietro a queste operazioni la movimentazione totale di capitale supera il miliardo di euro. E se i numeri sono numeri, c’è ben poco da stare tranquilli.
Nascoste dietro le 23 operazioni segnalate e che hanno prodotto l’apertura di altrettanti fascicoli da parte della Uif, ci sono 473 movimentazioni di valuta, in contanti e non. Le società coinvolte risultano ben 234. L’elenco comprende attività economiche diverse tra loro. In testa alla classifica ci sono le immobiliari con 50 società segnalate, 39 i ristoranti, 27 bar, 11 autorimesse. Non solo, ci sono anche 7 organizzazioni socio-religiose, 9 enti pubblici territoriali, 4 studi medici, 2 istituti di credito e addirittura una sala da ballo. Mentre gli atti di registro estrapolati sono stati 4194 e 210 le persone fisiche coinvolte. Insomma un quadro inedito che illustra prima di tutto una cosa: il flusso dei soldi è quasi sempre a “ciclo chiuso” con il denaro che movimentato in modo fittizio torna sempre al punto d’origine, comportando perdite apparenti di circa il 20% del valore iniziale.
Uno schema di riciclaggio quasi elementare. Che diventa ancora più chiaro osservando i protagonisti di queste operazioni sospette. Su 210 individuati ben oltre la metà, 162, sono italiani. Di questi quasi il 50% (67) provengono da aree geografiche ad alta infiltrazione mafiose. Dodici i comuni individuati tra Calabria, Sicilia e Campania. Il denaro, dunque, nasce al sud ma poi viene riciclato a Milano. E del resto un recente report della Banca d’Italia segnala come solo il 23% degli affari della ‘ndrangheta provengono dalla Calabria, il restante 77% si forma fuori dai confini regionali e anche nazionali. Non a caso il dottor Francesco Messina a capo della Direzione centrale anticrimine (Dac) spiega: “Oggi ci troviamo di fronte a un deriva mercatista della ‘ndrangheta ed è su questo aspetto che noi dobbiamo concentrarci, l’azione di contrasto va modulata non più solo con riferimento all’apparato militare dei clan”.
I risultati dell’unità antiriciclaggio del comune di Milano sono certamente in linea con l’ultimo report della Direzione investigativa antimafia. Qui, si legge, nel primo semestre del 2019 in Lombardia le operazioni sospette di diretta attinenza con il crimine organizzato sono state ben 2.158 collegate a 9.925 reati spia.
Non c’è però solo il rischio di infiltrazioni mafiose. Di grande interesse sono anche i risultati che riguardano il finanziamento al terrorismo. Ora dei 210 soggetti fisici segnalati, 48 sono cittadini stranieri. Di questi ben 38 provengono da paesi considerati ad alto rischio per il finanziamento al terrorismo islamico. Due sono originari di stati inseriti nella black list internazionale. Il nome di una di queste persone è finita sul tavolo della procura di Milano che ha avviato un’indagine per finanziamento al terrorismo. Al centro del fascicolo vi è una singola operazione sospetta messa in piede per aggirare le norme dell’Unione europea in tema di contrasto al finanziamento di programmi di proliferazione delle armi di distruzione di massa.
La mole di lavoro in questi anni è stata enorme e ha riguardato operazioni già avvenute e i cui indizi sono stati raccolti prima di tutto dal territorio e dall’analisi delle attività economiche. Diversi gli alert messi in campo dall’unità antiriciclaggio di palazzo Marino. Tra gli ultimi e più nuovi quello del cosiddetto “titolare effettivo” di una società o di un fondo immobiliare, la cui identificazione è spesso un campanello d’allarme per una operazione di riciclaggio. Tra i sorvegliati speciali ci sono anche le società che controllano le squadre di calcio di Inter e Milan. Come spiega Davide Gentili presidente della Commissione antimafia di Milano: “La richiesta era precisa: una chiara e trasparente rappresentazione dei titolari effettivi delle società contraenti la concessione comunale. Era il nono punto dei sedici presenti nell’ordine del giorno che il Consiglio Comunale ha votato il 28 ottobre 2019, sul nuovo stadio e la riqualificazione dell’area circostante. Nel gennaio 2020 l’obbligatorietà di richiedere i titolari effettivi a chiunque sottoscriva un contratto con il Comune di Milano è stata poi inserita nel Piano anticorruzione.
La risposta, così come riportata nelle slides recapitate al Comune appare altrettanto chiara: le società che detengono Milan e Inter non hanno assolutamente intenzione, per il momento, di dichiarare chi siano le persone fisiche che controllano o detengono le società”. Non c’è solo questo. Soprattutto oggi in tempi di Covid, di crisi economica e di appetiti mafiosi. Spiega sempre Gentili riferendosi ai risultati ottenuti dall’unità antiriciclaggio del comune “Ho chiesto agli uffici di controllare, in particolare in questo periodo, i cambi degli assetti societari nelle aziende che investono nella ristorazione, nell’alberghiero e quelle che hanno in gestione appalti importanti con il Comune di Milano. La liquidità di evasori e mafiosi fa gola a molti”.

SUL “DISTANZIAMENTO SOCIALE”. - ANDREA ZHOK



Piccola nota per i disattenti.
Il “distanziamento sociale” non è nato due mesi fa, con il lockdown.
Nel “distanziamento sociale” ci abbiamo sguazzato tutti da almeno mezzo secolo.
Il “distanziamento sociale” è quella cosa per cui abbiamo vissuto gran parte della vita in perfetta solitudine in mezzo a folle anonime, ammassati come bestiame sui mezzi di trasporti, senza sapere chi abitava sul pianerottolo di fronte.
Il “distanziamento sociale” è quello che ha messo in mano ai vostri figli degli schermi di varie dimensioni con cui rincoglionirsi in solitudine passando compulsivamente da un meme a un filmatino e ritorno.
Il “distanziamento sociale” è da tempo quella cosa per cui ciascuno viene spinto a vedere in chi fa il suo stesso lavoro un concorrente, un competitore, un potenziale avversario cui magari stringere la mano (ah, il contatto umano), ma pensando solo a come fregarlo o come non farsi fregare.
Smettete di lamentarvi dell’odierno “distanziamento sociale ” come se fino a ieri aveste abitato nella Repubblica platonica o nella comunità di Utopia, scambiandovi abbracci ed effusioni, comunicazioni col cuore in mano e approfondimenti esistenziali col prossimo.
Quello che viene richiesto oggi, come una cautela protempore, non è “distanziamento sociale”; è l’incremento del “distanziamento fisico” di un’ottantina di centimetri rispetto allo standard usuale.
Smettetela di giocare ai piccoli sociologi, come se qui si giocasse il destino della vostra umanità.
Che il “distanziamento sociale”, quello vero, abbia già fatto strame da tempo della vostra umanità lo si capisce benissimo guardando a tutti quelli che fanno i magnifici mostrandosi disposti a sacrificare serenamente la pelle altrui (perché tanto sono vecchi, o malati, o sfigati, o chemmenefrega a me, basta che non sono io).

Occhio ai forchettoni. - Marco Travaglio

Amministrative: tanti i candidati prestanome delle lobby del ...

Non avrei firmato, se me l’avessero chiesto, l’appello raccolto dal manifesto fra molti intellettuali di sinistra, fra cui diversi amici e collaboratori del Fatto, contro gli agguati a Conte e al suo governo. Intanto perché non sono un intellettuale, poi perché non vengo da sinistra (anche se spesso mi ci ritrovo) e soprattutto perché conosco bene i meccanismi della disinformazione, fatti apposta per trasformare ogni cosa nel suo contrario e dunque – come puntualmente avvenuto – nel gabellare quell’iniziativa in una minaccia “di regime” contro il sacrosanto diritto di critica al premier e al governo in carica. Ciò premesso, chi legge l’appello si rende conto che coglie nel segno. Anzitutto perché sottolinea quello che anche noi notiamo da mesi: a memoria d’uomo non s’è mai visto un governo tanto osteggiato dall’establishment mediatico-finanziario-lobbistico.
Nella Prima Repubblica i giornali, la Rai e poi anche la Fininvest erano governativi per definizione (salvo gli organi di partito di destra e di sinistra e, dagli anni 70, i tre nuovi quotidiani di opinione, il manifesto, il Giornale e la Repubblica, che riflettevano le libere convinzioni dei fondatori, Rossanda&Parlato, Montanelli e Scalfari). Nella Seconda Repubblica, i governi B. raccoglievano applausi dai giornali di destra e confindustriali, e fischi da quelli di centrosinistra; e i governi di centrosinistra viceversa, con l’eccezione di quelli confindustriali che restavano sostanzialmente governativi. Poi, nel 2011, iniziò la breve (per fortuna) èra delle larghe intese: Monti aveva tutti i poteri, tutta la stampa e tutte le tv ai suoi piedi (a parte il Fatto e poche eccezioni), idem Enrico Letta e il suo santo patrono Napolitano, idem Renzi, almeno fino alla rottura del Nazareno (l’elezione di Mattarella al Colle nel gennaio 2016, non concordata con B.). Il Salvimaio, appena nato, raccolse l’ostilità preconcetta di quasi tutta la stampa e dei poteri retrostanti, che fingevano di avercela con i due partiti “populisti”, mentre in realtà tremavano solo per il M5S. Tant’è che, non appena Conte, Di Maio&C. iniziarono a minacciare le mangiatoie dei soliti noti (concessioni autostradali, Tav, prescrizione e impunità per corrotti ed evasori), l’establishment e i suoi fogli d’ordini puntarono tutto su Salvini, nuovo santo patrono del Sistema. Infatti tutti, persino Repubblica, dopo la crisi del Papeete spingevano per le elezioni subito, che ci avrebbero restituito il finto bipolarismo di prima: finta destra contro finta sinistra, con le rispettive penne alla bava al seguito, e quegli outsider di Conte e dei 5Stelle a casa.
Tanto la roulette del bipolarismo all’italiana è sempre truccata: che esca il rosso o il nero, vince sempre il banco. Per fortuna nostra e sventura di lorsignori, il piano fallì: e, col governo Conte-2 si saldò con sette anni di ritardo quel connubio fra un centrosinistra seminuovo e un M5S semiresponsabile che era già possibile nel 2013, quando Grillo offrì al Pd di eleggere Rodotà al Quirinale e subito dopo di governare insieme. Ma invano, per l’inesperienza e l’arroganza dei 5Stelle e la miopia e le compromissioni di quel Pd, ancora ostaggio di Re Giorgio, che infatti si fece rieleggere per benedire l’inciucio con B.. E col Partito Trasversale degli Affari: lo stesso che l’anno scorso, in mancanza di meglio, si era consegnato mani e piedi a Salvini. E che ora, col governo Conte-2, incentrato sulla figura del premier e condizionato dal M5S e dall’ala meno affaristica del Pd, non riesce più a toccare palla.
Il secondo pregio dell’appello degli intellettuali è proprio questo: aver colto il vero motivo dell’ostilità preconcetta e irriducibile di tutto l’establishment a
Conte e al suo governo. Che non sono odiati per i loro errori, ritardi, pasticci, litigi. Ma per i loro meriti: cioè per aver tenuto finora lontane le lobby che hanno sempre spadroneggiato con tutti i governi e ora impazziscono per l’astinenza. Perché l’Innominabile, cioè il leader meno stimato dagli italiani, viene intervistato da giornaloni e tv con frequenza e spazi inversamente proporzionali ai consensi? Perché è l’unico, nella maggioranza, che asseconda le lobby. E perché tutti i giornaloni (ora anche Repubblica, dopo la brutale presa del potere degli Agnelli) tirano la volata al governissimo di Draghi o di chi per esso? Perché, come al circo, più gente entra più bestie si vedono, e Confindustria, Confquesto e Confquello vogliono tornare a comandare tramite i loro burattini. La pressione aumenta a mano a mano che svanisce il ricordo dei morti da Covid-19 e si avvicina l’arrivo dei soldi pubblici, italiani ed europei, roba da centinaia di miliardi, o anche solo da decine (forza Mes!). Il presidente di Confindustria Bonomi, uno dei responsabili della mancata chiusura della Val Seriana (record europeo dei caduti), l’ha detto brutalmente: i soldi li vogliamo tutti noi, basta aiuti a pioggia (peggio che mai ai bisognosi). Questa è la partita che si sta giocando: vecchi e nuovi forchettoni (pensate ai giochetti delle lobby farmaceutiche sulle mascherine) marciano sulla punta non delle baionette, ma dei giornaloni per risedersi al tavolo. Anzi a tavola. E spartirsi la torta. Diceva Totò: “C’è a chi piace e a chi non piace”. A noi non piace.