Guai a sottovalutare i politici italiani: non si riesce mai a parlarne abbastanza male. L’altroieri pregustavamo due scene madri da urlo: il Parlamento che vota su Bonafede, accusato contemporaneamente di scarcerare troppo e di incarcerare troppo; e i compari di Dell’Utri che sventolano la bandiera di Nino Di Matteo, il pm che ha fatto condannare Marcellino per la Trattativa. Ma ieri la realtà ha superato la fantasia. Sul Giornale di B. e sul Riformatorio di Romeo, Alessandro Sallusti e Tiziana Maiolo hanno definito Bonafede “il peggior ministro nella storia della Repubblica” e Sallusti ha aggiunto che “il pesce puzza dalla testa”. Infatti, per i nasini sensibili di Sallusti&Maiolo, i B., i Previti, i Dell’Utri e tutta la fairy band hanno sempre profumato di Chanel n.5. Sulla linea Sallusti-Maiolo si è attestato l’avvenente Matteo Richetti, già renziano, antirenziano, ri-renziano e ora calendiano (è l’altro membro del partito di Calenda oltre a Calenda), che ha firmato la mozione Bonino perché nessuno se n’è accorto, ma “da tempo Azione chiede un governo di responsabilità nazionale” che trovi un posto per Calenda e, possibilmente, uno strapuntino anche per Richetti. Ergo Bonafede è “il punto più basso della gestione della giustizia nel nostro Paese” (i più alti furono Biondi, Mancuso, Castelli, Mastella, Alfano, Nitto Palma, Cancellieri e peccato per Previti, sventuratamente bloccato da Scalfaro).
L’Innominabile, uomo la cui coerenza è pari soltanto alla sua intransigenza, ha detto di condividere entrambe le mozioni (Bonafede carceriere, Bonafede scarceratore). Quindi non ne ha votata nessuna delle due perché poi, sennò, gli italiani avrebbero votato su di lui. La storia avrebbe potuto finire qui se il Rignanese non avesse voluto regalarci uno scampolo di autopsicanalisi come non se ne vedevano dai tempi d’oro del Cainano: un capolavoro di “proiezione”, “meccanismo di difesa per il quale il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri, aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso” (Treccani). Infatti il tapino ha attaccato un pippone col martirologio delle presunte vittime del giustizialismo grillino: “Se oggi votassimo secondo il metodo che Ella (Bonafede, ndr) ha utilizzato nei confronti dei membri dei nostri governi, lei (non più Ella, ndr) oggi dovrebbe andare a casa. Alfano, Guidi, Boschi, Lupi, Lotti… Ma noi non siamo come voi”. Ora, né Bonafede né alcun altro 5Stelle hanno mai fatto parte di governi del Pd, anzi stavano all’opposizione. Dunque mai ne hanno dimissionato alcun ministro, come invece minacciava di fare ieri col Guardasigilli lo Statista dell’Arno.
Invece fra i governi Pd c’è quello di Enrico Letta (2013-‘14). All’epoca l’Innominabile era sindaco di Firenze e candidato alle primarie Pd, di cui divenne segretario a fine anno. Il che non gli impedì di chiedere le dimissioni e appoggiare le mozioni di sfiducia di M5S, Sel e talvolta Lega contro quattro ministri del “nostro governo”: Josefa Idem (palestra spacciata per abitazione per pagare meno Imu); Angelino Alfano (sequestro Shalabayeva); Annamaria Cancellieri (telefonate per scarcerare la figlia di Ligresti); e Nunzia De Girolamo (scandalo Asl Benevento). La Idem se la cucinò il renziano Dario Nardella a Porta Porta: “Deve dimettersi come il ministro tedesco della Difesa, Guttenberg, per la tesi di dottorato copiata”. Gli altri tre li sistemò lo stesso Innominabile: “Le dimissioni della De Girolamo sono questione di stile”; “Se Alfano sapeva del sequestro Shalabayeva, ha mentito ed è un piccolo problema. Ma, se non sapeva, è anche peggio. Dimissioni”; “Sono per le dimissioni di Cancellieri indipendentemente dall’avviso di garanzia. L’idea che ci siamo fatti della vicenda Ligresti è che la legge non è uguale per tutti: se conosci qualcuno di importante, te la cavi meglio. È la Repubblica degli amici degli amici. Non è un problema giudiziario, ma politico: ha minato l’autorevolezza istituzionale e l’idea di imparzialità del Guardasigilli”.
Poi, previo “enricostaisereno”, al governo ci andò lui. E fece dimettere i suoi ministri Federica Guidi (Sviluppo Economico) e Maurizio Lupi (Infrastrutture e Trasporti). Non certo per una telefonata a Giletti. La Guidi era stata intercettata nello scandalo Tempa Rossa mentre piazzava un emendamento caro al suo compagno lobbista petrolifero che la usava come “una sguattera del Guatemala”. E Lupi aveva chiamato Ercole Incalza, capostruttura del suo ministero, per dirgli: “Deve venirti a trovare mio figlio”, al cui futuro occupazionale si erano interessati Incalza e l’imprenditore-appaltatore Perotti, il quale gli aveva pure regalato un Rolex da 10 mila euro. Poi il buon uso di licenziare i ministri per motivi etici e conflitti d’interessi, a prescindere dalla rilevanza penale, s’interruppe quando nei guai finirono i fedelissimi Lotti (inchiesta Consip), Boschi (scandalo Etruria) e Madia (tesi di dottorato plagiata). E il giustizialista di Rignano, anche per motivi familiari, si convertì al “garantismo”. Ora però ha rimosso tutto, infatti dice a Bonafede: “Noi non siamo come voi”. Ormai vive in stato di ipnosi, come Woody Allen ne La maledizione dello scorpione di giada, che indaga su una serie di furti di gioielli e poi scopre di averli rubati lui. In trance.