martedì 28 ottobre 2014

Il Giappone senza centrali da un anno: come se la cava? - Luca Scialò



Buon compleanno al Giappone senza centrali nucleari da un anno! 
Esattamente lo scorso 15 settembre, quando sono stati chiusi gli ultimi reattori in funzione. Una meta in fondo impensabile per un paese che ha fatto dell’energia nucleare il proprio punto di forza. Ma che si è visto costretto a rivedere i propri piani dopo lo tsunami del Tohoku dell’11 marzo 2011 e della successiva esplosione in sequenza di tre reattori della centrale di Fukushima.
D’altronde gli effetti di quell’incidente dureranno a lungo: la situazione della contaminazione nel sito della centrale è solo “vagamente” sotto controllo e non ci sono soluzioni definitive per lo smaltimento delle acque radioattive se non versarle (in maniera illegale) nelle acque dell’Oceano Pacifico. Per non parlare del fatto che l’esistenza di decine di migliaia di persone è ancora sconvolta, sia psicologicamente che economicamente, dal tragico incidente.
E come sta facendo ora per l’energia un Giappone senza centrali? Attraverso interventi di efficienza negli usi dell’elettricità e, in modo minore ma significativo, investendo nella crescita delle rinnovabili assieme ad un aumento dell’uso del gas naturale.
Il Paese del Sol Levante cerca di produrre energia anche ricorrendo alle rinnovabili; le installazioni di pannelli fotovoltaici, ad esempio,hanno un sistema di incentivi solo nel 2012, ma sono quest’anno esplose, diventando seconde solo al record cinese. Con le energie alternative, pulite e rinnovabili, i giapponesi adesso producono lo stesso quantitativo delle tre centrali nucleari e l’obiettivo è arrivare al 40% dell’elettricità totale.
Questa nuova gestione dell’energia ha portato anche benefici economici. Il risparmio è stato di 1.700 miliardi di yen (125 milioni di euro). In totale, si tratta di poco meno di 12,3 ossia il valore dell’energia elettrica prodotta in un anno da 13 reattori nucleari. Non male per un Paese che non ha fonti combustibili…
Le tragedie devono servire anche a questo: da occasione per non commettere più certi errori.

domenica 26 ottobre 2014

Falange Armata, romanzo criminale dal delitto Mormile alla Uno bianca. - Giuseppe Pipitone

Falange Armata, romanzo criminale<br>dal delitto Mormile alla Uno bianca

La prima puntata dell’inchiesta sulla sigla oscura che per un lustro rivendica ogni singolo atto criminale della strategia stragista: dai delitti della Banda della Uno Bianca, fino agli eccidi di Cosa Nostra.

Questa è una storia di omicidi e stragi, di patti tra pezzi dello Stato e associazioni criminali, di boss di Cosa Nostra che imbucano lettere per rivendicare i loro delitti, di presidenti del consiglio che rivelano in Parlamento l’esistenza di organizzazioni militari clandestine. Una storia che lascia traccia di sé nei comunicati inviati ai giornali, nelle voci metalliche che telefonano alle agenzie di stampa, nelle rivendicazioni di delitti che partono dal profondo nord, si fermano in Emilia Romagna, dove imperversa la banda della Uno Bianca, e sbarcano in Sicilia seguendo la scia di sangue tracciata dagli eccidi targati Cosa Nostra. Una linea della palma al contrario, che semina terrore, panico e confusione, e che alla fine ha sempre la stessa sigla: Falange Armata. Due parole che suonano minacciose, che strizzano l’occhio all’estremismo della destra eversiva – la Falange era il partito fondato in Spagna negli anni ’30 dal militare José Primo de Rivera – e che presto rimangono impresse nella memoria di chi inizia a leggerle sui giornali. Perché quelle due parole, Falange Armata, sui quotidiani e sui tg ci finiscono sempre più spesso, ogni volta che su e giù per lo stivale mitra e tritolo vengono azionate seminando morte. Chi ci sia dietro quella firma di terrore che per un lustro rivendica ogni singolo atto criminale della strategia stragista è un mistero, come un mistero rimane ancora oggi cosa sia nel dettaglio la Falange Armata. Perché la sigla oscura torna alla ribalta nell’ottobre 2013: una lettera spedita nel carcere milanese di Opera al capomafia Totò Riina con l’invito a “chiudere la bocca” per il boss corleonese. Un messaggio inquietante dato che in quei mesi il capo dei capi viene intercettato dalla Dia di Palermo mentre si lascia andare a rivelazioni inedite con il compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. Stralci di quelle conversazioni finiranno sui giornali soltanto alcune settimane dopo: gli estensori di quella missiva come fanno quindi a sapere che Riina viene ascoltato in carcere dai pm palermitani? Un interrogativo ancora oggi al vaglio degli inquirenti, particolarmente colpiti dal fatto che la Falange sia tornata a farsi sentire dopo vent’anni esatti di silenzio.
Gli esordi del terrore: da Mormile, alla Uno Bianca 
Indicata all’inizio come un’organizzazione terroristica creata per destabilizzare il Paese, la Falange esordisce quando mette la firma sull’esecuzione di Umberto Mormile, educatore nel carcere milanese di Opera, ucciso a colpi di pistola l’11 ottobre del 1990, da un commando in motocicletta, mentre sta andando a lavoro con la sua automobile. Per quell’omicidio sarà poi condannato il boss della ‘Ndrangheta Domenico Papalia, all’epoca recluso a Opera, deluso dal fatto che Mormile, dopo aver intascato denaro, lo avesse abbandonato senza procurargli i benefici carcerari promessi. Un nome, quello di Papalia, che ricomparirà più volte tra i rivoli di mistero dei primi anni ’90: a citarlo è il boss mafioso Nino Gioè, nella lettera lasciata in carcere prima che i secondini lo trovassero morto nella sua cella cella; diranno poi che si trattò di suicidio, mentre ancora oggi sono molti i punti di domanda che si annidano sulla fine del boss di Altofonte. Oltre alla lettera di Gioè, Papalia compare anche in un’informativa della Dia nel 1994, dove è indicato tra gli ‘ndranghetisti che a Milano erano in contatto con ambienti legati alla Massoneria, forse con Licio Gelli in persona. Papalia, però, non è l’unico personaggio interessante coinvolto nell’esecuzione di Mormile. Secondo le prime piste investigative imboccate all’epoca, un ruolo nell’esecuzione dell’educatore carcerario lo gioca Angelo Antonio Pelle, lo ‘ndranghetista che nel 2004 finirà nella lista allegata al Protocollo Farfalla: d’accordo con il Dipartimento d’amministrazione penitenziaria, il Sisde allora guidato daMario Mori metterà a libro paga a otto boss detenuti, che diventeranno confidenti dei servizi in cambio di denaro. Corsi e ricorsi di una storia che nell’aprile del 1990 deve ancora cominciare.
L’atto primo va in scena precisamente il 27 ottobre 1990 quando al centralino dell’Ansa di Bologna arriva una strana telefonata che rivendica l’assassinio di Mormile, ammazzato ormai sei mesi prima: “Il terrorismo non è morto, ci conoscerete in seguito” dice al telefono una voce, che sembra voler tradire appositamente un accento tedesco. In coda alla comunicazione c’è la firma letta al telefonista: Falange Armata Carceraria. Quella prima rivendicazione è importante per due motivi: l’estensione nella sigla, quel “Carceraria”, utilizzata per prendersi la responsabilità dell’assassinio proprio di un educatore di detenuti, che poi sparirà presto dalle rivendicazioni di morte dei falangisti; il dato più rilevante però è il tempo: tra l’omicidio Mormile e la telefonata all’Ansa, passano ben sei mesi. In quei giorni, l’opinione pubblica italiana è in fibrillazione perché il 24 ottobre l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti interviene alla Camera dei Deputati, rivelando l’esistenza di Gladio, l’evoluzione di Stay Behind, l’organizzazione militare segreta costituita in ottemperanza al Patto Atlantico. Andreotti alla Camera definirà Gladio come “un’organizzazione di informazione, risposta e salvaguardia”. Passano 72 ore e sulla scena italiana compare la Falange, rivendicando un fatto di sangue accaduto parecchi mesi prima. Complice il caos mediatico suscitato dalle ammissioni di Andreotti, però, quella prima telefonata dei falangisti. non lascia particolare segno.
Risonanza maggiore avranno le rivendicazioni successive dei falangisti, che dopo qualche mese si spostano un po’ più a sud, sulla via Emilia, dove dalla fine degli anni ’80 la Banda della Uno Bianca semina terrore e morte a buon mercato. Il 4 gennaio del 1991, la banda guidata dai fratelli Savi massacra tre carabinieri di pattuglia al quartiere Pilastro a Bologna; 24 ore dopo, questa volta puntualissima come se il sistema fosse ormai rodato, arriva la rivendicazione della Falange, che come sempre conclude i suoi comunicati con quel leit motiv inquietante :“Il terrorismo non è morto, ci conoscerete in seguito”. In seguito, però, arriverà solo una perizia della balistica che indicherà come una delle pistole utilizzate dalla Banda della Uno Bianca nella strage del Pilastro sia la stessa che ha messo fine alla vita di Mormile un anno prima: una connessione che rimarrà soltanto agli atti, dato i due omicidi non sono mai stati messi in relazione. E in comune hanno soltanto quella voce metallica, che tenta di depistare le indagini, di confondere i mass media e seminare terrore. Poi, dopo il Pilastro la Falange scompare: o meglio, scende ancora più a sud, in Sicilia.

Prima puntata – Continua 

Ecco chi c'è dietro la Leopolda: raccolti quasi 2 milioni di euro.



Manca una settimana alla prossima Leopolda, la convention dei renziani organizzata dalla Fondazione Open e che vede in prima linea Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai.
Ma da dove arrivano i 300mila euro necessari a mettere in piedi la manifestazione? Come spiega La Stampa, la fondazione ha già raccolto 2 milioni di euro che provengono soprattutto da alcuni personaggi che gravitano attorno al premier. Primo finanziatore è Davide Serra, che avrebbe tirato fuori 175 mila euro, seguito da Guido Ghisolfi - proprietario dell’azienda chimica Mossi e Ghisolfi -  che avrebbero già sborsato 120 mila euro. Ci sono poi una serie di aziende, come quella alimentare Gf Group (50 mila euro), quella immobiliare Blau Meer srl o Simon Fiduciaria nel cui consiglio c'è Giorgio Gori (20mila euro a testa). 60mila euro arrivano poi dall'imprenditore di Isvafim Alfredo Romeo, mentre il banchiere d'affari Guido Roberto Vitale ha donato 5 mila euro.
E poi ci sono i grandi nomi. Come quello di Fabrizio Landi (10mila euro), fresco di nomina in Finmeccanica e considerato tra i pionieri del business biomedico in Italia, oltre a uno dei nomi forti che avrebbero aiutato l'ascesa di Renzi. O come il finanziere Carlo Micheli o l'azienda di telefonia Telit, Paolo Fresco e la signora Marie Edmée Jacquelin, Renato Giallombardo (uno degli esperti italiani in fusioni, acquisizioni, operazioni di private equity), Jacopo Mazzei fino al manager tv Antonio Campo dall’Orto. 

Davide Serra supera a destra Renzi: "Limitare il diritto di sciopero"

Davide Serra supera a destra Renzi: "Limitare il diritto di sciopero"

Le "Cayman" (come avrebbe detto Pier Luigi Bersani) entrano nel Pd di Renzi. Il finanziere Davide Serra, numero uno di Algebris Investments e noto sostenitore del premier annuncia di aver fatto domanda per iscriversi al Pd. "Sì ho fatto richiesta della tessera” dice ai giornalisti che lo seguono ovunque nel salone della Leopolda.
Gli chiedono della manifestazione dei sindacati a San Giovanni e lui parte all'attacco: “Dipende dall'obiettivo, se vogliono creare posti di lavoro o disoccupati: se vogliono aumentare i disoccupati facciano lo sciopero generale. Se avessero voluto aiutare i propri figli a creare un'azienda o trovare un posto di lavoro probabilmente avrebbero fatto meglio a dare una mano, fare qualcosa, venire qui a trovare un po' di idee, piuttosto che andare sempre a recriminare”.
Dice che il Jobs Act gli piace, ma che il governo dovrebbe avere il pugno più duro coi sindacati: “Il Jobs act mi piace tutto perché mette flessibilità all'entrata e all'uscita. Se tu non hai flessibilità all'uscita, non ce l'avrai mai all'entrata, dovessi firmarlo lo firmerei, potrebbe essere fatto un pelo più aggressivo". Cioè?: “Il diritto di sciopero dovrebbe essere molto regolato, prima che tutti lo facciano random. Se volete scioperare, scioperate tutti in un giorno. In caso contrario chi deve venire domani a investire non ci viene”. 

http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11712502/Davide-Serra-supera-a-destra-Renzi.html


I "FAVOLOSI" GUADAGNI DI DAVID SERRA NON SONO POI COSÌ FAVOLOSI. ANZI - NON È CASUALE IL COMIZIO FINALE DI RENZI A SIENA. (art. 20 nov. 2010)

I contradaioli di Siena che ogni giorno leggono i "Financial Times" nei bar della piazza del Palio non vedono l'ora di assistere al comizio con il quale Matteuccio Renzi metterà fine al suo tour per le primarie.
MPS LINGRESSO DI ROCCA SALIMBENI SEDE DEL MONTE DEI PASCHI DI SIENAMPS LINGRESSO DI ROCCA SALIMBENI SEDE DEL MONTE DEI PASCHI DI SIENA
La scelta della città da parte del giovane rottamatore non è casuale e lui stesso ha ammesso il desiderio di dire qualcosa su MontePaschi, la roccaforte della finanza vicina al Pd nazionale e locale.
Da parte loro i contradaioli si aspettano battute al vetriolo nei confronti di Alessandro Profumo, l'ex-boyscout genovese che adesso ha le redini della banca più antica d'Italia, e, tra una bestemmia in dialetto toscano e un'occhiata al quotidiano inglese, si interrogano per capire fino a che punto l'avversario di Bersani vorrà dare un'impronta finanziaria al suo comizio.
MATTEO RENZI E MOGLIE AGNESEMATTEO RENZI E MOGLIE AGNESE
I rappresentanti del Bruco, della Civetta, dell'Oca e delle altre 14 contrade sperano che Renzi non si porti dietro lo scrittore Baricco e nemmeno Pietro Ichino, quel giurista milanese 63enne e terribilmente ondivago che muore dalla voglia di fare il ministro del Welfare.
Sperano invece che sul palco ci sia Davide Serra, il piccolo Gordon Gekko che dopo aver lavorato in Morgan Stanley nel 2007 ha messo in piedi il fondo Algebris. Di quest'uomo i contradaioli sanno tutto. Sanno che ha tre figli, vive a Londra e ai rolex d'oro massiccio preferisce un Polar di plastica che gli serve anche per misurare le frequenze cardiache quando corre ad Hyde Park insieme ai barboni della City.
DAVIDE SERRADAVIDE SERRA
Lo seguono fin da quando Serra aveva 36 anni e si permise di sparare cannonate nella cattedrale delle Generali nei confronti del vecchio presidente Antoine Bernheim. Agli occhi dei contradaioli la polemica scoppiata nei giorni scorsi sui 10 milioni di CoCo bond di Algebris acquistati dalla Cassa di Risparmio di Firenze è semplicemente miserabile ,e quando ieri sera nel salottino della Gruber Renzi ha detto che si tratta di "solo fango per colpirmi", hanno battuto le mani e alzato i calici con la stessa intensità con cui durante la convention di tre giorni alla Leopolda il giovinotto ha ironizzato sul "lupo cattivo" del fondo Algebris. Adesso sperano che il sindaco fiorentino renda il giusto omaggio all'amico finanziere che sicuramente qualche sterlina deve averla messa nella costosa campagna elettorale per le primarie.
alessandro profumoALESSANDRO PROFUMO
Nei bar di piazza del Palio preferiscono ignorare che molti milioni gestiti da Serra provengono dall'Enasarco, un ente nel mirino della Corte dei Conti, che non è proprio una casa di vetro come ha dimostrato lo scandalo che travolse l'ex-presidente di Confcommercio Billè. Ben più eloquente e ammirevole è stato il "Financial Times" quando nei giorni scorsi ha scritto un articolo meraviglioso sui prodigiosi profitti che Serra ha ottenuto grazie ai CoCo bond, strumenti così sofisticati e complessi da somigliare ai sub-prime.
In quell'articolo si leggeva che Serra aveva battuto tutti i concorrenti che gestiscono hedge fund con queste obbligazioni convertibili che quest'anno hanno portato a un guadagno "favoloso" del 45%, cioè circa dieci volte di più della media degli altri gestori.
Come sempre accade anche tra i contradaioli c'è il classico rompicoglioni che non si accontenta dell'elogio sperticato pronunciato dalla Bibbia del giornalismo finanziario.
PRESENTAZIONE DAVIDE SERRA ALGEBRISPRESENTAZIONE DAVIDE SERRA ALGEBRIS
Ed ecco allora che il rompicoglioni tira fuori dalle tasche un articolo pubblicato il 10 febbraio sul "Wall Street Journal" in cui si legge testualmente che nel 2011 il fondo Algebris di Serra ha perso il 30% soprattutto a causa delle scommesse europee. A questo punto i contradaioli chiamano un cameriere e su un tovagliolino di carta si fanno due conti: se è vero che il fondo dei CoCo bond lanciato nel 2011 ha perso l'anno scorso il 30% allora occorre fare la media con il guadagno del 45% di quest'anno e si arriva a un rendimento di 1,5% in due anni.
Anche questo - come la vicenda dei 10 milioni dell'ente Cassa di Risparmio di Firenze - può sembrare un argomento miserabile, ma a Siena si aspettano che Renzi dica una parola chiara sull'algebra di Algebris.

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/favolosi-guadagni-david-serra-non-sono-poi-cosi-favolosi-46973.htm

sabato 25 ottobre 2014

Il vaccino contro Ebola scoperto 10 anni fa, ma produrlo non conveniva alle case farmaceutiche.



Quasi dieci anni fa, un gruppo di scienziati canadesi e americani avrebbe scoperto un vaccino che era al 100% efficace contro il virus ebola, ma da allora non se n'è saputo più nulla e nel frattempo quasi 5.000 persone sono morte in Africa occidentale nell'epidemia in corso. E' quanto scrive il New York Times.
I risultati della scoperta furono pubblicati per la prima volta dalla prestigiosa rivista Nature, e le autorità sanitarie li definirono "entusiasmanti". I ricercatori sostenevano che i dopo gli opportuni test, il vaccino sarebbe potuto arrivare sul mercato entro il 2010 e il 2011. Perché dunque è finito tutto nel dimenticatoio?
Secondo quanto scrive il New York Times, lo sviluppo del vaccino (avvenuto nei laboratori di un'istituto di Winnipeg, in Canada) è stato bloccato per due motivi: in parte per il fatto che 10 anni fa Ebola non era ancora un'epidemia tale da conquistare le pagine di tutti i giornali, con al massimo qualche centinaia di infettati fino a quel momento. Ma il problema principale è stato economico: le grandi compagnie farmaceutiche si sono sempre rifiutate, infatti, di investire somme ingenti su medicine destinate solo a qualche Paese povero e a poche centinaia di pazienti.
"Non c'è mai stato un grande mercato per il vaccino dell'Ebola", ha raccontato al Nyt Thomas Geisbert, dell'University of Texas. Secondo gli esperti, la sola ricerca costa diversi milioni di dollari, che salgono a centinaia quando si tratta di arrivare ai primi test sugli esseri umani, e ad almeno un miliardo di dollari al momento di arrivare sugli scaffali. E nessuna grande azienda è disposta a spendere tali cifre facilmente. "La gente investe per riavere poi i soldi indietro", spiega James Crowe, direttore del centro ricerca vaccini della Vanderbilt University.

http://www.articolotre.com/2014/10/il-vaccino-contro-ebola-scoperto-10-anni-fa-ma-produrlo-non-conveniva-alle-case-farmaceutiche/

Ecco perché dovremmo fare causa alla sinistra. - Fulvio Abbate



Dovremmo fare causa… 

Esatto, questa è un’invettiva dedicata ai molti che nel tempo ci hanno tolto il piacere d’essere di sinistra, dichiararci tali, con tutte le emozioni e l’incanto del caso, con tutte le parole che quel sentimento di appartenenza, nonostante la mediocrità dei gruppi dirigenti, ancora e comunque custodiva, l’invettiva muove dalla certezza consapevole che ormai stiamo andando in tanti, se non tutti, per la nostra strada solitaria e comunque irrinunciabile in nome dell’amor proprio e del rifiuto di ogni possibile delega, in nome di noi stessi, di più, di una sorta di doveroso auto-narcisismo politico ed esistenziale che ci spetta di diritto dopo avere visto ciò che sappiamo.
    
Già, dovremmo fare causa a chi, come dice la poesia di Brecht, vecchio scarpone teatrale che ritorna ormai soltanto come fantasma da tre soldi, non ha puntato il dito su ogni cosa chiedendo: e questo cosa mi significa? 

Dovremmo fare causa a chi ha permesso che i propri figli fossero assunti al telegiornale del servizio pubblico appaltato alla sinistra in quanto figli, in quanto protervi, in quanto garantiti, appunto, di sinistra, dovremmo fare causa ai loro “compagni” che li hanno difesi in quanto figli, dicendo “non è vero che sono stati assunti in quanto figli, ma perché sono bravi come i padri”; 

dovremmo fare causa a chi non ha ricordato che i padri sono riusciti a lasciare soltanto macerie dopo essersi inimicate le masse giovanili dopo il 1977; 

dovremmo fare causa a chi, ancora negli anni Novanta, continuava a difendere l’ottusità di Luciano Lama che non aveva proprio nulla da dire ai ragazzi, al primo nucleo sociale dei futuri precari; 

dovremmo fare causa a chi non ha speso una parola rispetto a un presidente della Repubblica che, già da ministro degli Interni, giunto al Viminale, rassicurò quegli altri dicendo “non siamo venuti a tirare fuori gli scheletri dagli armadi” (sic), quanto al resto, piena continuità, lì al Quirinale, con il conformismo lobbistico ufficiale; 

dovremmo fare causa a chi ha continuato a friggere le braciole o sfornare i tortelli alle feste di partito identificando quegli stand con il partito che non c’era più e non con le idee venute a depotenziare l’esistenza stessa di un bisogno d’opposizione; 

dovremmo fare causa a chi ha continuato a difendere ciecamente, ottusamente l’idea stessa del Partito senza intuire che il bisogno di un altro eros politico era arrivato fin dentro le sezioni; 

dovremmo fare causa a chi ha creduto e crede che tra conformismo e conformismo dal volto umano ci sia un’enorme differenza; 

dovremmo fare causa a chi dopo aver distrutto la sinistra in nome della “vocazione maggioritaria” si è messo a scrivere romanzi brutti e banali e a fare film terribili da invalidità permanente mentale, per giunta segnati da un’assenza totale di estro; 

dovremmo fare causa a tutti coloro che hanno fiancheggiato queste persone per ragioni di lobby, senza mai essersi dissociati dai discorsi da “terrazza” romana parlando di Juve e nutella; 

dovremmo fare causa a chi ha continuato a pensare che si dovesse andare comunque a votare perché c’erano ancora una volta i fascisti e poi i leghisti in agguato come licantropi; 

dovremmo fare causa a chi ha cercato di attribuire ogni colpa ai fascisti per salvare se stessi dall’evidenza delle proprie responsabilità e del proprio tentativo di mantenere lo status quo; 

dovremmo fare causa a chi ha lasciato soli i poveri vecchi partigiani lì in piazza, ormai quasi tutti morti, gli stessi che ogni 25 di aprile, se le gambe glielo permettevano, tornavano a Porta San Paolo a Roma per ricordare ciò che era stato, ciò che non poté davvero essere, ossia non la rivoluzione, bensì case scuole ospedali, diritti civili e giustizia; 

dovremmo fare causa a chi ha trovato inaccettabile, sempre per un senso di ottusa appartenenza, che qualcuno potesse pretendere le dimissioni immediate del sindaco di Genova e del presidente della Regione Liguria dopo l’alluvione in quanto “compagni”; 

dovremmo fare causa a quell’altro presidente di regione, non meno compagno negli intendimenti di alcuni, dopo averlo sentito ridere di un povero giornalista precario che faceva semplicemente il suo lavoro chiedendo lumi sui morti di tumore all’Ilva di Taranto, così al telefono con un giannizzero degli industriali padroni della città; 

dovremmo fare causa a chi prova a bloccare la nostra distanza ormai incolmabile dalla sinistra dicendo “e allora vuoi che vinca Berlusconi?”; 

dovremmo fare causa a chi in tutti questi anni ha cercato di attribuire a Berlusconi ogni male affinché non fosse evidente la contiguità altrui con il Mostro, con il Puttaniere; 

dovremmo fare causa a chi ha permesso che una nuova classe dirigente di fighetti analfabeti di storia e senza fantasia alcuna si mettesse lì a dare lezioni di senso di responsabilità; 

dovremmo fare causa a chi continua a ridere delle battute di Maurizio Crozza; dovremmo fare causa a chi non si è mai posto la domanda sul perché in Italia, a sinistra, c’è una satira organica come quella di ElleKappa su “la Repubblica”; 

dovremmo fare causa a chi ha visto l’elezione di Laura Boldrini alla presidenza della Camera non come un naturale miracolo del “manuale Cencelli”, ossia spartitorio, bensì come una vittoria per le donne; 

dovremmo fare causa a chi non dice che da Eataly la pizza è di gomma e il guanciale pessimo; 

dovremmo fare causa a chi ha trovato in Matteo Renzi il nuovo alibi per giustificare le responsabilità dei suoi predecessori a sinistra; 

dovremmo fare causa a chi ha continuato a dare credito ai gruppi dirigenti per soggezione, come dire che questi hanno comunque una visione d’insieme e dunque, in una sorta di remixato centralismo democratico, pensano che non si debba mettere ogni cosa in discussione; 

dovremmo fare causa a chi ha cercato di convincerci che per realpolitik bisognasse sognare di meno ed essere più concreti; 

dovremmo fare causa a chi ha visto perfino con orgoglio che D’Alema facesse le regate con la sua barca; 

dovremmo fare causa a chi non voleva che D’Alema avesse una barca; 

dovemmo fare causa a chi ci ha tolto il fortino dove al posto degli indiani e i cowboy e il 7° Cavalleria avevamo messo i tutti i nostri irreali eroi – dalle guardie rosse all’assalto del Palazzo d’Inverno a Che Guevara; 

dovremmo fare causa a chi a breve ci farà due palle così con l’anniversario della morte di Pasolini dimenticando di dire che questi voleva “abolire” la televisione mentre il suo allievo e biografo Enzo Siciliano, mandato lì dall’amico Walter Veltroni, andò a fare il presidente della Rai, convinto di avere vinto la lotteria dell’orgoglio; 

dovremmo fare causa a chi si pone ancora la domanda sull’esistenza politica stessa di Marianna Madia, facendo finta di ignorare cos’è mai la continuità delle classi dirigenti solo perché il ministro siede a sinistra; 

dovremmo fare causa a chi pubblica i libri di Concita De Gregorio; 

dovremmo fare causa a chi legge i libri di Concita De Gregorio; 

dovemmo fare causa a chi recensisce i libri di Concita De Gregorio; 

dovremmo fare causa a chi compra “la Repubblica” per leggere le pagine sul cappero o il capitone o il lardo di Colonnata; 

dovremmo fare causa a chi continua a sperare che “l’Unità” mantenga un legame con i suoi carnefici, ossia il partito, anche se questo non è più, se non al momento del controllo delle opinioni; 

dovremmo fare causa a chi continua a nominare il partito; 

dovremmo fare causa ad Adriano Sofri perché non ha detto mai una parola sulla supponenza del proprio figliolo Luca; 

dovremmo fare causa ai titolari di certi locali radical-bidè dalle parti di piazza Mazzini a Roma, frequentati dalle facce più detestabili di questo mondo ufficiale, gli stessi che lì organizzano i palinsesti della Rai, facce la cui semplice vista ti porta a diventare nazista; 

dovremmo fare causa a chi ha sostituito ogni pensiero con il “daje!”; 

dovremmo fare causa a chi ha sostituito, non dico i “Grundrisse” di Marx, ma perfino le parole di un Riccardo Lombardi, di un Saragat, di un Tanassi perfino con un “state a rosicare”; 

dovremmo far causa perfino a certi ottusi da centro sociale che non hanno capito che l'età della pietra politica è finita; 

dovremmo far causa a chi fa satira in televisione, su Raitre, dando di gomito a “Gigi”, a “Massimo”, a “Waltere”, a “Matteo”, ossia coloro che gli hanno garantito lo spazio mediatico; 

dovremmo fare causa a noi stessi che ci poniamo ancora il problema dell’esistenza della sinistra invece di prendere e scappare lontano.

Resta da aggiungere però che tra i figli di papà presidenti della Repubblica, già di sinistra, e i figli di nessuno che sperano di guadagnare 400 euri al mese, noi staremo sempre dalla parte di questi ultimi, per naturale umana simpatia, per commozione. Perché, come diceva qualcuno, “ma l’amor mio non muore”, anche in forma anonima, perfino con le proprie bandiere comunque rosse senza più insegne.  

Gelmini, un nome una garanzia....



Lo ha dedotto dal fatto che non sapevamo che i neutrini attraversavano il suo tunnel carpale?


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