venerdì 8 febbraio 2019

Taglio parlamentari, primo ok Senato. Pd invoca ‘resistenza civile’. M5s: ‘Volevano lo Stato su misura, non meno costi’.

Taglio parlamentari, primo ok Senato. Pd invoca ‘resistenza civile’. M5s: ‘Volevano lo Stato su misura, non meno costi’

Il disegno di legge di riforma costituzionale ha superato il primo esame a Palazzo Madama (mancano ora altre tre letture). Il M5s auspicava l'accordo di tutte le forze politiche, ma i democratici hanno deciso di opporsi definendo il provvedimento "un attacco alla democrazia". In Aula si è presentato anche Luigi Di Maio: "Volevo godermi la scena. Renzi dimostra che non voleva tagliare i costi della politica, ma avere uno Stato su misura in cui fare l'imperatore". A favore Fdi e Forza Italia.

Il Senato ha dato il primo via libera a “tagliare se stesso”, ovvero a ridurre i parlamentari da 945 a 600. Ma nonostante sulla carta ci si aspettasse il voto unanime da parte dei partiti, che da sempre (chi più chi meno) si sono schierati per rivedere le composizioni delle Camere, ci sono stati 54 no e 4 astenuti. Hanno votato contro il ddl di riforma costituzionale i senatori di Leu e Pd. In Aula anche Luigi Di Maio: “Volevo godermi la scena”, ha scritto poi su Facebook. “Renzi dimostra che non voleva tagliare i costi, ma farsi uno Stato su misura in cui fare l’imperatore”. I democratici, che in un primo momento sembrava si dovessero astenere, hanno scelto di opporsi alla riforma che, hanno dichiarato, secondo loro “è un taglio alla democrazia”. La senatrice Simona Malpezzi su Twitter ha invocato “la resistenza civile”: “Volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, ha scritto, “invece lo stanno chiudendo per buttare via le chiavi e con esse la nostra democrazia. Altro che taglia poltrone al Senato, oggi hanno incominciato a tagliare la libertà dei cittadini. Vergogna, resistenza civile“. Il gruppo Pd al Senato sta anche valutando di fare ricorso alla Corte costituzionale dopo che sono stati dichiarati inammissibili gli emendamenti al ddl. I democratici avevano proposto di legare il taglio dei parlamentari alla trasformazione del Senato in una Camera delle Autonomie, ma la proposta è stata dichiarata inammissibile dalla presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. Di qui il loro no. In favore della legge hanno votato M5s e Lega, promotori del testo, ma anche Forza Italia e Fratelli d’Italia, che hanno motivato la scelta come “apertura di credito” alla maggioranza sul tema delle riforma, specificando che si richiederà una verifica nei passaggi successivi. Del gruppo delle Autonomie, a differenza di quanto sembrava in un primo momento, hanno votato contro Bressa e Casini. La Lega, con Calderoli, ha sottolineato piuttosto la maggior efficienza per due Camere più snelle: lo dimostra il fatto, ha detto, che già oggi il Senato fa le stesse cose della Camera con la metà degli eletti. “Il cavallo più magro corre di più”, ha affermato. Ma a parte un battagliero Calderoli la Lega è stata silente e non ha mandato nessuno dei suoi ministri in Aula.
Volevano aprire il come una scatoletta di tonno invece lo stanno chiudendo per buttare via le chiavi e con esse la nostra . Altro che : al oggi hanno incominciato a tagliare la libertà dei cittadini.
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In Aula per l’occasione, in sostegno di quella che da sempre è una delle leggi bandiera dei 5 stelle, si è presentato Luigi Di Maio. Il vicepremier M5s ha poi scritto su Facebook: “Servono altri tre passaggi per farla diventare legge”, ha detto. “Il Pd ha votato contro, dopo che per tre anni quel signore che non è neppure il caso di nominare (Renzi ndr.) ci ha trascinato in quella riforma dimostrando così che non gliene fregava niente di tagliare i costi della politica. Gli fregava solo una cosa: di costruirsi un modello di Stato su misura in cui lui poteva fare l’imperatore senza neanche andare a votare perché non aboliva il Senato ma aboliva il voto per i senatori, aboliva la possibilità di eleggere i nostro senatori”. Quindi ha concluso: “Oggi sono andato al Senato e mi sono voluto godere la scena, ho visto i senatori tagliare se stessi e ho visto quelli di Fi e Fdi dire ‘non siamo d’accordo però la votiamo’ dimostrando un minimo di sensibilità con il popolo italiano. Ma come al solito, allo stupore non c’è mai fine, ho visto il Pd votare contro”.
Sulla carta ci si aspettava che fossero tutti d’accordo. Come oggi questa maggioranza, in passato anche Partito democratico e prima ancora Forza Italia avevano proposto di ridurre il numero degli eletti se non di abolire proprio l’elezione del Senato. Ma, come emerso già chiaramente nelle scorse ore con le proteste del Pd che ha parlato di “assassinio della democrazia”, il voto unanime sul disegno di legge di riforma costituzionale auspicato dal ministro Riccardo Fraccaro resta un miraggio. La conferma è arrivata nella tarda serata di mercoledì 6 febbraio, quando i senatori democratici si sono incontrati e hanno ribadito la linea del no al provvedimento. L’approvazione all’unanimità avrebbe evitato il passaggio del referendum, non previsto in caso di consenso di due terzi dell’Aula in seconda lettura. Anche oggi il Partito democratico ha ribadito la contrarietà al provvedimento: “Di Maio annuncia una festa per la prima lettura del ddl che chiama taglia poltrone”, ha scritto su Twitter il capogruppo al Senato Andrea Marcucci. “State attenti perché non riducono il numero dei parlamentari, ma cominciano a tagliare la democrazia. E poi ultima festa del M5s è stata per legge bilancio, e poi il Pil è crollato”.
Hanno invece votato con la maggioranza Forza Italia e Fratelli d’Italia. Anche se non sono mancati i dissidenti. L’unico del gruppo a votare contro il ddl è stato l’azzurro Raffaele Fantetti. Il senatore, eletto all’estero, ha sottolineato che il taglio comporterebbe una sottorappresentazione dei cittadini italiani residenti all’estero. Si sono invece astenuti gli “azzurri” Sandro Biasotti, Stefania Craxi e Sandra Lonardo, nonché Isabella Rauti di Fdi. Non hanno invece preso parte al voto, annunciandolo in aula, Andrea Cangini (Fi) e Andrea De Bertoldi (Fdi). Hanno spiegato di essere contrari al testo, ma anche di evitare il “no” anche perché i loro gruppi hanno votato per il ddl come gesto di “apertura di credito” verso la maggioranza sul tema più ampio delle riforme, da verificare nei successivi passaggi.
Cosa prevede il ddl: confronto con le altre democrazie. Il provvedimento prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e del numero dei senatori eletti da 315 a 200: in totale da 945 a 600. Inoltre il numero dei senatori di nomina presidenziale non potrebbe essere superiore a cinque. La modifica costituzionale si applica dal primo scioglimento o cessazione delle Camere, ma non prima di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge. Il Pd ha parlato di “taglio della democrazia” mentre per Fi “serve solo a distruggere il Parlamento”. Negli Stati Uniti la Camera dei rappresentanti è composta da 435 membri e il Senato da 100. In Spagna i cittadini eleggono i membri del Congresso dei deputati (350) e 208 senatori su 266 totali. I francesi eleggono i membri dell’Assemblea nazionale, 577 deputati, mentre il Senato (che non vota la fiducia) ha 348 grandi elettori. Sistema simile in Germania, dove il Bundestag conta ben 709 eletti (ma è un numero variabile), mentre la Camera Alta, il Bundesrat, appena 69. Nel Regno Unito la Camera dei comuni, ramo dominante rispetto a quella dei Lord, conta 650 parlamentari.
E con il taglio parte la riforma per adeguare il Rosatellum. Dopo l’approvazione della riforma che taglia il numero di senatori e deputati, il Senato ha iniziato l’esame della legge elettorale che dovrebbe essere applicata in conseguenza della riduzione dei parlamentari, il cosiddetto Rosatellum ter. Il testo, presentato da M5s e Calderoli, prevede infatti di applicare l’attuale sistema elettorale – il Rosatellum – anche al caso di un minor numero di eletti nei due rami del Parlamento. Il disegno di legge contiene una delega al governo a ridisegnare i collegi che, ovviamente saranno meno numerosi e più grandi. La delega riguarda sia i collegi uninominali che quelli plurinominali proporzionali. Nella seduta odierna si svolgerà solo la discussione generale.

Focaccia barese.



Ingredienti:

300 gr. farina di grano tenero tipo "0" per impasto
200 gr. semola rimacinata di grano duro per impasto
100 gr. patate per impasto
200 gr. lievito madre per impasto
10 gr. sale per impasto
50 ml. olio extra vergine di oliva per impasto
300/350 ml. acqua per impasto
400 gr. pomodori ciliegino per condire
20 olive baresane in salamoia per condire
origano q.b per condire
olio extra vergine di oliva q.b per condire
sale q.b per condire
La focaccia è la merenda per eccellenza dei baresi. Non c’è un momento della giornata in cui è più giusto mangiarla, infatti nei panifici della città è pronta sin dalla prima mattina e il profumo che emana si diffonde per strada. La focaccia barese è lo snack per eccellenza nella città pugliese, si usa per sostituire il pranzo o la cena ma si mangia in qualsiasi altro momento della giornata, per “sfizio” e non è raro incontrare persone che la gustano tranquillamente per strada, costretti a fare attenzione perchè, ad ogni morso, si corre il rischio che il pomodoro possa cadere e macchiare i vestiti. I ragazzi la portano a scuola, avvolta nella carta oliata, per fare merenda durante l’intervallo oppure quando marinano le lezioni. Si porta in spiaggia e diventa il pasto di una lunga giornata passata al mare sotto l’ombrellone. E’ il pasto che viene consumato durante le partite di calcio viste in compagnia degli amici, accompagnata, in questo caso dall’immancabile mortadella. Insomma, da prima mattina fino a tarda sera la focaccia accompagna la giornata dei baresi. E’ difficile descrivere ogni sensazione gustativa che la focaccia barese trasmette, l’unico modo per comprendere quello che dico è entrare in un panificio di Bari e acquistarla appena sfornata oppure provare questa ricetta. (Testo di Sandro Romano – Console per il Sud Italia dell’Accademia Italiana Gastronomia Storica)

Istruzioni:

  1. Per preparare la focaccia barese, iniziate lessando una patata in acqua bollente, quindi pelatela e schiacciatela con uno schiacciapatate. Dopodichè versate la farina di grano tenero “0” e la semola rimacinata di grano duro nella tazza di una planetaria. Se non possedete una planetaria, versate in una ciotola per poi impastare a mano.
  2. Aggiungete anche la patata schiacciata, il sale ed il lievito madre in un pezzo unico da 200 gr. (Procuratevelo presso il vostro panettiere di fiducia. Ricordatevi che il lievito madre dovrà essere rinfrescato da almeno 4 ore).
  3. Incorporate un pò d’acqua e azionate la planetaria a bassa velocità, aggiungendo il resto dell’acqua a filo. Se vi accorgete di lavorare in un ambiente caldo vi consigliamo di aggiungere l’acqua molto fredda, altrimenti dovrà essere a temperatura ambiente. Per ultimo unite l’olio, che servirà a dare elasticità e croccantezza al prodotto.
  4. Dopo i primi 5 minuti aumentate la velocità della planetaria e continuate ad impastare per 15 minuti: bisognerà lavorare l’impasto finché non si staccherà bene dalla ciotola e risulterà completamente liscio ed elastico, cioè quando inizierà a “scoppiettare”, rumore che fa l’impasto quando si riempie di bolle e viene lavorato velocemente.
  5. Se vi accorgete che l’impasto fatica a staccarsi dalla ciotola potete aggiungere un pizzico di farina ai bordi della ciotola della planetaria per facilitare l’operazione. Fate attenzione a non aggiungere troppa farina per evitare di indurire troppo l’impasto.
  6. Una volta che l’impasto sarà pronto, staccatelo dal gancio. Oliate il piano di lavoro, che non dovrà essere di legno altrimenti l’olio lascerà una macchia indelebile, e sistemate l’impasto, rigirandolo per oliarlo da entrambi i lati. Lavoratelo quanto basta per formare due palline da circa 400 gr. l’una.
  7. Prendete un vassoio di media misura e oliatelo, aiutandovi con un pennello per cospargere meglio l’olio. E’ importante che il vassoio non sia troppo grande per far sì che le due forme di impasto siano vicine. La vicinanza ravvicinata, infatti, gli permetterà di crescere meglio. Dopodichè sistemate le palline di impasto nel vassoio oliato.
  8. Questa è la fase della lievitazione: lasciate l’impasto a temperatura ambiente, senza coprirlo, per circa 8-12 ore. Se vi trovate in un ambiente che supera i 20°, il vostro impasto lieviterà in 8 ore, se, invece, il vostro ambiente sarà tra i 15 e i 20° ci potranno volere anche 12 ore. Trascorso questo tempo noterete che il vostro impasto sarà lievitato e avrà formato una leggera crosticina in superficie.
  9. Per sapere se l’impasto è lievitato correttamente e non è collassato, occorrerà fare una prova: schiacciate leggermente la superficie dell’impasto con un dito, la pasta dovrà ritornare alla forma iniziale perché sufficientemente elastica.
  10. Ora che il vostro impasto è pronto, potete stendere e condire la focaccia: prendete una teglia del diametro di 32 cm e oliatela, spargendo l’olio in tutta la teglia con le mani o un pennello. Adagiatevi una pallina di impasto al centro, capovolgendola per oliarla da entrambi i lati, e schiacciate l’impasto con le dita per stenderlo fino a coprire l’intera superficie della teglia.
  11. Una volta steso l’impasto, rompete i pomodorini a metà con le mani per far colare tutto il succo e i semi e disponeteli rivolti verso il basso, fino a riempire tutta la superficie della focaccia. Mettete ora le olive, oliate nuovamente, aggiungete un pizzico di sale e dell’origano secco.
  12. Fate cuocere la vostra focaccia in forno statico (o ventilato) preriscaldato alla massima potenza per 20-25 minuti. L’ideale sarebbe 270°, ma se il vostro forno non arriva a questa temperatura basterà impostarlo alla massima potenza, di solito 250°. Se avete a disposizione una pietra refrattaria, posizionatela sul ripiano basso del forno e preriscaldate per almeno 40 minuti.
  13. Una volta sfornata, la focaccia dovrà risultare croccante e alta circa 1-1,5 cm.
(Ricetta del panettiere Giovanni Di Serio, Presidente del Consorzio della Focaccia Barese)

giovedì 7 febbraio 2019

Il festival di Sanremo di quest'anno, l'ho visto assieme a Giuseppe Sangiorgi e Antonio Lino Alessi. - Sofia Muscato

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Abbiamo ceci caliati, cannulicchi addimurati, citrosidina p'addicidiri e 120 anni, in tre.
È un gruppo d'ascolto sponsorizzato dalla Maico, in pratica.
Siamo così vecchi che conosciamo solo un quarto dei cantanti in gara.
Siamo così vecchi che a metà lettura del regolamento, uno di noi, non ce l'ha fatta ed è andato in rigor mortis.
Ad ogni modo, io rappresento la giuria demoSCOPICA, nel senso che darò valutazioni esclusivamente ormonali; Giuseppe rappresenta la giuria d'ODORE, nel senso ca a forza i ciciri, stamu murennu accutuffati e Lino rappresenta la giuria di QUANTITÀ, nel senso ca si pistiò na tonnellata di calia e semenza.
Infatti, certu, oj unn'agghiurnò.
Comunque.
Inizia Francesco Renga.
Io vorrei tanto concentrarmi sulle parole della canzone di Francesco Renga, ve lo giuro...
Solo che non sento niente.
Sarà la mia televisione che non va, anche perché lo schermo, nell'arco della serata, mi farsìa in continuazione.
Ma il problema vero è un altro.
Vedo Renga e penso ad Ambra.
Cioè, voglio dire, per me, Renga è come instagram per la Ferragni e il citofono per i Testimoni di Geova: impossibile da lasciare.
Ambra... ma tu sicura, sicura sei?
Ripensaci che Francesco nostro, con un acuto, ti resetta a livello nazionale, federale e continentale.
Quello, i triplete, li fa cantando-cantando.
Non come l'altro che, per triplete, c'è poco da stare Allegri!
Siparietto sulla giacca di Bisio.
AhahahHahhahaha AhahahHahhahaha
Ahahaffanculo.
È il momento di Nino D'Angelo e Livio Cori.
Livio Cori sussurra.
Non capisco una mazza.
Non capisco nemmeno chi è Livio Cori, s'è per questo, onestamente.
Giuseppe prova a regolare i volumi della mia tv, ma niente.
Livio Cori chi schifiu vulia diri, se lo sa lui.
Per fortuna che Nino D'Angelo si innesta sul partner con la grazia di un fruttivendolo che, mentre un moribondo emette un rantolo, attacca ad abbanniare:
"Peersecheee, percochee... haiu pira ca parinu puuumaaa... l'urtimi su!"
Insomma, si sposano bene: come la coca cola quando ci azzicchi dentro le mentos.
Intanto, il regista, mi fa vedere l'acconciatura del pianista.
Siccome l'ha inquadrata tredici volte in due minuti, deduco che sia di alto interesse artistico.
Forse che il ciuffo è Ionico?
Dorico? Corinzio?
Dobbiamo aspettare sabato, per capire.
Su Nek, che è pronto a non essere pronto, la giuria, che poi saremmo noi, si divide: la demoSCOPICA che, invece, è pronta a essere prontissima, lo promuove, anche perché è inutile ca'ntrizzamu e faciamu cannola: arrivateci voi a 50, a saltare come un grillo con l'incontinenza, con questa energia.
Io a trentaegnigni anni sono una lapa ingolfata che se si abbassa, la devono resettare col crick!
Dice: "Sì, ma la canzone?"
Ma chi ne sta capendo niente delle canzoni!
Nek si vive. Nek si gusta.
Per le altre due giurie, invece, non si fa nek questo, nek quello.
Commentano, impassibili: "Ma che nicche e Nek!"
#viddrani.
Intanto, ci accorgiamo che la platea si apre e si chiude, a ogni canzone.
Facciamo un minuto di silenzio per i fortunati delle prime file: Non è da tutti sborsare somme ingenti per essere sguazzariati e ammaraggiati tutto il tempo, attipu buttigghi di sarsa.
Questi diretti discendenti del popolo di Israele lo dovevano capire quando hanno trovato la travel gum sulla poltrona che, quest'anno, la pole position la pagavano in rovesci, apertura e chiusura delle acque.
Arrivano gli Zen Circus.
Devo capire se mi sembrano più vicini allo Zen o al Circus, onestamente.
Mi parinu piatusi, mischineddri.
Come corollario al pezzo hanno portato sul palco dei tamburini vestiti da S.S; gli sbandieratori di Arezzo e dei fantini, reduci dalle esalazioni di Napalm, in Vietnam.
Se la canzone fosse durata 2 minuti in più, per fare colpo sul popolo, nisciànu puru lu Crucifissu, la banda e i fuochi d'artificio.
Comunque, i Zen e l'arte della manutenzione della canzone di merda vengono asfaltati da "Il Volo".
Quindi, avogghia ca sti creaturi degli Zen mettono effetti speciali, cazzi e mazzi.
In Italia, tira più un acuto di tenore che un carro di buoi.
Se poi, il tenore è bono come il figlio di Bocelli, tira a prescindere, anche afono.
A proposito di Matteo e Andrea Bocelli: bello il passaggio di consegne.
Sotto quel giubbotto di pelle, già c'erano 30 gradi Farenheit, dopo la prima canzone del padre.
Dopo la seconda canzone del figlio, talmente era incadescente la temperatura ca scuvà puru lu Spiritu Santu.
Loredana Bertè ci piace.
Ha il fascino della fata turchina che si è congiunta a Vito Terremoto, un camionista della Salerno-Calabria.
È un essere mitologico per metà labbra e per metà cosce sode.
Un MINNEtauro persa nel labirinto dei gorgheggi di Giorgia.
È salita sul palco col borsello.
Vuol dire che, quest'anno, dietro le quinte, con Ghemon a li gira, gira, tutti si quartìano: sai com'è... da Ghemon a Lupin, il passo è breve.
E la canzone?
Boh.
Ho i volumi a minchia.
Non sento nulla.
Intanto, noi soffriamo per la mancanza di Vessicchio, disperso assieme agli autori di questa edizione di Sanremo...
E, in quella: Gag quartetto cetra.
AhahahHahhahaha
AhahahHahhahaha
Ahahamachedaverodaveroahò?
Da questo momento in poi, si va in volata.
Tra i big, ci ritroviamo una tale Federica Carta che canta assieme a Shade.
La giuria di QUANTITÀ si chiede:
"Ma chi big su?"
La risposta arriva subito, visto l'abbigliamento fucsia a paillettes di lei: "Sono Big Bubble".
Il caso è chiuso.
Paola Turci è vestita come l'anno scorso. Sospetto che sia rimasta chiusa all'Ariston per tutto questo tempo e, mischina, s'happ'a cunzari cu li robbi c'havia.
In ogni caso, duecento autori a canzone, e nessuno che sia riuscito a fare una colletta p'accattarici un reggiseno a la criatura.
#schefeo
Motta è un Ermal Meta che non ce l'ha fatta.
Ha l'umore di uno a cui hanno rubato l'auto prima che salisse sul palco o che, a fine esibizione, deve andare con Ghemon e gli Zen Circus a rapinare la Casa di Carta.
Come se assieme a Berlino e Tokyo, a sto giro, ci fosse pure Motta-Sant'Anastasia.
Con lui, la tv svalvola e va in distorsione cromatica.
E, in quella, le tre "scoppiettanti" giurie, capiscono che non è il mio televisore che è rotto: è la regia di Sanremo che è una merda.
Capiscono pure che non è il mio volume a non funzionare: sono i microfoni dell'Ariston a fare schifo.
Infatti tutti ci si attaccano e se li limonano senza pietà.
Quest'anno, Sanremo lo vince la Mononucleosi.
I Boomdabash si chiamano come un detersivo per capi colorati.
Hanno lo stile discreto e sobrio dei divani del Vescovo della Diocesi di Cefalù.
Uno ha pure la cricchia color rosso fuoco. Pare il padre di Chicken Little che è uscito da Casa Punk.
Austeri come il tovagliato della Sonrisa. #licani
Poi è il momento di Patty Pravo.
Se è lei.
Le giurie sono concordi nel ritenere che quella, in realtà, sia la figlia di Dracula di Bram Stoker e della militante di un centro sociale.
Per essere rasta è rasta: na "rasta" di basilicò, onestamente.
La canzone, comunque, non parte.
Ritardi clamorosi.
L'anno prossimo, meglio che si esibisca con SBriga...Se no facciamo notte...
Patty chiari amicizia lunga.
Cristicchi mi piace. Non c'è altro da aggiungere.
La super ospite Giorgia ha acuti e gorgheggi pazzeschi.
Indiscutibile la sua bravura.
Solo che dopo 10 minuti di esposizione ai suoi decibel, n'appimu a pigghiari un oki a testa.
AKiller Lauro, dirotta la canzone italiana verso il rap che non è trap.
È rock, punk, stiloso e bomba.
Pensate, io sono ancora ferma a Gino Latilla che era solo Gino e Latilla... che cazzo ne devo capire?
Arisa ha una canzone molto bella.
La prima strofa è da brivido.
Poi si trasforma in Dio è morto.
E se, visto l'orario, è morto lui, non è che noi stiamo messi tanto meglio...
Noi e quelli delle prime file che, a forza di fare, destra e sinistra, sono tutti svenuti due ore prima.
Dalle 00.00 in poi, è il momento di CeneRANTOLI!
Per la rubrica: "Ma cu cazzu su?" si esibiscono: Ghemon, Einar, Ex-Otago, Irama, Nigiotti e Mahmood ( io ho capito Mammut...per dire la mia soglia dell'attenzione...)
Le tre giurie sono vecchie.
Non ne conoscono manco uno.
In più, sentiamo puzza di merda e, visto che andiamo a ceci e semenza da una sera, per una volta, non è colpa delle canzoni.
Una sola cosa volevo dire a Einar che non sa con quali parole descrivere l'amore che non torna.
Einar, gioia mia, non c'è bisogno di sfurnisciariti e scrivere canzoni da 4 minuti.
Per descrivere l'amore che non torna, di parole ne bastano tre:
CARNE DI PORCO.
Sui Negrita siamo concordi. Sono unici per verve, spirito, presenza e ci piacciono. Anche picchì chisti, da bravi catananni che siamo, almeno sapiamu cu su! Abbonè.
Siamo concordi anche su Anna Tatangelo che ha melodie sempre nuove e original... no.
Non ce la possiamo fare, scusaci Gigi. Ci abbiamo provato.
Quest'anno, il Festival non è, particolarmente, interessante.
La parte bella, però, arriverà stasera quando dovrò comunicare, a mio padre, i nomi di tutti sti cantanti e, contestualmente, dovrò dirgli che di Vessicchio non c'è nemmeno l'ombra.
Statemi vicina, perché a stu giru mi disereda di riflesso.
E per questo anno, la vostra buona dose di Calia e SCEMENZA Sanremese, è stata servita.
Vi lovvai e #sortebuttana parapparappapapà, parapparappapapà, parapparappapapà, pararà
PERCHÉ SANREMO È SANREMO!

lunedì 4 febbraio 2019

Leggi incostituzionali.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

Questa legge è incostituzionale, perche disattende quanto sancito nella Costituzione all'art. 3 che recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese." ed è stata scritta, votata e varata da chi avrebbe dovuto eliminare e non creare gli ostacoli di ordine economico e sociale tra noi e loro; è oltremodo raccapricciante constatare che non venga presa in esame e messa in discussione dalla Corte Costituzionale perchè anche i componenti della medesima godono degli stessi diritti di chi ha creato la legge iniqua. Poi ci vengono a parlare di diritti acquisiti che non possono essere cancellati, eliminati in quanto tali... quando a noi ne hanno cancellati ed eliminati tantissimi, compreso quello di vivere dignitosamente... Hanno creato un divario abissale tra loro, i baciati dalla fortuna, e noi, i disadattati, i disagiati, sottomessi a chi dovrebbe lavorare per noi e per il nostro bene... E' per questo motivo che, quando andiamo a compiere il nostro dovere nelle urne, abbiamo l'obbligo morale di ponderare bene le nostre scelte, perchè da quel nostro gesto dipenderà il nostro futuro e quello dei nostri figli. Il loro grande inganno è farci credere che noi abbiamo solo doveri e nessun diritto, e che ciò che loro (scelti da noi per lavorare per noi, pagati da noi) decidono è l'assioma indiscutibile.... Cetta.

domenica 3 febbraio 2019

Perché Sì. - Marco Travaglio

Risultati immagini per salvini autorizzazione a procedere
Più crescono i 5Stelle contrari all’autorizzazione a procedere su Salvini nel caso Diciotti, più aumentano gli elettori e i simpatizzanti che ci scrivono inferociti e/o sconcertati per quello che considerano un tradimento imperdonabile e un suicidio di massa. E hanno almeno 10 buoni motivi per pensarlo.
1. Il premier Giuseppe Conte, da giurista, spiega che qui “l’immunità non c’entra nulla”. E ha ragione. Aggiunge: “Chi ha letto le carte sa che è stato un atto politico”. E anche questo è vero. Ma il fatto che un atto sia politico non implica che sia anche legittimo o lecito, né tantomeno che vada sottratto al giudizio della magistratura: altrimenti qualunque governo nazionale e giunta locale sarebbero autorizzati a violare impunemente le leggi con atti politici senza che i tribunali possano sanzionarli.

2. Ancora il premier: “Bisogna avere chiaro il quesito giuridico a cui saranno chiamati a rispondere i senatori: se Salvini abbia agito per il perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico inerente alla funzione di governo; o se abbia agito al di fuori del suo ruolo ministeriale per i suoi propri interessi personali”. E qui Conte ha ragione fino al punto e virgola.
Su quei 5 giorni di divieto di sbarco per i migranti dalla nave Diciotti, le possibilità non sono soltanto le due evocate da lui (Salvini ha agito o “per un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico inerente alla funzione di governo”, oppure “al di fuori del suo ruolo ministeriale per i suoi propri interessi personali”). Entrambe possono tranquillamente essere escluse, a vantaggio di una terza: cioè che Salvini, pur animato da finalità politico-istituzionali (richiamare l’Ue agli impegni assunti e all’accoglienza condivisa dei migranti) e non personali (i suoi interessi propagandistico-elettorali), abbia assunto una decisione discrezionale, per nulla obbligata da “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o da “un preminente interesse pubblico”.

Quale sarebbe infatti l’articolo della Costituzione che gl’imponeva di vietare quello sbarco? Quale catastrofe si sarebbe abbattuta sulla Nazione se i 177 migranti fossero sbarcati nel porto di Catania dopo un giorno o due anziché dopo cinque e avessero atteso nell’hotspot le decisioni degli altri Paesi Ue? Non è vero, dunque, che l’autorizzazione a procedere squalificherebbe la scelta di Salvini come “personale” consegnandolo a condanna sicura.
Il governo può difendere quella scelta e chi la firmò, ma senza spacciarla per un obbligo costituzionale né sottrarla al giudizio della magistratura. Anche chi scrive dubita che il caso Diciotti sia stato un sequestro di persona. Ma in uno Stato di diritto spetta ai giudici stabilirlo, non alla maggioranza parlamentare (di cui l’imputato fa parte). Salvini si difenda nel (e non dal) processo e porti le sue ragioni in tribunale, insieme alle testimonianze o alle autodenunce degli alleati. Ma nessuno crei un pericoloso precedente che potrebbe in futuro consentire a questo o ad altri governi di sottrarsi al giudizio dei magistrati.

3. Salvini usa il caso Diciotti per regolare i conti con la magistratura, a nome di tutto il vecchio centrodestra. B. lo aizza alla battaglia finale contro le odiate toghe rosse. Che lo stesso vicepremier accusa, copiando dall’armamentario berlusconiano, di “invasione di campo”, come se il Codice penale non fosse il loro campo. Intanto i suoi giannizzeri, fra cui il cosiddetto ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, raccolgono le firme in piazza, chiamando a raccolta il popolo leghista nei gazebo contro i magistrati. Una deriva eversiva che i 5Stelle – quelli di “onestà! onestà!” – devono denunciare, non assecondare.
4. I 5Stelle, Conte in primis, temono per la solidità della maggioranza e la tenuta del governo. Ma è improbabile che Salvini aprirebbe la crisi se facessero ciò che lui stesso auspicava fino a una settimana fa, cioè autorizzassero il suo processo: lo sa benissimo che gli italiani, inclusi i suoi fan, vogliono la stabilità e non il caos, men che meno il suo ritorno fra le braccia di B. Se rovesciasse il governo, sarebbe il primo a pagarne le conseguenze. In ogni caso, nessun governo vale il prezzo di una rinuncia ai valori indisponibili della legalità.

5. Un conto è la lealtà fra alleati, un altro è la complicità fra compari. Lealtà è sostenere che Salvini e tutto il governo non hanno sequestrato nessuno. Ma impedire ai giudici di stabilirlo sarebbe complicità. E sinora l’unico sleale con i partner è stato proprio Salvini, che tratta i 5Stelle come zerbini. Per cinque mesi si dice pronto a farsi processare. Poi, senza alcun preavviso, intima al M5S di salvarlo dal processo con una lettera al Corriere. Infine va a Porta a Porta a raccontare il falso, cioè di averli avvertiti. Tanto sa che il prezzo delle sue giravolte non lo pagherà lui, ma il M5S. Un “alleato” così scorretto merita a stento la lealtà, non certo la complicità.
6. Sul Tav, Salvini si comporta con la stessa slealtà del caso Diciotti. Firma, nel contratto di governo con i 5Stelle, l’impegno a “ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia eFrancia”. Poi se lo scorda e dichiara mille volte che il Tav si fa. Poi si rimette all’analisi costi-benefici degli esperti incaricati dal (suo) governo nella persona del ministro Toninelli. Poi manda i suoi parlamentari a marciare due volte in piazza con i Sì Tav, a braccetto con FI e Pd, cioè con gli oppositori del (suo) governo. Poi commissiona una controanalisi costi-benefici della Lega a presunti esperti in pieno conflitto d’interessi (lavorano per i costruttori) a base di dati farlocchi (“danni fino a 24 miliardi” se si bloccano i cantieri), come se lo studio del governo fosse roba di partito dei 5Stelle. Poi va in visita ai cantieri e spaccia un tunnel geognostico per l’opera vera e propria, fortunatamente mai iniziata, chiedendo di “completarla”. E intanto pretende lealtà dai 5Stelle. E qualcuno di loro vorrebbe pure dargliela: sindrome di Stoccolma?

7. Avendo già cambiato idea una volta, Salvini potrebbe cambiarla una seconda. Poniamo che in Giunta i 5Stelle votino no all’autorizzazione a procedere, perdendo faccia, consensi, parlamentari ed elettori. Chi garantisce che in aula, all’ultimo momento, Salvini non farà il beau geste di chiedere lui stesso il processo, scavalcandoli a sinistra e lasciandoli in brache di tela?
8. Da tutte le sue giravolte e provocazioni, si capisce benissimo che a Salvini del processo Diciotti importa poco o nulla: ciò che gli interessa è affermare che comanda lui, che il governo è cosa sua. E non perché ciò sia vero, come scrive falsamente fin dal primo giorno la stampa mainstream (ignorando che finora il M5S ha prodotto molte più leggi della Lega, ferma al ridicolo dl Sicurezza); ma proprio perché sa che è falso. Non riuscendo a far nulla e avendo tradito quasi tutte le promesse, punta tutto sulla sua immagine propagandistica di uomo forte e furbo che mette nel sacco tutti. Se i 5Stelle ci tengono a finire nel suo sacco, non hanno che da negare l’autorizzazione al suo processo.

9. Quando arrivò la richiesta di autorizzazione a procedere, Di Maio annunciò che il M5S l’avrebbe concessa. Può bastare il voltafaccia di Salvini per giustificare quello del Movimento? I sondaggi insegnano che gli elettori leghisti seguono Salvini in tutte le giravolte senza fiatare perché lo considerano “il capo”; invece quelli del M5S pretendono coerenza dai propri leader ed eletti, perché li considerano i propri “dipendenti”.
10. I 5Stelle hanno sempre ripetuto che il Movimento prescinde dagli eletti del momento (“uno vale uno” e tutti scadono dopo due mandati, compreso il capo politico). Ciò che conta sono il mitico “programma” e i valori retrostanti, dall’onestà alla legalità. Se gli attuali capi ed eletti pro temporesalvassero Salvini dal processo, non perderebbero soltanto la propria diversità e la propria innocenza, ma comprometterebbero quelle dell’intero movimento, invece di consegnarle intatte a chi verrà dopo di loro. Sempreché, dopo di loro, i 5Stelle esistano ancora.

Perchè i giovani fanno fatica a trovare lavoro in Italia. - Alberto Magnani

Il lavoro c’è, ma le aziende non scovano « profili adatti». La formazione conta, ma gli studenti si ostinano a disertare le discipline tecniche-scientifiche. O ancora: le posizioni di lavoro ci sono, e stabili, ma i «bamboccioni» si rifiutano di accettare retribuzioni di ingresso inferiori alle proprie aspettative. È il repertorio di ordinanza che si legge sul cosiddetto mismatch, il divario tra le richieste del mercato del lavoro e le competenze offerte dalle nuove generazioni.
A inizio gennaio, il bollettino Excelsior realizzato da Anpal e Unioncamere ha registrato che il 31% delle aziende riscontra «difficoltà di reperimento» per 1,2 milioni di contratti programmati nei primi tre mesi del 2019, con un fabbisogno insoddisfatto di figure tecniche, scientifiche e ingegneristiche. Un dato che fa effetto, se si considera che il tasso di disoccupazione giovanile resta - saldamente - superiore al 30%.
L’equazione suggerita, fra le righe, è che i giovani non riescono ad adattarsi al mercato perché non godono delle qualifiche adatte o disdegnano retribuzioni diverse dalle quelle pretese. Ma è tutto così semplice? Non proprio, almeno per quanto riguarda le competenze. Secondo dati Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in Italia circa il 40% dei lavoratori non sono compatibili con le qualifiche del loro impiego. Ma la sorpresa è che la quota di sottoqualificati (20%) è praticamente identica a quella dei sovra-qualificati (19%): lavoratori giovani, e meno giovani, con talenti che non riescono a essere assorbiti o valorizzati dal sistema delle imprese italiane. Per un professionista al di sotto delle attese dei datori di lavoro, ce n’è uno che si scontra su un sistema incapace di premiarlo.
High skilled, vade retro.
Il primo handicap deriva dal fatto che la richiesta di profili «high skilled», ad alto tasso di qualifiche, è meno fitta di quanto si potrebbe attendere. Per farsene un’idea basta osservare più a fondo gli stessi dati Excelsior. Il report sottolinea che le difficoltà di reperimento sono cresciute di 6 punti percentuali (dal 25% di gennaio 2018 al 31% di gennaio 2019), aggravandosi nella carenza di professioni specializzate e figure tecniche. Fra gli introvabili assoluti, si legge nell’indagine, spuntano gli specialisti di area scientifica e i tecnici in campo ingegneristico: i famosi profili di area Stem (science, technology, engineering, maths) che latitano dalle nostre scuole superiori e università. Quando si controlla però il totale di posizioni aperte nell’uno e nell’altro campo, emerge che le imprese hanno intenzione di attivare 4.690 contratti per gli specialisti di area scientifica e 7.720 per ingegneri e professioni assimilate: in totale si parla di 12.410 profili, il 2% dei 441.660 che dovrebbero essere contrattualizzati a gennaio.
Viceversa, tre categorie come personale non qualificato per le pulizie (30.870), addetti alle vendite (32.230), addetti alla ristorazione (38.780) incidono sul 23% delle posizioni ambite, quasi un caso su quattro. La domanda di tecnici non è, insomma, stringente come dovrebbe trasparire dagli annunci. Soprattutto se si considera che la materia prima non manca, a dispetto dei vari allarmi sul deficit di risorse Stem. Un report del Centro studi del Consiglio nazionale ingegneri ha registrato solo nel 2016 un totale di 44.336 laureati in ingegneria (20.007 di secondo livello, 24.329 di primo), in rialzo del 2,8% rispetto ai 43.137 del 2015. Se bastassero i numeri nudi e crudi, ci troveremmo di fronte al paradosso di un settore che fatica a trovare meno di 8mila candidati a fronte di una media di laureati annui pari a quasi sei volte. 
Il vero mismatch tra domanda e offerta.
La prima tesi è che le nostre imprese siano inadatte a sfruttare il potenziale dell’offerta di lavoro, soprattutto fra neolaureati e candidati giovani. «In Italia scontiamo una struttura produttiva e una domanda di lavoro poco qualificata, a fronte di un'offerta di lavoro molto qualificata. È questo il vero mismatch», spiega al Sole 24 Ore Giovanna Fullin, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro alla Bicocca di Milano. Le cause del divario? Sul basso livello degli impieghi offerti incide, prima di tutto, la dimensione media delle nostre imprese e il loro scarso slancio innovativo. Secondo dati Istat, in Italia si contavano 4.390.911 imprese nel 2016. Quelle di taglia micro, con un numero di dipendenti inferiore al 10, risultano 4.180.870: il 95,2% del totale, contro le appena 3.787 imprese di grande dimensione. Lo 0,08% del totale.
«Si tratta di società che, tendenzialmente, non hanno interesse ad assumere candidati di altro profilo - dice Fullin - Da qui anche i bassissimi valori degli investimenti nazionali in R&D, la ricerca e sviluppo. Un settore che garantirebbe la crescita dell’0ccupazione di qualità». Senza contare un altro gap, ma nel settore pubblico: la diminuzione di offerte di impiego nella Pa, che all’estero viene considerata uno tra i bacini privilegiati per un’occupazione di livello medio-alto. «All’estero la domanda di lavoro qualificata arriva soprattutto dalla Pa - dice - Qui, invece, le opportunità di lavoro anche nel pubblico impiego non hanno fatto altro che contrarsi».
Anelli (Bocconi): alcune lauree ’servono’ più di altre. Però...
Eppure, al tempo stesso, ci sono numeri che vanno in direzione contraria. Al di là delle statistiche Excelsior, e delle varie rilevazioni sui fabbisogni delle nostre imprese, è innegabile che alcuni corsi di laurea offrano ritorni più immediati dal punto di vista lavorativo. E si tratta quasi sempre di discipline di ambito tecnico-scientifico. Secondo dati Alma Laurea riferiti al 2017, il tasso di occupazione a cinque anni dal titolo dei laureati magistrali in ingegneria è pari al 90,1%, mentre la quota di disoccupati si ferma al 2,7% del totale. Nel gruppo letterario, a condizioni analoghe, il tasso di occupazione scende al 74,7%, mentre il tasso di disoccupazione lievita fino al 12,3%. Massimo Anelli, professore associato all’Università Bocconi, spiega che è «difficile non vedere» una correlazione fra scelta universitaria, prospettive di carriera e retribuzioni. In una sua indagine, Anelli ha provato a confrontare l’offerta di laureati fra Italia e Germania.
Risultato: «In Italia abbiamo la metà dei laureati in ingegneria, la metà dei laureati in economia, un quinto dei laureati in informatica - dice Anelli al Sole 24 Ore - E al tempo stesso più del doppio di laureati in scienze umanistiche e scienze sociale. E a 20 anni dal titolo, un laureato in economia può arrivare a guadagnare il 120% in più di un collega delle scienze umane». Certo, aggiunge Anelli, «si tratta di settori dove la ’trasferibilità’ delle competenze è molto elevata - dice - Quindi le nostre aziende fanno fatica a competere con le concorrenti internazionali e ad attrarre talenti: se un ingegnere può scegliere fra lavorare per 30mila euro lordi in una impresa italiana o per 60mila all’estero, dove andrà?».
Il problema: servono tecnici, ma di medio livello
L’effetto è straniante. Come spiega Fabio Manca, economista Ocse, «da un lato abbiamo una quota importante di lavoratori sovraqualificati - dice al Sole 24 Ore - Ma dall’altro resistono delle sacche di competenze che faticano ad essere trovate». Come è possibile? Forse, la chiave di lettura sta nel mezzo. Il nostro sistema economico può aver bisogno nell’immediato di tecnici, ma con un grado di qualifiche meno elevato di quello offerto dai nostri laureati (e dai laureati in generale). Secondo dati citati da Manca, oltre l’80% delle nostre piccole e medie imprese concentra la sua produzione su un unico bene, mentre le grandi imprese tendono nella quasi totalità dei casi alla diversificazione. Con un tessuto economico dominato da imprese medie, piccole e micro, è logico che la domanda di profili tecnici si riferisca a figure «con competenze tecniche, ma non necessariamente elevate come quelle di una laurea - spiega Manca - Ad esempio, basterebbero quelle di un istituto». E qui la palla torna, inevitabilmente, alla vecchia questione della transizione scuola-lavoro: il legame insussistente fra formazione e sistema delle imprese.
Due mondi che non dialogano e si guardano con sospetto, malgrado i vari tentativi di istituire - a parole - un sistema simile al meccanismo duale tedesco: il modello che permette agli studenti delle scuole tecnico-professionali di dividersi fra ore in aula e tirocini in azienda. Manca cita l’esperimento italiano dell’alternanza scuola-lavoro, voluta dall’allora governo Renzi con la legge 107 del 2015 e consistente nel far svolgere un certo numero di ore in azienda agli studenti di licei (200 ore) e, soprattutto, istituti tecnici e professionali. Il tentativo ha dato qualche risultato (secondo dati Almalaurea aumenta del 40,6% le chance di impiego) ma ha rilevato le sue fragilità applicative. «In Italia il rapporto scuola-lavoro non esiste, e quando esiste è conflittuale - dice Manca - La Buona scuola (la riforma che ha istituito il meccanismo dell’alternanza scuola-lavoro, ndr) aveva qualche buona intuizione, ma come spesso succede l’attuazione ha lasciato a desiderare. Ad esempio si è arrivato troppo presti sui licei e non si è dato abbastanza sostegno ai dirigenti scolastici». L’attuale governo Lega-Cinque stelle ha dimezzato il monte orario previsto dal programma.
Il nodo delle retribuzioni
L’unico aspetto che mette d’accordo (quasi) tutti è, anche, quello più evidente: le retribuzioni. Il mercato italiano soffre di un divario salariale rispetto agli altri paesi europei, incentivando quella «trasferibilità» dei lavoratori evocata da Anelli. Il gap tra gli stipendi offerti in Italia e all’estero è tanto discusso da sembrare un luogo comune. Non lo è. Gli ultimi dati Istat sul costo del lavoro mostrano un dato abbastanza scomodo per chi teorizza il «vittimismo» degli under 30 alla ricerca di un impiego compatibile con le proprie ambizioni. La retribuzione lorda oraria in Italia si attesta a 19,92 euro, sotto a una media Ue che si aggira fra i 20 e i 25 euro lordi l’ora, con picchi sopra i 25 euro in Germania e oltre i 35 euro in Danimarca. Non il biglietto da visita più accattivante, quando si entra in un mercato del lavoro.
Anche perché, come ha già scritto il Sole 24 Ore, la curva delle retribuzioni italiane tende a premiare quasi esclusivamente il fattore della seniority: lo stipendio si alza solo in base all’anzianità aziendale, raggiungendo i suoi massimi dopo i 50 anni e non nella fase di picco della produttività (in genere indicata fra i 30 e i 40 anni). Una visione “anagrafica” delle retribuzioni che sfavorisce la gratificazione economica dei lavoratori più giovani, tarpandone le ambizioni o la crescita effettiva in azienda. I numeri esorbitanti degli espatri derivano anche da qui, soprattutto se si affrontano le motivazioni che hanno indotto al trasferimento. Nel 2018 si sono registrati un totale di oltre 128mila cambi di residenza, con una quota del 37,4% del totale di età compresa fra i 18 e i 34 anni. Un’indagine Istat ha evidenziato che, sempre l’anno scorso, un totale di 28mila laureati ha lasciato il Paese, in rialzo del 4% rispetto al 2016. Il primo fattore di fuga sono le «condizioni negative del mercato del lavoro».

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