domenica 3 febbraio 2019

Perchè i giovani fanno fatica a trovare lavoro in Italia. - Alberto Magnani

Il lavoro c’è, ma le aziende non scovano « profili adatti». La formazione conta, ma gli studenti si ostinano a disertare le discipline tecniche-scientifiche. O ancora: le posizioni di lavoro ci sono, e stabili, ma i «bamboccioni» si rifiutano di accettare retribuzioni di ingresso inferiori alle proprie aspettative. È il repertorio di ordinanza che si legge sul cosiddetto mismatch, il divario tra le richieste del mercato del lavoro e le competenze offerte dalle nuove generazioni.
A inizio gennaio, il bollettino Excelsior realizzato da Anpal e Unioncamere ha registrato che il 31% delle aziende riscontra «difficoltà di reperimento» per 1,2 milioni di contratti programmati nei primi tre mesi del 2019, con un fabbisogno insoddisfatto di figure tecniche, scientifiche e ingegneristiche. Un dato che fa effetto, se si considera che il tasso di disoccupazione giovanile resta - saldamente - superiore al 30%.
L’equazione suggerita, fra le righe, è che i giovani non riescono ad adattarsi al mercato perché non godono delle qualifiche adatte o disdegnano retribuzioni diverse dalle quelle pretese. Ma è tutto così semplice? Non proprio, almeno per quanto riguarda le competenze. Secondo dati Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, in Italia circa il 40% dei lavoratori non sono compatibili con le qualifiche del loro impiego. Ma la sorpresa è che la quota di sottoqualificati (20%) è praticamente identica a quella dei sovra-qualificati (19%): lavoratori giovani, e meno giovani, con talenti che non riescono a essere assorbiti o valorizzati dal sistema delle imprese italiane. Per un professionista al di sotto delle attese dei datori di lavoro, ce n’è uno che si scontra su un sistema incapace di premiarlo.
High skilled, vade retro.
Il primo handicap deriva dal fatto che la richiesta di profili «high skilled», ad alto tasso di qualifiche, è meno fitta di quanto si potrebbe attendere. Per farsene un’idea basta osservare più a fondo gli stessi dati Excelsior. Il report sottolinea che le difficoltà di reperimento sono cresciute di 6 punti percentuali (dal 25% di gennaio 2018 al 31% di gennaio 2019), aggravandosi nella carenza di professioni specializzate e figure tecniche. Fra gli introvabili assoluti, si legge nell’indagine, spuntano gli specialisti di area scientifica e i tecnici in campo ingegneristico: i famosi profili di area Stem (science, technology, engineering, maths) che latitano dalle nostre scuole superiori e università. Quando si controlla però il totale di posizioni aperte nell’uno e nell’altro campo, emerge che le imprese hanno intenzione di attivare 4.690 contratti per gli specialisti di area scientifica e 7.720 per ingegneri e professioni assimilate: in totale si parla di 12.410 profili, il 2% dei 441.660 che dovrebbero essere contrattualizzati a gennaio.
Viceversa, tre categorie come personale non qualificato per le pulizie (30.870), addetti alle vendite (32.230), addetti alla ristorazione (38.780) incidono sul 23% delle posizioni ambite, quasi un caso su quattro. La domanda di tecnici non è, insomma, stringente come dovrebbe trasparire dagli annunci. Soprattutto se si considera che la materia prima non manca, a dispetto dei vari allarmi sul deficit di risorse Stem. Un report del Centro studi del Consiglio nazionale ingegneri ha registrato solo nel 2016 un totale di 44.336 laureati in ingegneria (20.007 di secondo livello, 24.329 di primo), in rialzo del 2,8% rispetto ai 43.137 del 2015. Se bastassero i numeri nudi e crudi, ci troveremmo di fronte al paradosso di un settore che fatica a trovare meno di 8mila candidati a fronte di una media di laureati annui pari a quasi sei volte. 
Il vero mismatch tra domanda e offerta.
La prima tesi è che le nostre imprese siano inadatte a sfruttare il potenziale dell’offerta di lavoro, soprattutto fra neolaureati e candidati giovani. «In Italia scontiamo una struttura produttiva e una domanda di lavoro poco qualificata, a fronte di un'offerta di lavoro molto qualificata. È questo il vero mismatch», spiega al Sole 24 Ore Giovanna Fullin, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro alla Bicocca di Milano. Le cause del divario? Sul basso livello degli impieghi offerti incide, prima di tutto, la dimensione media delle nostre imprese e il loro scarso slancio innovativo. Secondo dati Istat, in Italia si contavano 4.390.911 imprese nel 2016. Quelle di taglia micro, con un numero di dipendenti inferiore al 10, risultano 4.180.870: il 95,2% del totale, contro le appena 3.787 imprese di grande dimensione. Lo 0,08% del totale.
«Si tratta di società che, tendenzialmente, non hanno interesse ad assumere candidati di altro profilo - dice Fullin - Da qui anche i bassissimi valori degli investimenti nazionali in R&D, la ricerca e sviluppo. Un settore che garantirebbe la crescita dell’0ccupazione di qualità». Senza contare un altro gap, ma nel settore pubblico: la diminuzione di offerte di impiego nella Pa, che all’estero viene considerata uno tra i bacini privilegiati per un’occupazione di livello medio-alto. «All’estero la domanda di lavoro qualificata arriva soprattutto dalla Pa - dice - Qui, invece, le opportunità di lavoro anche nel pubblico impiego non hanno fatto altro che contrarsi».
Anelli (Bocconi): alcune lauree ’servono’ più di altre. Però...
Eppure, al tempo stesso, ci sono numeri che vanno in direzione contraria. Al di là delle statistiche Excelsior, e delle varie rilevazioni sui fabbisogni delle nostre imprese, è innegabile che alcuni corsi di laurea offrano ritorni più immediati dal punto di vista lavorativo. E si tratta quasi sempre di discipline di ambito tecnico-scientifico. Secondo dati Alma Laurea riferiti al 2017, il tasso di occupazione a cinque anni dal titolo dei laureati magistrali in ingegneria è pari al 90,1%, mentre la quota di disoccupati si ferma al 2,7% del totale. Nel gruppo letterario, a condizioni analoghe, il tasso di occupazione scende al 74,7%, mentre il tasso di disoccupazione lievita fino al 12,3%. Massimo Anelli, professore associato all’Università Bocconi, spiega che è «difficile non vedere» una correlazione fra scelta universitaria, prospettive di carriera e retribuzioni. In una sua indagine, Anelli ha provato a confrontare l’offerta di laureati fra Italia e Germania.
Risultato: «In Italia abbiamo la metà dei laureati in ingegneria, la metà dei laureati in economia, un quinto dei laureati in informatica - dice Anelli al Sole 24 Ore - E al tempo stesso più del doppio di laureati in scienze umanistiche e scienze sociale. E a 20 anni dal titolo, un laureato in economia può arrivare a guadagnare il 120% in più di un collega delle scienze umane». Certo, aggiunge Anelli, «si tratta di settori dove la ’trasferibilità’ delle competenze è molto elevata - dice - Quindi le nostre aziende fanno fatica a competere con le concorrenti internazionali e ad attrarre talenti: se un ingegnere può scegliere fra lavorare per 30mila euro lordi in una impresa italiana o per 60mila all’estero, dove andrà?».
Il problema: servono tecnici, ma di medio livello
L’effetto è straniante. Come spiega Fabio Manca, economista Ocse, «da un lato abbiamo una quota importante di lavoratori sovraqualificati - dice al Sole 24 Ore - Ma dall’altro resistono delle sacche di competenze che faticano ad essere trovate». Come è possibile? Forse, la chiave di lettura sta nel mezzo. Il nostro sistema economico può aver bisogno nell’immediato di tecnici, ma con un grado di qualifiche meno elevato di quello offerto dai nostri laureati (e dai laureati in generale). Secondo dati citati da Manca, oltre l’80% delle nostre piccole e medie imprese concentra la sua produzione su un unico bene, mentre le grandi imprese tendono nella quasi totalità dei casi alla diversificazione. Con un tessuto economico dominato da imprese medie, piccole e micro, è logico che la domanda di profili tecnici si riferisca a figure «con competenze tecniche, ma non necessariamente elevate come quelle di una laurea - spiega Manca - Ad esempio, basterebbero quelle di un istituto». E qui la palla torna, inevitabilmente, alla vecchia questione della transizione scuola-lavoro: il legame insussistente fra formazione e sistema delle imprese.
Due mondi che non dialogano e si guardano con sospetto, malgrado i vari tentativi di istituire - a parole - un sistema simile al meccanismo duale tedesco: il modello che permette agli studenti delle scuole tecnico-professionali di dividersi fra ore in aula e tirocini in azienda. Manca cita l’esperimento italiano dell’alternanza scuola-lavoro, voluta dall’allora governo Renzi con la legge 107 del 2015 e consistente nel far svolgere un certo numero di ore in azienda agli studenti di licei (200 ore) e, soprattutto, istituti tecnici e professionali. Il tentativo ha dato qualche risultato (secondo dati Almalaurea aumenta del 40,6% le chance di impiego) ma ha rilevato le sue fragilità applicative. «In Italia il rapporto scuola-lavoro non esiste, e quando esiste è conflittuale - dice Manca - La Buona scuola (la riforma che ha istituito il meccanismo dell’alternanza scuola-lavoro, ndr) aveva qualche buona intuizione, ma come spesso succede l’attuazione ha lasciato a desiderare. Ad esempio si è arrivato troppo presti sui licei e non si è dato abbastanza sostegno ai dirigenti scolastici». L’attuale governo Lega-Cinque stelle ha dimezzato il monte orario previsto dal programma.
Il nodo delle retribuzioni
L’unico aspetto che mette d’accordo (quasi) tutti è, anche, quello più evidente: le retribuzioni. Il mercato italiano soffre di un divario salariale rispetto agli altri paesi europei, incentivando quella «trasferibilità» dei lavoratori evocata da Anelli. Il gap tra gli stipendi offerti in Italia e all’estero è tanto discusso da sembrare un luogo comune. Non lo è. Gli ultimi dati Istat sul costo del lavoro mostrano un dato abbastanza scomodo per chi teorizza il «vittimismo» degli under 30 alla ricerca di un impiego compatibile con le proprie ambizioni. La retribuzione lorda oraria in Italia si attesta a 19,92 euro, sotto a una media Ue che si aggira fra i 20 e i 25 euro lordi l’ora, con picchi sopra i 25 euro in Germania e oltre i 35 euro in Danimarca. Non il biglietto da visita più accattivante, quando si entra in un mercato del lavoro.
Anche perché, come ha già scritto il Sole 24 Ore, la curva delle retribuzioni italiane tende a premiare quasi esclusivamente il fattore della seniority: lo stipendio si alza solo in base all’anzianità aziendale, raggiungendo i suoi massimi dopo i 50 anni e non nella fase di picco della produttività (in genere indicata fra i 30 e i 40 anni). Una visione “anagrafica” delle retribuzioni che sfavorisce la gratificazione economica dei lavoratori più giovani, tarpandone le ambizioni o la crescita effettiva in azienda. I numeri esorbitanti degli espatri derivano anche da qui, soprattutto se si affrontano le motivazioni che hanno indotto al trasferimento. Nel 2018 si sono registrati un totale di oltre 128mila cambi di residenza, con una quota del 37,4% del totale di età compresa fra i 18 e i 34 anni. Un’indagine Istat ha evidenziato che, sempre l’anno scorso, un totale di 28mila laureati ha lasciato il Paese, in rialzo del 4% rispetto al 2016. Il primo fattore di fuga sono le «condizioni negative del mercato del lavoro».

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2 commenti:

  1. Gian Franco Dominijanni
    Discorso molto articolato, conosco generazioni che pretendono di fare quello per cui hanno studiato. In Italia piaccia o meno, non funziona così. Altrove lavoro e piano di studi possono essere collegati, qui serve formazione, apprendimento, integrazioni, master, etc... etc...

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  2. Fede Vidou "Sull'argomento ci sarebbe molto da dire. I giovani non sono bamboccioni, lo sono solo i figli dei vip che senza alcuna preparazione ottengono lavori super pagati. Tutti gli altri sono costretti ad andare all'estero per potersi esprimere al meglio e per poter ottenere un equo e giusto trattamento economico e sociale" PROPRIO COSI' = ZERO MERITOCRAZIA!!!

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