lunedì 8 luglio 2019

Matteo Renzi condannato dalla Corte dei Conti della Toscana per danno erariale. E c’è un altro procedimento aperto.

Matteo Renzi condannato dalla Corte dei Conti della Toscana per danno erariale. E c’è un altro procedimento aperto

Da presidente della Provincia di Firenze, nel 2005, secondo i giudici contabili, aveva nominato un collegio di direzione invece di un singolo dg: "Deve 15mila euro allo Stato". E ha ricevuto un invito a dedurre per scelta di due collaboratori privi di laurea per il suo staff quando era sindaco di Firenze. Il suo legale: "Faremo appello. L'altro procedimento? Inspiegabile".

Matteo Renzi è stato condannato in primo grado dalla Corte dei Conti della Toscana per un danno erariale di 15mila euro. Da presidente della Provincia di Firenze, nel 2005, secondo i giudici contabili, aveva nominato un collegio di direzione provinciale invece di un singolo direttore generale. Con l’ex premier sono stati condannati anche i quattro dg e l’assessore al Bilancio in carica al momento della nomina. La Corte dei conti ha ritenuto accertato un danno erariale complessivo di 125mila euro, che era stato contestato anche al segretario provinciale dell’epoca, poi deceduto.

La magistratura contabile ha aperto anche un altro procedimento sul senatore ed ex segretario del Partito Democratico. Mercoledì, infatti, ha ricevuto dalla procura della Corte dei conti un invito a dedurre per un presunto danno erariale per la scelta di due collaboratori privi di laurea per il suo staff quando era sindaco di Firenze, fatti risalenti al 2009. In questo caso il presunto danno erariale attribuito a Renzi, coinvolto insieme ad altri due dirigenti, è di 69mila euro

“Abbiamo immediatamente predisposto appello come avvenuto in analoga circostanza in passato”, ha commentato l’avvocato di Renzi, Alberto Bianchi. “La condanna è avvenuta senza nessuna richiesta di condanna da parte della procura, e in presenza di una legge che esclude che possa essere sottoposto a giudizio un soggetto che, come nel caso di Matteo Renzi, era rientrato nel processo su ordine del giudice dopo che la procura ne aveva chiesto l’archiviazione”.
Quanto all’altro procedimento, Bianchi rileva che “già in passato la Corte dei Conti in appello ha smentito la ricostruzione giuridica della sede fiorentina in primo grado e ha stabilito come non vi sia necessità della laurea per le posizioni di staff del sindaco. Anche in questo caso peraltro è inspiegabile il coinvolgimento dell’organo politico in presenza dei visti amministrativi di regolarità”.

sabato 6 luglio 2019

Migranti, El Diario: “Governo spagnolo minaccia Open Arms con multe fino a 900mila euro se proseguono i salvataggi”.

Migranti, El Diario: “Governo spagnolo minaccia Open Arms con multe fino a 900mila euro se proseguono i salvataggi”


In un documento in possesso del quotidiano iberico, il direttore generale della Marina Mercantile ha inviato un messaggio al capitano della nave impegnata nel salvataggio di migranti nel Mediterraneo centrale elencando le possibili conseguenze in caso di violazione delle direttive.

Fino a 900mila euro di multa in caso di altri salvataggi nel Mediterraneo. È quanto, secondo El Diario, il governo di Madrid ha minacciato di infliggere alla ong spagnola Proactiva Open Arms nel caso in cui decidesse di “violare il blocco dell’esecutivo” socialista di Pedro Sánchez.  In un documento in possesso del quotidiano iberico, il direttore generale della Marina Mercantile ha inviato un messaggio al capitano della nave impegnata nel salvataggio di migranti nel Mediterraneo centrale elencando le possibili conseguenze in caso di “volontà di proseguire con i salvataggi”.
Non si tratta della prima volta. Già in precedenza, riporta il giornale spagnolo, l’organizzazione umanitaria si era vista recapitare avvisi che la intimavano a fermare le attività in mare. Ma si tratta, spiegano, del primo caso in cui il documento è stato firmato da Benito Núñez Quintanilla, il più alto rappresentante della Marina Mercantile e membro del ministero dello Sviluppo spagnolo.

Nel documento si specifica che “le operazioni di ricerca e salvataggio sono vietate, tranne nei casi in cui avvengano nella zona di search and rescue (Sar) di responsabilità nazionale e comunque sempre sotto il coordinamento delle autorità“. Inoltre, è anche vietato “svolgere operazioni di navigazione con lo scopo” di compiere salvataggi “o altre attività che potrebbero portare a tali operazioni” se non in possesso dei permessi delle autorità corrispondenti, cioè l’Italia o Malta. In poche parole, se salvataggio deve esserci questo deve avvenire in modo casuale e occasionale. Le operazioni di navigazione a scopo di pattugliamento non sono consentite. Nel caso in cui vengano riscontrate delle violazioni delle disposizioni, le autorità spagnole possono anche ordinare alla nave “il ritorno in porto”.
Per le “violazioni compiute durante la navigazione” le multe previste possono arrivare fino a 900mila euro, mentre per le infrazioni “contro la sicurezza marittima e l’ordine del traffico marittimo” il tetto massimo è di 300mila. È contemplata anche la possibilità della “sospensione del titolo professionale” per il capitano della nave in caso di “gravi infrazioni”.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/07/06/migranti-el-diario-governo-spagnolo-minaccia-open-arms-con-multe-fino-a-900mila-euro-se-proseguono-i-salvataggi/5303943/?fbclid=IwAR3rTcwaKlouxuPEO78J9YQTgV_AYWiO7bOWoMPvrxHTSBycMzj2YalB6AA

Arrestato all'aeroporto di Fiumicidio l'ex pm di Siracusa Longo.

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E' stato arrestato all'aeroporto di Fiumicino l'ex pm di Siracusa Giancarlo Longo. E' divenuta definitiva infatti la sentenza con cui il magistrato ha patteggiato la condanna a 5 anni, le dimissioni dalla magistratura e l'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici: pertanto la Procura di Messina, che lo indagò e lo fece condannare, ha emesso l'ordine di carcerazione per espiazione della pena. Longo deve scontare 4 anni, un mese e 20 giorni avendo già subito un periodo in custodia cautelare in carcere.

Longo era accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Il procedimento a suo carico, denominato 'Sistema Siracusa', nasce da una inchiesta dei pm della città dello Stretto, guidati da Maurizio De Lucia, competenti proprio per il coinvolgimento di Longo, che all'epoca delle accuse era in servizio alla Procura di Aretusea. L'inchiesta aveva al centro due avvocati, Piero Amara e Giuseppe Calafiore che, per anni, avrebbero pilotato indagini e fascicoli per avvantaggiare loro clienti di peso come i costruttori siracusani Frontino. Longo, in cambio di mazzette e regali, avrebbe messo a disposizione la sua funzione di magistrato condizionando l'andamento dei procedimenti penali. Dopo l'arresto Calafiore ed Amara hanno cominciato a collaborare con i pm. Le loro dichiarazioni hanno portato all'apertura di altre indagini tra le quali quella sull' ex giudice del Cga siciliano Giuseppe Mineo, accusato di corruzione in atti giudiziari e ritenuto un pezzo di quel "sistema Siracusa" finito al centro dell'inchiesta, e all'inchiesta per finanziamento illecito ai partiti dell'ex senatore di Ala Denis Verdini.


https://www.nuovosud.it/articoli/94892-cronaca-siracusa/arrestato-allaeroporto-di-fiumicidio-lex-pm-di-siracusa-giancarlo?fbclid=IwAR2_4ujn3M1FpmwP1c8AoILjijAs-hT1fNhXIWQo9v68wUSTHWwVUllGA9U

Washington Post – La mafia straniera si diffonde in Italia. - Carmenthesister


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Le ultime vicende della Sea Watch hanno riacceso la polemica sull’immigrazione e sulla politica dei porti chiusi che in mezzo a mille difficoltà viene portata avanti dal governo italiano. Il dibattito si polarizza tra coloro che si identificano come “i buoni”, che inalberano la bandiera dell’accoglienza, e quelli che vogliono fermare l’ondata, perché magari vivono più da vicino nei quartieri delle loro città  i problemi di un flusso migratorio a lungo incontrollato e mal gestito o comunque prevedono i danni che potranno derivarne.

A questo proposito sul Washington Post del 25 giugno troviamo una lunga inchiesta sulla mafia nigeriana, che si è diffusa in Italia in seguito ai flussi di migranti provenienti dall’Africa negli ultimi anni; l’indagine è basata su documenti e relazioni degli investigatori e uomini di giustizia che da anni operano sul territorio, visionati dai due corrispondenti del quotidiano americano, Chico Harlan e Stefano Pitrelli.

L’articolo osserva come, in un paese che ha combattutto per decenni contro la propria mafia locale, un nuovo gruppo criminale straniero sta acquistando forza. Si tratta soprattutto dei nigeriani, che su tutto il territorio italiano,  da Nord a Sud, da Torino a Palermo, nel corso di diversi anni di flussi di immigrazione incontrollata hanno reclutato nuovi membri tra i migranti dei centri di accoglienza, concretizzando uno  scenario che i nazionalisti italiani ed europei avevano già previsto e sui cui erano stati già da tempo lanciati preoccupati allarmi.

Il giornale descrive la polarizzazione della politica italiana: da una parte  i leader dei nuovi partiti giunti al governo con l’impegno di fermare l’invasione, e dall’altra la sinistra, insieme alla Chiesa cattolica di Papa Francesco, che  sostengono le politiche dell’accoglienza e negano queste paure, affermando che i delinquenti possono trovarsi ovunque, e anzi che la mafia è “made in Italy” e non sono i nigeriani ad averla inventata.

Alcuni estratti dell’articolo in cui si descrive la situazione che i due corrispondenti hanno trovato in Italia.

“Non esistono stime affidabili di quanti membri della mafia nigeriana operino in Italia. Ma interviste con investigatori, procuratori, operatori umanitari e vittime della tratta degli esseri umani e centinaia di pagine di documenti investigativi mostrano che la mafia nigeriana ha costruito in Italia il suo hub europeo per il contrabbando di cocaina dal Sud America, di eroina dall’Asia, e per il traffico della prostituzione che coinvolge donne africane a decine di migliaia.

Gli investigatori italiani dicono che il consorzio nigeriano risponde alla definizione di mafia, piuttosto che di una qualsiasi banda criminale, perché ha un codice di comportamento e utilizza la potenza implicita del gruppo per intimidire e imporre il silenzio. I membri nigeriani sono stati condannati per quegli stessi reati di mafia codificati dall’Italia nella sua lunga lotta contro la mafia locale.

Anche se forse meno conosciuto della criminità organizzata dei giapponesi, russi e cinesi, secondo l’agenzia di intelligence italiana quest’anno il gruppo nigeriano è diventato “il più strutturato e dinamico” tra le organizzazioni criminali straniere operanti in Italia. Alcuni nigeriani entrano illegalmente in Italia già con l’intenzione di unirsi al gruppo criminale. Altri vengono reclutati dopo l’arrivo.”

Il Washington Post prosegue osservando come la mafia nigeriana sia stata presente in tutta Europa sin dagli anni ’80, e come tuttavia negli ultimi anni questo gruppo sia cresciuto, diffondendosi proprio in quella parte del territorio italiano in cui nessun gruppo criminale straniero sino ad ora aveva osato entrare, la Sicilia, la porta d’ingresso in Italia per i migranti fino alla politica dei porti chiusi di Salvini dello scorso anno.

Per la maggior parte del secolo scorso – si osserva nell’articolo –  i padroni dell’isola erano i membri di Cosa Nostra, specializzati in racket, gioco d’azzardo e omicidi, i quali non erano certo disposti a condividere il controllo del loro territorio con altri gruppi criminali. La Sicilia di oggi però è diversa. Cosa Nostra è azzoppata e i suoi capi sono finiti in carcere, uno dopo l’altro. Il gruppo è diventato più tranquillo, meno apertamente violento, e negli ultimi dieci anni sono emerse le prove che la mafia siciliana starebbe cooperando nel traffico di droga con il gruppo criminale straniero alimentatato dalle centinaia di migliaia di africani arrivati nell’isola, molti dei quali si sono trasferiti in altre parti d’Italia e anche in Europa, mentre alcuni sono rimasti. Questa cooperazione è possibile e si mantiene anche perché la mafia nigeriana ha costruito molto del suo business sulla prostituzione, un terreno in cui Cosa Nostra non ha mai mostrato interesse.


“Alcuni esperti dicono che ben 20.000 donne nigeriane, alcune delle quali minorenni, sono arrivate in Sicilia tra il 2016 e il 2018, in un traffico coordinato tra i nigeriani in Italia e quelli nel loro paese.

‘Centinaia di donne, che dal porto si riversavano nel paese ogni giorno’, dice Sergio Cipolla, presidente della Cooperazione Internazionale Sud Sud, un’organizzazione no-profit con sede a Palermo che si occupa di migranti, descrivendo quel periodo. ‘Le donne venivano portate nei centri di accoglienza. Ma non erano costrette a rimanere lì, quindi fuggivano e si perdevano le tracce’.

Secondo quanto risulta dai documenti, dai resoconti degli investigatori e di altre persone, le donne venivano in Italia accettando di pagare una tariffa molto salata – di 20.000 o 30.000 euro – illuse dalla promessa di sistemarsi in Europa con un lavoro. Prima di lasciare la Nigeria, la maggior parte di loro giurava con un rito voodoo di rimborsare quel debito. Le donne però sono arrivate in Italia per poi scoprire che non c’era nessun  lavoro da baby sitter o da parrucchiera che le aspettava.”
[…]
A causa di questi giuramenti (in cui credono e di cui hanno paura, ndt), è raro che le donne vadano alla polizia, ma se lo fanno per gli investigatori può essere molto importante. Francesco Del Grosso, capo della sezione criminalità straniera presso l’unità di polizia nazionale di Palermo, nel 2017 era alla sua scrivania quando una donna nigeriana si presentò, dicendo che aveva paura, ma era pronta a parlare. La donna descrisse diversi anni di schiavitù sessuale – una gravidanza, e poi di nuovo costretta a uscire per strada – e disse di essere stata poi aiutata da un gruppo di beneficenza. 

La donna diede alcuni dettagli sull’organizzazione di uomini che aveva intorno: strette di mano rituali, abiti blu e gialli codificati per colore. Le rivelazioni riguardavano il gruppo Eiye, uno dei principali clan della mafia nigeriana. Sulla base delle sue rivelazioni, Del Grosso aprì una nuova indagine e diciannove mesi dopo 14 membri di Eiye vennero arrestati per reati di mafia e droga, tra cui il presunto capo Eiye siciliano, Osabuohien Ehigiator. Del Grosso ha detto che tutte le 14 persone arrestate erano arrivate in Italia negli ultimi anni “sui barconi”.


Per inquadrare il tema in un contesto più ampio e significativo rispetto alla polemica  che contrappone i difensori dei confini nazionali ai sedicenti eroi dell’accoglienza, può essere utile anche questo toccante video in cui il leader panafricanista  Mouhamed Konare commenta la crisi della Sea Watch. Konare  afferma che il problema della immigrazione non potrà mai essere veramente risolto se non si affrontano alla radice le cause che portano tanti giovani africani ad emigrare e cadere nella rete dei trafficanti, per poi finire a  lavorare come schiavi o entrare nella criminalità organizzata, i più probabili scenari  futuri che li aspettano dopo essere stati “salvati” dalle anime belle dell’accoglienza.

venerdì 5 luglio 2019

Così i soldi dell’appalto Consip alle “scuole belle” venivano usati per una sporca truffa. - Luigi Gallo



L’appalto Consip rientrava nell’operazione definita pomposamente “Scuole belle” ma il suo obiettivo era quello di garantire soprattutto il servizio di pulizia delle scuole, oltre alla vigilanza e qualche intervento di manutenzione. Ne è scaturita in tutta Italia una selva di subappalti a cooperative che pagavano poco e male il personale. E a Palermo, stando all’inchiesta condotta dalle Fiamme gialle, una cooperativa bolognese vincitrice dell’appalto ha pensato bene di costruirci sopra un gigantesco castello fatto di fatture false e 150 contratti di lavoro fittizi a cittadini extracomunitari, e in qualche caso anche italiani. Per i primi il vantaggio era quello di ottenere così il permesso di soggiorno, mentre i cittadini italiani potevano contare sull’indennità di disoccupazione tra un contratto e l’altro.
Cooperative o presunte tali, business dei permessi di soggiorno, sfruttamento dei lavoratori ed evasione fiscale: un mix micidiale ma purtroppo non nuovo in questo Paese! Il caso di Palermo è la punta avvelenata di un iceberg inquinato, fatto di sfruttamento e subappalti che, come denunciamo da tempo, hanno arricchito per decenni chi controlla queste cooperative mentre a farne le spese sono le tasche e i diritti di lavoratrici e lavoratori. Tanto lavoro per le procure italiane e pochi, pochissimi servizi per gli alunni delle nostre scuole.
Ecco perché abbiamo deciso, lavorandoci fin dai primi giorni di questa legislatura, di smantellare il sistema degli appalti delle cooperative e delle ditte di pulizia nelle scuole italiane, che nel tempo sono finiti anche sotto la lente delle Autorità Anticorruzione e Antitrust. Tutti fatti che abbiamo puntualmente denunciato dentro e fuori dal Parlamento e sui quali ora, da forza di governo, siamo intervenuti ponendo fine a una mangiatoia di Stato paragonabile allo scandalo degli affitti d’oro della Camera.
Che cosa abbiamo fatto nel concreto noi del MoVimento 5 Stelle? Abbiamo presentato e fatto approvare un emendamento che consentirà, dal primo gennaio 2020, a 12.000 lavoratori di queste ditte di pulizia e sorveglianza di entrare a far parte a pieno titolo nel personale Ata delle scuole: queste persone da 20 anni venivano pagate poco e male per svolgere – non si capisce per quale ragione se non per garantire a qualcuno di arricchirsi sulla loro pelle – queste stesse mansioni alle dipendenze di cooperative e ditte private.
A breve partiranno i bandi per selezionare questo nuovo personale e mettere fine anche alle enormi sacche di precariato esistente tra i lavoratori ATA grazie allo sblocco di 12mila posti che nel giro di pochi anni torneranno disponibili per le assunzioni.
I vantaggi di questa operazione sono molteplici: mettiamo fine allo scandalo per cui per vent’anni 12mila posti di lavoro sono stati privatizzati e sottratti all’organico della scuola; eliminiamo l’enorme spreco di risorse prodotto da questa anomalia: l’affidamento ai privati faceva raddoppiare e in alcuni casi triplicare i costi; infine, garantiamo agli alunni e allo stesso personale una scuola più pulita e meglio sorvegliata.
Ancora una volta il MoVimento 5 Stelle fa il suo mestiere e lo fa bene: smantelliamo le lobby, cacciamo via i parassiti e restituiamo ai cittadini diritti e dignità.

‘Ndrangheta a Nord, nelle carte i legami politici del clan: “A Lonate Pozzolo i voti dei boss in cambio di posti in giunta”. - Giuseppe Pipitone

‘Ndrangheta a Nord, nelle carte i legami politici del clan: “A Lonate Pozzolo i voti dei boss in cambio di posti in giunta”

Non c'è solo l'affare dei parcheggi dell'aeroporto di Malpensa nell'ultima operazione antimafia della procura di Milano. L'ex sindaco di Lonate racconta: "Vi sono diverse famiglie originarie di Cirò Marina, che esercitano un controllo sul territorio. Mi hanno appoggiato nella campagna elettorale. In cambio volevano la figlia assessore". Il gip su Misiano, il consigliere di Fdi arrestato: "Intermediario tra il mondo politico ed alcuni esponenti di spicco della cosca mafiosa". E si scopre il tentativo di pestaggio per il candidato sindaco antimafia.


Trecento voti bastavano per far vincere un sindaco. Solo che erano voti di ‘ndrangheta. Non c’è solo l’affare dei parcheggi dell’aeroporto di Malpensa nell’ultima operazione antimafia della procura di Milano. Trentaquattro arresti in otto province, accuse che vanno dall’associazione mafiosa alle lesioni e allo spaccio di droga, e una certezza: “Negli ultimi dieci anni, nonostante le indagini e gli arresti, non è cambiato nulla. Le cosche sono ancora padrone del territorio“. Parola di Alessandra Dolci, procuratore aggiunto del capoluogo lombardo che ha coordinato l’inchiesta sui clan a Lonate Pozzolo e Ferno, due piccoli centri in provincia di Varese praticamente attaccati allo scalo di Malpensa.
“Voti in cambio di posti in giunta” – Due comuni che, secondo il gip Alessandra Simion, versano in una situazione “particolarmente critica“. Il motivo? “Le giunte sono espressione della capacità del gruppo criminale di veicolare considerevoli quantità di voti, barattandoli con la nomina di familiari e parenti a cariche politiche ed amministrative”, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare del giudice per le indagini preliminari di Milano. Una ricostruzione, quella degli investigatori, che si basa anche su un testimone eccellente: Danilo Rivolta, ex sindaco di Lonate Pozzolo di Forza Italia. Arrestato nel maggio del 2017 con l’accusa di corruzione, Rivolta ha patteggiato quattro anni di carcere nel settembre del 2017. Due mesi prima, nel luglio del 2017, si era seduto davanti ai pm per mettere a verbale una storia pericolosa: quella della ‘ndrangheta che fa politica in provincia di Varese. “A Lonate Pozzolo vi sono diverse famiglie originarie di Cirò Marina, che esercitano un controllo sul territorio – è il racconto dell’ex primo cittadino – Hanno tutte delle imprese edili ed artigiane. Le attività regolari riguardano per lo più il settore edilizio. Ho appreso tali notizie da Franco De Novara. Nella giunta in cui io ricoprivo la carica di assessore all’Urbanistica, vi era la sorella di De Novara Franco (a sua volta cognata di Alfonso Murano, ucciso nel 2006 ndr). Nel 2009, questi pretese l’assunzione della sorella alla Saap. Venne assunta e, di seguito abbiamo agevolato la sua assunzione alla fondazione musicale Puccini di Gallarate. Premetto che sua figlia Francesca è l’attuale assessore alla cultura, sport e tempo libero”.
“I calabresi mi dissero che mi avrebbero appoggiato” –Insomma, già prima dell’elezione di Rivolta a sindaco la ‘ndrangheta faceva politica a Lonate Pozzolo. Poi, nel 2014, ha deciso di puntare su di lui. “Nel febbraio, marzo 2014, Peppino Falvo (il coordinatore dei Cristiano-popolari ndr) venne da me e mi disse che i De Novara mi avrebbero appoggiato nella campagna elettorale. Franco De Novara in cambio voleva che la figlia Francesca venisse nominata assessore. Loro, nel frattempo, avrebbero provveduto a farmi prendere dei voti. Francesca De Novara ha preso 300 voti“. Un bel pacchetto di preferenze in una città dove gli elettori sono circa 5mila. “La mia lista è stata supportata anche da Cataldo Casoppero. Dopo la mia elezione ho effettivamente nominato la figlia di De Novara assessore alla cultura”, continua il suo racconto l’ex sindaco davanti ai pm di Busto Arsizio.  Insomma in provincia di Varese i clan si “compravano” con i voti i posti in giunta. E quando qualcosa nell’amministrazione non andava, si lamentavano direttamente con il primo cittadino: “Una sera Franco De Novara si lamentò con me del fatto che destinavo pochi soldi all’assessorato di sua figlia e del fatto che ricadeva a sulla stessa un’iniziativa sulla legalità, che lei non si sentiva di sostenere. In quel periodo era già stato programmato il matrimonio tra Francesca De Novara e Malena Cataldo, luogotenente di De Castro Emanuele. Le famiglie calabresi controllavano il mercato della droga”. 
“Quel pagliaccio di sindaco” – Insomma, secondo il gip “emerge chiaramente la consapevolezza degli indagati, e fra questi principalmente Casoppero Cataldo Santo, che l’elezione di Rivolta era stata appoggiata da famiglie calabresi di origine cirotana, stanziate storicamente in zona”. Casoppero è un imprenditore d’origine calabrese che abita a Lonate da anni. Già arrestato nel 2009, è considerato un boss. “Ma a Lonate tutti calabresi siete?“, gli chiede a un certo punto un suo conoscente. “È quella la fregatura, hai capito perchè? Noi gli ultimi arresti del 2009, per questo pagliaccio di sindaco, siamo andati a finire in galera. Prima l’abbiamo messo su come sindaco e poi è andato a dire che qua c’è la ‘ndrangheta “, risponde Casoppero, intercettato. “Questo è un pagliaccio”, conferma il suo interlocutore. Lapidaria la risposta: “Eh ma i lombardi sono tutti così; ti devi fidare pochissimo, per niente proprio”.
Il nuovo “referente”: Misiano – Dopo l’arresto di Rivolta per corruzione, i clan “ingaggiano” un nuovo referente: si chiama Enzo Misiano, ed fa il consigliere comunale di Fratelli d’Italia a Ferno. Anzi faceva: lo hanno arrestato nell’inchiesta. Non si tratta di un politico minore, ma è il plenipotenziario del partito di Giorgia Meloni nella zona. Nelle carte il gip lo individua come il “responsabile per i comuni di Ferno e Lonate per Fratelli d’Italia” e in quanto tale “decide autonomamente le candidature del partito, avendone avuta ampia delega dal suo referente diretto l’onorevole Paola Frassinetti, portavoce regionale Lombardia”. Solo che parallellamente, per l’accusa, è anche il “referente politico dei ‘calabresi‘. Un ruolo che gli consente di essere “potenzialmente in grado di contribuire alla causa politica della sua coalizione con un considerevole pacchetto di voti”. 
L’intermediario tra clan e politica – Secondo gli inquirenti il consigliere di Fdi “in più occasioni” ha svolto il ruolo di “intermediario tra il mondo politico ed alcuni esponenti di spicco della cosca mafiosa, tra i quali Giuseppe Spagnolo, Mario Filippelli, Emanuele e Salvatore De Castro ed esponenti della famiglia dei De Novara. In più circostanze, Misiano si propone per dirimere controversie che esulano dalle sue competenze politiche”. Un esempio? Quando Alessandro Pozzi gli chiede una mano. Pozzi fa il consigliere comunale a Ferno. È stato eletto da Forza Italia, prima di passare con Fratelli d’Italia, e a un certo punto diventa l’obiettivo di un’estrosione da parte dei fratelli De Novara. Cosa fa per difendersi? Denuncia alla polizia? Nossignore. Si rivolge a Misiano per risolvere la faccenda. ” Altamente significativa la condotta di un amministratore locale che, anziché rivolgersi alle Autorità, si rivolge alla criminalità organizzata per risolvere una questione tanto delicata”, annota il gip nell’ordinanza. Misiano, però, è soprattuto di politica che si occupa. Dopo l’arresto di Rivolta, infatti, a Lonate si torna a votare. E Misiano “diviene il catalizzatore del pacchetto di voti mosso dalla locale, veicolandoli verso la coalizione d’appartenenza che vede Angelino Ausilia candidata alla carica di sindaco”. Il clima in paese è pesante dopo le vicende giudiziarie della giunta Rivolta, e Misiano convoca più una riunione tra la maggioranza di centrodestra. C’è anche Gioacchino Caianiello, il ras dì Forza Italia nella zona, recentemente arrestato per le tangenti in Lombardia. Scrive il giudice: “Significativo il passaggio in cui Misiano cita Caianiello dicendo: “Le partecipate, alla fine la riunione, un cinema, la riunione in Comune è venuto Caianiello, un macello, Canianiello, Cattaneo, Petroni, ho hatto venir già la Frassinetti”.
Il tentativo di pestaggio – Le elezioni non andranno bene per Misiano e i calabresi: perderanno per 500 voti contro la sindaca Nadia Rosa. Terzo arriva Modesto Verderio, ex consigliere comunale della Lega che però si era candidato con Grande Nord (il partito di Matteo Salvini era nella lista civica di centrodestra). Verderio a Lonate ha condotto molte campagne politiche contro la ‘ndrangheta. E anche durante la campagna elettorale non si sottrae: rilascia un’intervista a un giornale locale per attaccare gli esponenti della criminalità calabrese ormai residenti in zona. Che non la prendono bene. Cataldo Casoppero commenta così l’intervista: “Quell’altro pagliaccio di Verderio che scrive su Lonate News, che lui prende a calci tutti i cirotani, la ‘ndrangheta la manda via. Adesso prende le botte però”. Il progetto è chiaro: pestare il politico anti ndrangheta: “Abbiamo deciso che lo facciamo picchiare. Devo vedere dove cazzo fa il comizio e devo trovare, facciamo venire due albanesi e lo facchiamo picchiare al comizio stesso”.  Gli amici di Casoppero cercano di fermarlo: “Si alza un polverone, specialmente ora sotto elezioni”. Il pestaggio di un candidato sindaco avrebbe fatto rumore: e Verderio fu risparmiato. Non è la Calabria e non sono neanche gli anni ‘70: è il profondo Nord. Dove la ‘Ndrangheta c’e ancora.
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L'uomo voleva aprire un parcheggio nella zona di Malpensa, a poche centinaia di metri da uno gestito dalla famiglia De Castro, il cui capostipite è ai vertici della locale di 'ndrangheta. Dove aver rifiutato un accordo per averli come soci, sono arrivate le pressioni: "Qualunque cosa viene fatta lì, vado e scasso tutto", viene fatto riferire. Il capo della Dda milanese: "È la prima volta che un imprenditore denuncia le pressioni".

Quarantotto ore. Tanto aveva impiegato la famiglia De Castro, il cui capostipite Emanuele è tra i capi della locale di ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo, dopo il rifiuto di un imprenditore di entrare in società con loro, a far capire che allora non ci sarebbe stata alcuna nuova area parcheggio vicino all’aeroporto di Malpensa perché “sarebbe risultata in concorrenza” con quella da gestita dalla famiglia. “Altrove sì, ma a Ferno no”, aveva mandato a dire ad A. I., senza sapere che l’uomo – che ha chiesto a Ilfattoquotidiano.it di tutelarne la privacy – avesse installato una app sul suo smartphone per la registrazione delle chiamate in entrata e in uscita dal cellulare.
Le ha archiviate tutte, si è fatto coraggio ed è andato dai carabinieri per raccontare per filo e per segno la sua storia, ora parte integrante dell’ordinanza di custodia cautelare con la quale il gip del tribunale di Milano, Alessandra Simonha arrestato 34 persone, 13 delle quali accusate di associazione mafiosa per la ricostituzione della ‘ndrina legata alla famiglia di Cirò Marina. È proprio attraverso quelle telefonate e ai racconti che l’imprenditore ha più volte fatto a investigatori e inquirenti che la Dda di Milano ha accertato gli interessi della cosca attorno all’aeroporto di Malpensa, appetiti in crescita anche per la chiusura di Linate nei mesi estivi. Un ruolo fondamentale, riconosciuto dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci: “Una nota di speranza”, l’ha definita il magistrato antimafia.
I messaggi erano chiari, fatti arrivare tramite un consulente del lavoro, Giampaolo Laudani, che da un lato doveva partecipare all’affare e dall’altro secondo i magistrati ‘giocava’ per i De Castro: “Lui esplicitamente mi ha detto assolutamente no, diglielo… perché, anzi mi ha aggiunto: ‘Qualunque cosa viene fatta lì sono io che vado lì e scasso tutto'”. Lì, era a Ferno, a poche centinaia di metri da uno dei parcheggi controllati dai De Castro – di estorsione aggravata rispondono Emanuele e il figlio Salvatore, la sua compagna Vanessa Ascione e Laudani – che non volevano concorrenza. L’avventura di A. inizia nell’autunno 2018 quando insieme al consulente del lavoro, che a insaputa dell’imprenditore lo era anche dei De Castro, avvia attività propedeutiche alla realizzazione del parcheggio.
Dopo un “no” all’acquisto dell’area degli uomini legati alla ‘ndrina e aver valutato sconveniente l’apertura di un’area a Lonate per una “situazione monopolistica” accertata in un’altra inchiesta, l’imprenditore decide di realizzare la sua idea a Ferno. Sceglie il terreno da affittare e contatta un secondo imprenditore  di sua conoscenza, M. G., pure lui parte offesa, per avere un partner commerciale. Ma Laudani, si legge nell’ordinanza, “riferiva del progetto ai De Castro, tramite Vanessa Ascione, convivente di Salvatore e titolare del parcheggio di Ferno in via Piave”. I De Castro si mostrano interessati e tentano di entrare nell’affare. È il 6 marzo 2019 e quel parcheggio sarebbe un buon investimento. Non hanno però messo in conto la valutazione dell’imprenditore che “declinava l’offerta dichiarando di aver appreso (…) che ‘i De Castro erano mafiosi e padroni del settore'”.
Una scelta che segnerà il destino del suo investimento. Perché quell’area sarebbe dovuta sorgere a circa 300 metri dal parcheggio riconducibile a De Castro rischiando così di incrinarne gli affari. E infatti appena due giorni dopo arriva il primo avvertimento. È Laudani a chiamare l’imprenditore: “C’è un piccolo problema”, gli dice. “Io ho parlato con una persona (…) Lui mi ha detto testuali parole ‘dì chiaramente a quella persona lì, che siccome avevamo già discusso, qualunque cosa lui fa in quelle zone lì, avrà solo problemi’, ok, ha usato proprio queste parole, anzi siamo al telefono io mi limito così. Quindi mi ha detto ‘ma diglielo proprio, eh'”.
Parole che secondo Laudani sarebbero riferite al secondo imprenditore coinvolto nella vicenda, M. G., conoscente dei De Castro. Ma che si ripercuotono anche sulla volontà di A.I.. “Mi ha detto che se vuoi parlarci non c’è problema”, aggiunge il consulente spiegando di aver “aperto per cercare di trovare un accordo insieme”. La risposta è categorica: “No, lasciamo stare. Beh, se no a noi non ci fa fare nulla?”. E Laudani conferma: “Mi sembra di aver così, sì…”.  L’imprenditore ha già annusato l’aria: “Io con loro, non è per cattiveria perché ripeto io non li conosco, però non voglio rotture di coglioni e sarebbe stato gradito non avere le rotture di coglioni da parte loro…”.
Salvatore De Castro, intanto, dagli arresti domiciliari ha già fatto arrivare quello che il gip definisce un “pizzino” a M.G. nel quale “si lamentava di non avere saputo direttamente e per tempo del suo interessamento al parcheggio”. Con Laudani – che, secondo il giudice, “agiva a sua volta consapevolmente nel loro interesse simulando ‘terzietà'” – i De Castro sono ancora più espliciti: “Mi ha detto ‘quella persona sa già, questa zona non va toccata’”, spiega Laudani parlando con lo smartphone di A.I, che nel frattempo registra l’intera vicenda, chiamata dopo chiamata. L’affare tra l’imprenditore che ha denunciato, Laudani e M. G. alla fine sfuma, perché A.I. si rifiuta “di andare a chiedere il ‘permesso'”. Nel frattempo, il 27 marzo, entra nella caserma dei carabinieri, fa ascoltare le telefonate e inizia a raccontare tutto. È la “prima volta”, dice la procuratrice Dolci, che un imprenditore lombardo varca quella soglia per parlare delle pressioni ricevute dagli ‘ndranghetisti.