sabato 9 novembre 2019

Fatti e misfatti.


Rispondendo alla domanda di fb: sto pensando che anche quest'anno ho donato la mia strenna al comune di Monreale pagando la Tari...quasi 400 €.
Premetto che in 14 anni non ho mai visto un netturbino, non abbiamo luci nella strada, non hanno mai fatto una disinfestazione e/o derattizzazione e non esiste alcun controllo del territorio.
Dimenticavo, siamo appena in due.
A tale proposito voglio raccontarvi un aneddoto capitatomi personalmente.
Precedentemente, essendomi arrivata un'aggiunta di 27 € a quanto già addebitatomi e pagato, ho telefonato al responsabile dell'ufficio specificando che, contrariamente a quanto sostenevano, in casa eravamo in due e non in tre, in quanto il mio ex aveva domicilio in altro comune regolarmente registrato e che, quindi, non avrei dovuto pagare quell'aggiunta...sapete che mi ha risposto? Che la terza persona era stata aggiunta perchè io avrei anche potuto ospitare il mio ex per qualche giorno senza segnalarlo al comune.
Interdetta dalla risposta gli ho chiesto, ironicamente s'intende, se avrei dovuto avvisare il comune ogni volta che ospitavo qualche figlio o nipote o ospite.....poi, senza attendere risposta ho chiuso e non ho mai pagato i 27 €.

Vi assicuro che la mia non è una barzelletta, ma pura e semplice realtà.
by Cetta

venerdì 8 novembre 2019

Foggia, hotel di lusso e biancheria intima coi soldi della Asl: condannato ex manager Sanitaservice. - Massimiliano Scagliarini

Foggia, l’Asl rassicura  Sanitaservice va avanti

Per la Corte dei Conti Di Biase dovrà risarcire 480mila euro.

Per molti anni ha percepito stipendi d’oro dalla Sanitaservice di Foggia, sperperando anche 120mila euro in cene, buffet per centinaia di persone e persino biancheria intima femminile e i servizi di un investigatore privato. Per questo l’ex amministratore unico, Antonio Di Biase, dovrà risarcire la Asl con 480mila euro. Lo ha stabilito la Corte dei conti, dopo che lo scorso anno il manager 70enne di Trinitapoli fu destinatario di due sequestri di beni: uno da parte del gip di Foggia, nell’ambito di un fascicolo per peculato coordinato dal procuratore aggiunto Francesca Pirrelli, l’altro da 527mila euro su richiesta dell’allora vice-procuratore contabile Pierpaolo Grasso.

L’inchiesta erariale è nata da una denuncia del successore di Di Biase, Massimo Russo, che ha collaborato con la giustizia anche nell’indagine penale a carico di Angelo e Napoleone Cera. Nel fascicolo sono poi confluite le risultanze degli accertamenti fiscali svolti su Sanitaservice Foggia dalla Finanza di Lucera, che hanno fatto emergere altre irregolarità.
In breve, secondo la sentenza della Corte dei conti (presidente Raeli, relatore Fratini), Di Biase avrebbe disposto liberamente dei soldi della società che si occupa di ausiliariato, liquidandosi a vario titolo compensi non dovuti a titolo di stipendio e indennità di fine mandato, con «reiterati prelievi del valore di migliaia di euro mensili compiuti dal Di Biase a mezzo di carta di credito aziendale» e «polizze assicurative contratte dalla società a beneficio dello stesso amministratore - del valore di centinaia di migliaia di euro - prive di qualsivoglia riscontro contrattuale o convenzionale», oltre che gravi illegittimità nelle assunzioni del personale.

A Di Biase era stato accordato prima uno stipendio annuo di 98mila euro, poi (dopo il rinnovo dell’incarico) un compenso di 8.300 euro lordi mensili più il 5% «del reddito netto conseguito», Nel primo mandato - ha accertato la Corte dei Conti - Di Biase si è liquidato 63mila in più, nel secondo 67mila euro in più sulla parte variabile. A questi vanno aggiunti 156mila euro di «prelievi in acconto» illegittimi sul trattamento di fine mandato, 112mila euro di spese di rappresentanza «che per nulla risultano riconducibili alle finalità socio assistenziali» (dalle sponsorizzazioni a squadre di calcio ai pernottamenti in hotel di lusso), per arrivare al telefonino e ai «fringe benefits» (l’uso a fini personali delle auto di servizio) non giustificati.
La Procura contabile aveva quantificato il danno in 527mila euro, chiamando in causa anche l’ex direttore generale della Asl, Attilio Manfrini. Ma i giudici hanno escluso alcuna responsabilità a carico di Manfrini, e hanno ridotto a 480mila euro il risarcimento dovuto da Di Biase perché la Sanitaservice non era tenuta ad applicare la decurtazione del 10% dei compensi ai manager introdotta dal governo Monti. Le giustificazioni presentate dal manager sono state respinte: i giudici parlano di «condotta dolosa» e rilevano l’utilizzo spregiudicato del denaro pubblico. Di Biase inventò - ai tempi della giunta Vendola - il modello delle Sanitaservice, con cui furono internalizzati i lavoratori degli appalti delle Asl. I beni che gli sono stati sequestrati verranno ora pignorati e venduti.

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/foggia/1185537/foggia-hotel-di-lusso-e-biancheria-intima-coi-soldi-della-asl-condannato-ex-manager-sanitaservice.html


Se non si procede con condanne  pesanti, non smetteranno mai di rubare. E' diventato uso normale approfittare dei soldi pubblici destinati al sociale. Cetta

Per Alessandro. - Marco Travaglio

L'immagine può contenere: 4 persone, persone che sorridono

Alessandro Morricella era nato a Martina Franca, aveva 35 anni, una moglie e due bambini di 2 e 6 anni. Era un bravo operaio dell’Ilva di Taranto, sequestrata nel 2012 dai giudici di Taranto e subito riaperta per decreto da Monti e dai suoi successori.

L’8 giugno 2015 si è avvicinato, come sempre, al foro di colata dell’altoforno 2 per controllare la temperatura. E, probabilmente per un accumulo anomalo di gas, certamente per la scarsa sicurezza del vetusto impianto, è stato investito da una fiammata mista a ghisa incandescente, che l’ha trasformato in una torcia umana.

Ricoverato in ospedale, è morto dopo quattro giorni di atroce agonia il 12 giugno, proprio nel giorno dedicato alle vittime del lavoro. Una data tutt’altro che casuale: il 12 giugno 2003, sempre all’Ilva, Paolo Franco e Pasquale D’Ettorre erano stati uccisi dal crollo di una gru e subito dimenticati da tutti.

Fuorché dal rapper pugliese Caparezza, che dedicò loro il brano Vieni a ballare in Puglia: (“Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru perché può capitare che si stacchi e venga giù”). E dai coraggiosi magistrati di Taranto, che da 7 anni tentano di imporre il minimo rispetto per la sicurezza dei lavoratori e per la salute dei cittadini, facendo lo slalom fra decreti salva-Ilva e scudi penali sfornati dai governi dei più svariati colori per garantire l’impunità a chi gestisce il più grande impianto siderurgico d’Europa.

Dopo la morte di Alessandro, quinta vittima dell’Ilva in tre anni, l’allora procuratore Franco Sebastio indaga vari dirigenti per omicidio colposo e inosservanza delle norme di sicurezza sul lavoro e additano il mancato ammodernamento degli altiforni dell’“area a caldo” dell’Ilva come “concausa non trascurabile” della sua e delle altre quattro morti.

E ottengono il sequestro dell’altoforno 2, poi dissequestrato il 31 ottobre. Ma a condizione che vengano attuate 7 prescrizioni, fra cui l’automazione del campo di colata che ha ucciso Alessandro e gli altri.

Obblighi che in quattro anni non saranno mai rispettati, malgrado il miliardo di evasione fiscale sequestrato dai pm di Milano ai Riva e destinato alla gestione commissariale per gli interventi sulla sicurezza, più il miliardo che i nuovi titolari di Arcelor Mittal prometteranno di investire allo scopo.

Ma intanto il governo Renzi, nel 2015, ha varato l’ennesimo decreto salva-Ilva che autorizza l’uso dell’altoforno 2 appena sequestrato. E ha addirittura regalato l’impunità penale ai commissari di governo, anche per i morti in fabbrica. Nel 2018 la Consulta boccia il decreto Renzi sull’altoforno 2 come incostituzionale.

Motivo: il dl “privilegia in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa”, diritti “cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso”.

Invece sullo scudo, studiato per i commissari e poi finito a coprire Arcelor-Mittal, la Consulta non può pronunciarsi perché viene revocato e poi parzialmente ripristinato da 5Stelle e Lega, e infine cancellato da M5S, Pd, LeU e Iv.

Il 31 luglio 2019, visto che nessuno degli obblighi è stato rispettato, i giudici di Taranto tornano a sequestrare l’altoforno 2. E poi a dissequestrarlo, ma a patto che entro 100 giorni vengano finalmente eseguiti i lavori per mettere in sicurezza l’impianto entro il prossimo 13 dicembre.

Ma l’altro ieri il gruppo franco-indiano comunica al governo la disdetta del contratto che lo impegnava a gestire in affitto e dal 2021 a rilevare gli stabilimenti ex Ilva accampando due scuse.

1) “Con effetto dal 3 novembre 2019 il Parlamento italiano ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, giustificando così la comunicazione di recesso”.

2) “In aggiunta, i provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i Commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019, termine che gli stessi Commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare – pena lo spegnimento dell’altoforno numero 2”, quello che ha ucciso Alessandro.

Cioè: Mittal ha scoperto con sgomento che in Italia esistono una Costituzione e un Codice penale. E sfodera due alibi che non reggono: lo scudo penale non esiste in nessun Paese d’Europa, dove Mittal gestisce quasi tutte le acciaierie, con standard di sicurezza e ambiente molto più stringenti di quelli che pretende di perpetuare in Italia; quanto alle prescrizioni sull’altoforno 2, non sono una novità, visto che i giudici le invocano dal 2012 (quando sequestrarono per la prima volta l’Ilva) e ancor più stringentemente dal 2015 (quando morì Alessandro) e nel 2018 la Consulta ha già sentenziato che l’altoforno 2 non può restare aperto se non è messo in sicurezza.

In 7 anni si sono succeduti 6 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2) e 3 gestioni manageriali (Riva, commissari di governo, Arcelor Mittal). I manager hanno sempre disobbedito alla legge, ai giudici e alla Costituzione.

I governi, fino al 2018, han permesso loro di farlo impunemente, sulla pelle dei morti e dei malati. Ora che finalmente la musica è cambiata, si scatena la canea: non contro chi se ne fotteva allegramente del diritto alla vita e alla salute, ma contro chi ha smesso di fottersene.

Ps. Un mese fa, il 1° ottobre, si è aperto al Tribunale di Taranto il processo a sette dirigenti Ilva imputati di omicidio colposo per la morte di Alessandro. Fuori dall’aula, i suoi amici hanno riassunto in uno striscione di sei parole gli ultimi sette anni di storia dell’Ilva:

“Giustizia per Morricella, morto per decreto”.

https://www.facebook.com/TutticonMarcoTravaglioForever/photos/a.438282739515247/2880482165295280/?type=3&theater

mercoledì 6 novembre 2019

Ristruttura con i soldi della municipalizzata.

 © ANSA

In manette dirigente società, indagati farmacista e imprenditore.

Il direttore generale di una società municipalizzata del Comune di Castellanza (Varese), Paolo Ramolini, è stato arrestato dai carabinieri con l'accusa di truffa aggravata ai danni di ente pubblico e peculato, in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari emessa dal Gip di Busto Arsizio (Varese).Tra le accuse, quella di aver caricato sui costi aziendali i lavori di ristrutturazione di casa di sua figlia. Indagati per concorso in peculato anche una farmacista di Castellanza (Varese) e un imprenditore di Legnano (Milano).Alla direzione della 'Csp' di Castellanza (Varese), il direttore generale arrestato stamane dai carabinieri, secondo le indagini, oltre a caricare 13 mila euro di costi per il restauro della casa della figlia alla società, avrebbe anche fatturato 50 ore lavorative mai svolte alla titolare di una farmacia del medesimo comune. La donna è ora indagata per truffa aggravata in concorso. Indagato in concorso per peculato anche un imprenditore 61enne, titolare di una ditta di infissi di Legnano, il quale avrebbe emesso alcune fatture per lavori di manutenzione relativi ad immobili di proprietà della 'Csp', quando invece sarebbero serviti a installare i serramenti nuovi in casa della figlia del dirigente.L'indagine è partita lo scorso aprile dalla denuncia di una dipendente della municipalizzata, che si occupa dei servizi pubblici locali, tra cui servizi farmaceutici e cimiteriali, gestione e manutenzione di centri sportivi, del patrimonio immobiliare e delle mense scolastiche.

Cosa sappiamo dell’esplosione della cascina in provincia di Alessandria.


(Ufficio Stampa Vigili del Fuoco/LaPresse)

Nella notte fra lunedì e martedì un’esplosione in una cascina disabitata a Quargnento, in provincia di Alessandria, ha causato la morte di tre vigili del fuoco e il ferimento di altri due vigili del fuoco e di un carabiniere. L’esplosione principale è avvenuta verso l’1.30, quando i vigili del fuoco erano arrivati sul posto per effettuare un sopralluogo dopo che una prima esplosione era avvenuta circa un’ora prima, sempre nella stessa cascina. La seconda esplosione ha fatto crollare l’edificio, le cui macerie hanno sotterrato i tre vigili del fuoco.

Nei sopralluoghi successivi al crollo sono state trovate in un edificio adiacente alla cascina due bombole di gas inesplose, collegate con dei fili elettrici a un timer. Secondo il procuratore capo di Alessandria, Enrico Cieri, questa circostanza farebbe pensare che il crollo della cascina sia stato causato dall’esplosione di natura dolosa di alcune bombole di gas. In attesa dei risultati dei rilievi del Reparto investigazioni scientifiche (RIS) dei carabinieri, la procura ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio plurimo e disastro. Al momento non ci sono indagati, ma i giornali di oggi scrivono che le ipotesi degli investigatori si starebbero concentrando proprio sul proprietario della cascina, Giovanni Vincenti detto Gianni, e sul suo passato.

La Stampa scrive che Vincenti, che ha 55 anni, aveva comprato la cascina e alcuni terreni circostanti 23 anni fa. Su quei terreni aveva aperto un maneggio, chiamato Rivabell, che gestiva con il figlio Stefano; la cascina ne era diventata la club house. Le attività del maneggio, però, col tempo cominciarono ad andare male, scrive il giornale, e i rapporti con il figlio si incrinarono: così Vincenti vendette il centro ippico, che oggi si chiama Duende, e nel 2016 mise in vendita anche la cascina, al prezzo di 750mila euro. Da allora però la casa non aveva trovato acquirenti; Vincenti si era trasferito a vivere ad Alessandria, lasciando la cascina disabita.

I giornali raccontano anche che Vincenti aveva avuto diversi problemi economici, e cause legate a truffe e lavori non pagati. Repubblica scrive che Vincenti era stato oggetto di molte cause «per truffe nel commercio dei cavalli» e che nel 2003 «un primo rogo doloso aveva bruciato un fienile». Inoltre, aggiunge il giornale, «dopo un pestaggio mai chiarito, era pure finito in ospedale». Un vicino di casa ha raccontato al Corriere della Sera che due imbianchini avevano anche fatto causa a Vincenti per un mancato pagamento. Il figlio di Vincenti, intervistato dalla Stampa, ha detto che in passato il padre non aveva mai ricevuto minacce, e sempre la Stampa riporta il commento di una persona che abita vicino alla cascina crollata, Giuseppe Dell’Erba, che ha detto di aver telefonato a Vincenti dopo l’esplosione, e che quest’ultimo gli avrebbe risposto: «Mi hanno fatto un dispetto». Vincenti è stato interrogato dai carabinieri, ma al momento non risulta indagato.


https://www.ilpost.it/2019/11/06/quargnento-alessandria-esplosione-cascina/

Fincantieri, 34 indagati tra dirigenti e imprese in subappalto: sfruttamento della manodopera e corruzione le accuse. . Giuseppe Pietrobelli


Fincantieri, 34 indagati tra dirigenti e imprese in subappalto: sfruttamento della manodopera e corruzione le accuse
Perquisizioni della Finanza su ordine della procura di Venezia. Dodici dirigenti sotto inchiesta: avrebbero ricevuto mazzette in cambio di vantaggi a imprese bengalesi che lavoravano nei cantieri navali. A farne le spese i lavoratori, la cui retribuzione, formalmente corretta, scendeva fino a 4 euro l'ora. L'azienda: "Noi estranei e pronti a collaborare".
La paga oraria dei lavoratori bengalesi impegnati a Porto Marghera arrivava a 4 euro all’ora. Mentre una dozzina di dirigenti della Fincantieri veneziana avrebbe incassato tangenti – sotto forma di denaro o di altra utilità – pagate dalle imprese asiatiche per ottenere incrementi di fatturati e un trattamento di favore nella gestione delle maestranze. Sembra uscito dal docufilm Il pianeta in mare del regista Andrea Segre, ambientato proprio tra i lavoratori extracomunitari degli stabilimenti mestrini, il blitz messo del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Venezia su delega del procuratore Bruno Cherchi. Perquisizioni e notifiche sono avvenute non solo in Veneto, ma anche in Friuli Venezia Giulia, Liguria, Marche, Campania, Puglia e Sicilia. In totale, una ottantina di verifiche nelle sedi di imprese bengalesi, nelle case dei lavoratori e nelle abitazioni dei dirigenti Fincantieri. Le ipotesi di reato sono varie: sfruttamento della manodopera, corruzione tra privati, dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture false. In totale le imprese coinvolte sono 19, tutte operanti nel settore della cantieristica navale, in quanto subaffidatarie di lavori per conto di Fincantieri. Contemporaneamente, su decisione del gip, è finito agli arresti domiciliari un cittadino bengalese, indagato per sfruttamento di manodopera, a cui sono stati anche sequestrati 200mila euro. In totale gli indagati sono 34, compresi i 12 dirigenti sospettati di corruzione.
L’inchiesta è nata nell’estate 2018 da alcune querele presentate da lavoratori cingalesi e albanesi. Dichiaravano di essere sfruttati e spiegavano che in busta paga veniva inserita una paga formalmente corretta. In realtà quello che percepivano era molto inferiore, una media di 5-6 euro all’ora, in alcuni casi anche 4, per un duro lavoro nella costruzione e nell’allestimento delle navi. E non avevano diritto a ferie o pagamento di straordinari. Il sistema è quello della “paga globale”, con riferimenti solo figurativi in linea con i compensi previsti dai contratti di lavoro.Se non accettavano quelle condizioni, il contratto veniva strappato e restavano senza lavoro.
Sconcertante il capitolo riguardante i dirigenti, così come è stato ricostruito dalla Finanza. Avrebbero ricevuto mazzette per favorire le imprese bengalesi e in alcuni casi anche per autorizzare un monte-ore superiore a quanto previsto, sulla base di dichiarazioni false riguardanti la necessità di completamento dei lavori, di non conformità dei lavori eseguiti o di modifiche in corso d’opera. “Per ultimare i lavori nelle ristrette tempistiche inizialmente concordate – spiega il procuratore Bruno Cherchi – le società sub-affidatarie avrebbero impiegato un maggior numero di dipendenti che sono stati retribuiti mediante il sistema della ‘paga globale’, conseguendo così un maggior compenso, parte del quale sarebbe stato retrocesso ai dirigenti di Fincantieri”.
La società ha diffuso un comunicato in cui rivendica “la propria estraneità rispetto ai fatti cui le indagini si riferiscono” e informa che il Gruppo “sta assicurando piena collaborazione agli inquirenti e auspica che verrà dimostrata la completa estraneità dei propri dipendenti”. In ogni caso, “laddove invece le accuse venissero confermate”, ha annunciato che “adotterà immediati provvedimenti nei confronti di dipendenti che si fossero resi responsabili di condotte illecite”.

martedì 5 novembre 2019

Arcelor/Mittal lascia Ilva. 5 Stelle capro espiatorio. - Roberta Labonia



Strano Paese l’Italia. Tutti pensano di poter fare il cavolo che gli pare. Il Paese del Bengodi fu per i Riva, i precedenti titolari dell’Ilva di Taranto, l’Italia. Prima di venire arrestati per disastro ambientale ed altre amenità, fecero in tempo a provocare la morte di oltre 11mila tarantini per tumori da diossina e patologie neurologiche. Ora la nuova proprietà, la franco indiana ArcelorMittal, subentrata dopo un periodo di commissariamento dell’azienda, pretende di portare avanti il piano di risanamento ambientale sottoscritto con lo Stato Italiano, protetta da uno scudo penale che la metta al riparo da ogni bega giudiziaria per tutta la sua durata. E gioca sporco. Neanche il tempo, giusto il 2 novembre scorso, che Mattarella promulgasse la legge di conversione del DL Imprese che ne ha sancito l’annullamento (lo scudo era stato reintrodotto, pur con delle limitazioni, agli sgoccioli del governo giallo verde), che sul tavolo del Mise Patuanelli, l’attuale Ministro 5 Stelle, si è ritrovato una nota di recesso, indirizzata dall’ArcelorMittal ai Commissari, dal contratto d’affitto d’azienda. Un ricatto bello e buono perché sono in gioco quasi 11mila posti di lavoro.

Si ripropone in tutta la sua tragicità l’eterno conflitto mai risolto dai diversi Governi italiani, quello di dover scegliere fra la salute dei suoi cittadini tarantini e il loro lavoro. Come non fossero due diritti, entrambi, garantiti dalla nostra carta costituzionale. Eppure questi signori, questi francoindiani, che hanno il loro quartier generale nel paradiso fiscale del Lussemburgo, oggi pretendono di avere indietro la “licenza di uccidere” altrimenti se ne vanno. Una clausola inesistente in ogni angolo d’Europa e che, ne sono sicura, prima o poi la nostra Consulta dichiarerà incostituzionale.

Può anche darsi, come ventila il Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli, che questa mossa in realtà nasconda altri obiettivi dei manager aziendali: spararla grossa per poi, magari, ottenere il via libera ad un corposo taglio dei livelli occupazionali e/o dei livelli di produzione, il che tradirebbe l’inefficienza dell’attuale board a capo dell’ex Ilva, incapace di tenere fede agli impegni assunti con il Governo italiano neanche 18 mesi fa. Motivo in più oggi, per recriminare sul fatto che il precedente Governo, nella persona dell’allora ministro Calenda (ministro volutamente minuscolo), non avesse voluto prendere in considerazione l’altra cordata di imprenditori, con a capo Cassa Depositi e Prestiti, interessata a rilevare L’Ilva di Taranto. Una scelta che avrebbe garantito la presenza dello Stato a presidio degli interessi di tutta la comunità tarantina. Trovo infatti intollerabile che uno Stato sovrano possa ritrovarsi nelle condizioni di essere ricattato da un soggetto privato. C’è qualcosa di profondamente marcio in un sistema che consente si possano generare certi paradossi, come è stato quello di Autostrade del resto. Aziende di natura strategica come è L’ex Ilva di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa, per l’Italia, non possono sottostare alla sola logica del profitto, non possono e non devono poter dettare legge, ripeto, ad uno Stato sovrano.

Questi sono, lo dico a posteriori, gli effetti nefasti, le distorsioni, che ha portato con sé un’economia ispirata al liberismo puro, dove l’unico motore ad agire è quello del capitale e della sua remunerazione e in nome delle cui logiche sono stati calpestati i diritti e le tutele di intere generazioni di lavoratori, di intere comunità, come, in questo caso, quella tarantina. E ciò che più mi disgusta in queste ore, è il sentir levarsi le voci indignate di più parti sociali del Paese che, anziché parlare con un unica voce di biasimo a questi capitani di ventura senza scrupoli, dando manforte all’operato del Governo, si schierano dalla loro parte e  attaccano il Governo, reo evidentemente ai loro occhi, di avere ristabilito la supremazia della legge, davanti alla quale ogni soggetto deve essere uguale.

Ho assistito al levarsi di scudi unanime contro il Governo di Confindustria, il che non mi sorprende, fra cani non si mordono, ma anche dei Sindacati, quelli che, per definizione, dovrebbero in primis tutelare la salute e il lavoro dei loro iscritti. Hanno fatto la loro scelta mandando il loro ultimatum al Governo: mantenere i posti di lavoro a tutti i costi, ridiamo lo scudo ad Arcelor e fanculo alle tutele ambientali. Ed infine, ma anche questo non mi sorprende, ho ascoltato tutta una corte di nani e ballerine dire la loro. Uno come Calenda, quello che da pavido ministro aveva firmato per lo Stato un contratto capestro a tutto vantaggio di Arcelor Mittal, spargere fango su Luigi Di Maio (che quel contratto l’aveva fatto modificare in extremis a tutela dei lavoratori) e, addirittura, ricevere il plauso di uno scribacchino servo di Berlusconi come Sallusti e della Gruber, quella di casa al Bilderberg. Poteva un ex bibitaro come Di Maio, essere all’altezza del suo ruolo? Le colpe sono tutte le sue, hanno sentenziato trionfi della loro boria. Cose che voi umani…

Ho ascoltato Renzi (quello che lo scudo penale l’aveva introdotto nel 2015, quando era primo ministro), oggi attaccare il suo stesso governo per averlo tolto, dimenticandosi che solo pochi giorni prima l’annullamento dello scudo l’aveva votato anche lui.

Ho letto nelle facce di Salvini e Meloni la malcelata contentezza di vedere una tegola così grossa cadere sul Conte II. Tifano, questi personaggi, perché su Ilva il Governo finalmente cada per mettersi loro ai posti di comando e poi, magari, continuare ad avallare altre schifezze come il TAV o come il Mose, che fu l’orgia dei tangentari.

Ho ascoltato mezze calzette tipo la Gelmini, la Bernini, dire le loro scempie banalità per guadagnarsi il loro pezzetto di scena, perché non se le caga più nessuno.

Ognuno di questi soggetti ha i suoi buoni motivi personali o di bottega per remare contro questo Governo e, da bravi amici del giaguaro, sostengono le pretese di soggetti che pretendono di dettare legge in casa nostra. E in tutto questo vociare confuso sto qui, seduta, a chiedermi a chi interessa veramente del destino di Taranto e dei tarantini. Forse ai 5 Stelle? Credo di sì, ma temo di non sbagliare se dico che saranno proprio loro a pagarne lo scotto più alto.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/05/arcelor-mittal-lascia-ilva-5-stelle-capro-espiatorio/