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martedì 5 novembre 2019

Arcelor/Mittal lascia Ilva. 5 Stelle capro espiatorio. - Roberta Labonia



Strano Paese l’Italia. Tutti pensano di poter fare il cavolo che gli pare. Il Paese del Bengodi fu per i Riva, i precedenti titolari dell’Ilva di Taranto, l’Italia. Prima di venire arrestati per disastro ambientale ed altre amenità, fecero in tempo a provocare la morte di oltre 11mila tarantini per tumori da diossina e patologie neurologiche. Ora la nuova proprietà, la franco indiana ArcelorMittal, subentrata dopo un periodo di commissariamento dell’azienda, pretende di portare avanti il piano di risanamento ambientale sottoscritto con lo Stato Italiano, protetta da uno scudo penale che la metta al riparo da ogni bega giudiziaria per tutta la sua durata. E gioca sporco. Neanche il tempo, giusto il 2 novembre scorso, che Mattarella promulgasse la legge di conversione del DL Imprese che ne ha sancito l’annullamento (lo scudo era stato reintrodotto, pur con delle limitazioni, agli sgoccioli del governo giallo verde), che sul tavolo del Mise Patuanelli, l’attuale Ministro 5 Stelle, si è ritrovato una nota di recesso, indirizzata dall’ArcelorMittal ai Commissari, dal contratto d’affitto d’azienda. Un ricatto bello e buono perché sono in gioco quasi 11mila posti di lavoro.

Si ripropone in tutta la sua tragicità l’eterno conflitto mai risolto dai diversi Governi italiani, quello di dover scegliere fra la salute dei suoi cittadini tarantini e il loro lavoro. Come non fossero due diritti, entrambi, garantiti dalla nostra carta costituzionale. Eppure questi signori, questi francoindiani, che hanno il loro quartier generale nel paradiso fiscale del Lussemburgo, oggi pretendono di avere indietro la “licenza di uccidere” altrimenti se ne vanno. Una clausola inesistente in ogni angolo d’Europa e che, ne sono sicura, prima o poi la nostra Consulta dichiarerà incostituzionale.

Può anche darsi, come ventila il Ministro dello Sviluppo Economico Patuanelli, che questa mossa in realtà nasconda altri obiettivi dei manager aziendali: spararla grossa per poi, magari, ottenere il via libera ad un corposo taglio dei livelli occupazionali e/o dei livelli di produzione, il che tradirebbe l’inefficienza dell’attuale board a capo dell’ex Ilva, incapace di tenere fede agli impegni assunti con il Governo italiano neanche 18 mesi fa. Motivo in più oggi, per recriminare sul fatto che il precedente Governo, nella persona dell’allora ministro Calenda (ministro volutamente minuscolo), non avesse voluto prendere in considerazione l’altra cordata di imprenditori, con a capo Cassa Depositi e Prestiti, interessata a rilevare L’Ilva di Taranto. Una scelta che avrebbe garantito la presenza dello Stato a presidio degli interessi di tutta la comunità tarantina. Trovo infatti intollerabile che uno Stato sovrano possa ritrovarsi nelle condizioni di essere ricattato da un soggetto privato. C’è qualcosa di profondamente marcio in un sistema che consente si possano generare certi paradossi, come è stato quello di Autostrade del resto. Aziende di natura strategica come è L’ex Ilva di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa, per l’Italia, non possono sottostare alla sola logica del profitto, non possono e non devono poter dettare legge, ripeto, ad uno Stato sovrano.

Questi sono, lo dico a posteriori, gli effetti nefasti, le distorsioni, che ha portato con sé un’economia ispirata al liberismo puro, dove l’unico motore ad agire è quello del capitale e della sua remunerazione e in nome delle cui logiche sono stati calpestati i diritti e le tutele di intere generazioni di lavoratori, di intere comunità, come, in questo caso, quella tarantina. E ciò che più mi disgusta in queste ore, è il sentir levarsi le voci indignate di più parti sociali del Paese che, anziché parlare con un unica voce di biasimo a questi capitani di ventura senza scrupoli, dando manforte all’operato del Governo, si schierano dalla loro parte e  attaccano il Governo, reo evidentemente ai loro occhi, di avere ristabilito la supremazia della legge, davanti alla quale ogni soggetto deve essere uguale.

Ho assistito al levarsi di scudi unanime contro il Governo di Confindustria, il che non mi sorprende, fra cani non si mordono, ma anche dei Sindacati, quelli che, per definizione, dovrebbero in primis tutelare la salute e il lavoro dei loro iscritti. Hanno fatto la loro scelta mandando il loro ultimatum al Governo: mantenere i posti di lavoro a tutti i costi, ridiamo lo scudo ad Arcelor e fanculo alle tutele ambientali. Ed infine, ma anche questo non mi sorprende, ho ascoltato tutta una corte di nani e ballerine dire la loro. Uno come Calenda, quello che da pavido ministro aveva firmato per lo Stato un contratto capestro a tutto vantaggio di Arcelor Mittal, spargere fango su Luigi Di Maio (che quel contratto l’aveva fatto modificare in extremis a tutela dei lavoratori) e, addirittura, ricevere il plauso di uno scribacchino servo di Berlusconi come Sallusti e della Gruber, quella di casa al Bilderberg. Poteva un ex bibitaro come Di Maio, essere all’altezza del suo ruolo? Le colpe sono tutte le sue, hanno sentenziato trionfi della loro boria. Cose che voi umani…

Ho ascoltato Renzi (quello che lo scudo penale l’aveva introdotto nel 2015, quando era primo ministro), oggi attaccare il suo stesso governo per averlo tolto, dimenticandosi che solo pochi giorni prima l’annullamento dello scudo l’aveva votato anche lui.

Ho letto nelle facce di Salvini e Meloni la malcelata contentezza di vedere una tegola così grossa cadere sul Conte II. Tifano, questi personaggi, perché su Ilva il Governo finalmente cada per mettersi loro ai posti di comando e poi, magari, continuare ad avallare altre schifezze come il TAV o come il Mose, che fu l’orgia dei tangentari.

Ho ascoltato mezze calzette tipo la Gelmini, la Bernini, dire le loro scempie banalità per guadagnarsi il loro pezzetto di scena, perché non se le caga più nessuno.

Ognuno di questi soggetti ha i suoi buoni motivi personali o di bottega per remare contro questo Governo e, da bravi amici del giaguaro, sostengono le pretese di soggetti che pretendono di dettare legge in casa nostra. E in tutto questo vociare confuso sto qui, seduta, a chiedermi a chi interessa veramente del destino di Taranto e dei tarantini. Forse ai 5 Stelle? Credo di sì, ma temo di non sbagliare se dico che saranno proprio loro a pagarne lo scotto più alto.

https://infosannio.wordpress.com/2019/11/05/arcelor-mittal-lascia-ilva-5-stelle-capro-espiatorio/

domenica 18 novembre 2018

Padova, Terra dei Fuochi: “fabbrica” di rifiuti abbandonata da 14 anni. Bonifiche a rilento e la prescrizione salva gli imputati. - Veronica Ulivieri

Padova, Terra dei Fuochi: “fabbrica” di rifiuti abbandonata da 14 anni. Bonifiche a rilento e la prescrizione salva gli imputati

Oltre 50mila tonnellate di immondizia tossica e pericolosa in un sito di una società che faceva da fulcro di un traffico illecito di monnezza sepolta sotto linee ferroviarie e autostrade. L'azienda è fallita, l'area con la spazzatura è rimasta (vicino a un canale a rischio esondazione). I residenti: "Puzza terribile, avremo un cancro". Chi paga? Le casse pubbliche. Ma le procedure vanno a rilento. Anche perché la Regione non risponde a sindaci e comunità.

Più di 50mila tonnellate di rifiuti anche tossici e pericolosi, ammassati da 14 anni in due capannoni fatiscenti, a ridosso delle case e vicino a un canaleSembra lo scenario di uno degli angoli più degradati della Terra dei fuochi e invece il sito della ex C&C si trova nella ricca provincia di Padova, tra i comuni di PernumiaBattaglia Terme e Due Carrare. Nei primi anni Duemila è stato il fulcro di un lucroso traffico illecito di monnezza finita sepolta in opere pubbliche e private, compresa la linea ferroviaria dell’Alta velocità. Ora, mentre i condannati in primo grado si sono visti condonare le pene o hanno beneficiato della prescrizione, i cittadini aspettano invano la bonifica, ammorbati dall’odore acre che, a distanza di anni, i rifiuti continuano a sprigionare e preoccupati per le conseguenze sulla salute e sull’ambiente. Qui, ci sono stati in questi anni un inizio di incendio sedato in tempo e una tromba d’aria a 100 metri di distanza, mentre il vicino canale, le cui acque arrivano al fiume Brenta e da lì al mare, ha rischiato più volte di esondare. Se non ci sono state conseguenze drammatiche si deve soprattutto alla fortuna. Meno alle istituzioni, che tra lentezze e mancanza di risorse sono riuscite in questi anni ad avviare solo i primi interventi. Presto grazie a fondi regionali 4500 tonnellate di monnezza dovrebbero essere portate via dal capannone. Ma le altre 45mila rimarranno.
Monnezza sepolta nelle opere pubbliche. La storia comincia nel 2002, quando Fabrizio Cappelletto mette in piedi la C&C, un’attività per produrre conglomerati cementizi dai rifiuti in due stabilimenti, uno nel Padovano e l’altro in provincia di Venezia. L’azienda però, come riveleranno le indagini del Corpo forestale di Treviso con l’inchiesta “Il mercante di rifiuti”, è il centro di un traffico illecito di monnezza. Nello stabilimento, infatti, secondo gli investigatori arrivano rifiuti di ogni tipo, compresi scarti pericolosi e contaminati da alti livelli di idrocarburi e metalli pesanti. Nonostante siano inadatti a finire nei sottofondi stradali, vengono impastati con sabbia e cemento in miscele puzzolenti e inviati in cantiere, mettendo in piedi, scrive il giudice nella sentenza di primo grado indulgendo a una citazione letteraria, un “enorme e immondo commercio di anime morte”. 
Così, con l’aiuto di complici e ditte conniventi pagate per ricevere l’impasto, il “Conglogem” inventato dall’azienda finisce sotto la linea dell’Alta Velocità Padova-Venezia, e viene usato nella costruzione di uno svincolo stradale a Padova, così come in altri cantieri pubblici e privati in VenetoEmilia Romagna e Lazio. “Il composto era così tossico da aver inquinato l’ambiente nei cantieri dove è stato usato. In teoria i siti noti sono già stati bonificati, ma di fatto è impossibile sapere tutti i luoghi dove è stato usato, perché nessuno degli imputati ha mai fatto dichiarazioni in merito”, spiega a ilfattoquotidiano.it Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare, che insieme all’associazione la Vespa e al comitato Sos C&C porta avanti la protesta da anni.
“Puzza terribile, moriremo tutti con un cancro”. Le indagini sulla C&C cominciano nel 2004, dopo le proteste dei cittadini. “Una puzza terribile, c’è ammoniaca. Moriremo tutti con un cancro da qualche parte”, dice un’impiegata dell’azienda a Cappelletto in una telefonata intercettata dagli inquirenti nello stesso anno. Odore che, secondo il giudice del tribunale di Venezia, non poteva non sentire chi accettava il Conglogem in cantiere e che tutt’oggi, nelle giornate di vento, la gente continua ad avvertire intorno alla ex 
fabbrica, poi messa sotto sequestro nel 2005. A preoccupare non è solo la puzza in sé: “I due capannoni hanno le pareti spanciate, quando piove ci sono infiltrazioni d’acqua e si formano pozzanghere di percolato, con il rischio concreto di diffusione degli inquinanti nell’ambiente”, dice Miazzi. “Dentro i cumuli arrivano anche a 7 metri di altezza e sono addossati ai pilastri in metallo e alle pareti in lamiera, mettendo a rischio la struttura visto che potrebbero risultare corrosivi”, aggiunge il sindaco di Battaglia Terme Massimo Momolo. “Se viene un’alluvione, una bufera o tromba d’aria è un problema. Dal canale vicino al sito l’acqua poi va a finire in laguna”, spiega il collega di Pernumia, Luciano Simonetto.
Per i rifiuti chi paga? Le casse pubbliche. I lavori per ripristinare l’area, invece, sono partiti molto tempo dopo: nel 2009 il sito è stato incluso tra quelli di interesse regionale da bonificare e nel 2010, cinque anni dopo il sequestro dei capannoni, sono state rimosse le 3.500 tonnellate di rifiuti anche pericolosi ammassati all’esterno. Le spese, si legge nella relazione sul Veneto della commissione bicamerale Ecomafie del 2016, sono state coperte “solo in parte dalle fideiussioni che la società C&C, per legge, avrebbe dovuto prestare a favore dell’amministrazione provinciale per poter operare”. L’azienda era già stata dichiarata fallita nel 2005, mentre anche la Cedro, proprietaria dei capannoni dove operava la C&C è uscita di scena grazie a una sentenza del Tar secondo il quale – al contrario di ciò che sostenevano Comune e Provincia – non c’è stata responsabilità della Cedro per abbandono dei rifiuti e inquinamento.
Presto nuovi lavori, ma nessun piano per la bonifica.Nel frattempo, nel 2009, gli 11 imputati sono stati condannati in primo grado complessivamente a 40 anni di reclusione, ma a causa della prescrizione intervenuta nel 2012 il processo è sfociato in un nulla di fatto. Gli altri nove imputati, tra cui Cappelletto, hanno patteggiato: come si legge nella relazione della commissione Ecomafie, per tutti la pena è stata condonata. 
Oggi, mentre alcuni dei personaggi coinvolti nell’inchiesta invocano il diritto all’oblio chiedendo di cancellare il proprio nome da alcuni siti web, la collettività si trova a portare sulle spalle tutto il peso delle oltre 50mila tonnellate di rifiuti rimaste nella ex C&C. Tra poco dovrebbero iniziare i lavori, finanziati dalla Regione con 1,5 milioni di euro, per rimuovere 4500 tonnellate. A preoccupare è però quello che rimarrà: una montagna da circa 44mila tonnellate di monnezza contaminata e un’area da bonificare, con costi stimati per oltre 10 milioni di euro e nessun segnale chiaro di nuove risorse stanziate dal bilancio regionale.
La Regione non risponde a sindaci e consiglieri.
“Nei tre Comuni”, spiega Momolo, “a fine ottobre abbiamo approvato all’unanimità tre mozioni per chiedere alla Regione un piano di intervento pluriennale da 2 milioni di euro all’anno”. Pochi giorni dopo il consiglio regionale del Veneto ha approvato all’unanimità una mozione presentata dal consigliere di Liberi e Uguali Piero Ruzzante, che impegna la giunta a elaborare un piano per la completa bonifica, finanziandolo nel 2019 con 2 milioni di euro delle risorse previste dalla legge speciale per Venezia. “In sede di discussione di bilancio, tra poche settimane, verificheremo che tale impegno venga mantenuto. Dopo quindici anni le 50mila tonnellate di rifiuti tossici sono ancora lì, è inaccettabile che non ci sia ancora un piano per la bonifica del sito. La giunta Zaia è avvisata: la salute dei cittadini non può più aspettare”, ha detto Ruzzante. Alla domanda se intenda stanziare le risorse chieste dai tre sindaci e dai consiglieri, la Regione non risponde a ilfatto.it. Da Venezia si limitano a ricordare la mozione e spiegare che “potrebbero essere necessari dagli 11 ai 15 milioni di euro per smaltire il tutto”. Il sindaco Simonetto si dice fiducioso e attacca i comitati dei cittadini, che pure hanno contribuito a scrivere le tre mozioni comunali: “Sto cercando di fare quello che è possibile, ma non posso chiedere alla Regione di darmi domattina un altro milione. Tra comitati e rompiscatole ce ne sono dappertutto, i soldi però sono riuscito a portarli a casa io. Tutti questi soloni sono andati anche a Bruxelles ma non ho visto il risultato. Io con la Regione del Veneto ho un buon rapporto, sono sicuro che mi daranno risposte”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 18.11.2018

lunedì 19 settembre 2016

Riscaldamento globale, la Groenlandia e quei relitti (inquinanti) della guerra fredda. - Renzo Rosso.

Riscaldamento globale, la Groenlandia e quei relitti (inquinanti) della guerra fredda

Un recente editoriale di Lauren Lipuma su Earth & Space Science News la più diffusa rivista di geofisica pone un problema di politica ambientale abbastanza complicato. Al culmine della guerra fredda, nel 1959 gli Stati Uniti costruirono in Groenlandia Camp Century, una base militare completamente racchiusa all’interno della calotta glaciale.
Lo scopo ufficiale della base era quello di testare nuove tecniche di costruzione adatte alla regione artica e di condurre ricerche scientifiche dedicate all’ambiente artico. Poi il progetto si allargò un po’ e quasi subito Camp Century si trasformò in un sito top secret dove sperimentare la fattibilità di uno schieramento missilistico per colpire meglio l’Unione Sovietica in caso di guerra nucleare.
La Groenlandia è territorio danese. Anche se gli Stati Uniti avevano l’approvazione della Danimarca per costruire Camp Century, il programma missilistico, noto come Project Iceworm, pare fosse stato tenuto segreto. Dopo alcuni anni di operatività, il Progetto Iceworm fu accantonato dal Pentagono, la base fu dismessa nel 1967 e il corpo degli ingegneri dell’esercito rimosse il reattore nucleare che alimentava il campo. Ma furono lasciate lì tutte le infrastrutture e i rifiuti prodotti nel frattempo, pensando che tutto sarebbe stato congelato e sepolto per sempre dalle nevi perenni.
Da alcuni decenni, il cambiamento climatico sta scaldando l’Artico più di ogni altra regione della Terra. Un inventario aggiornato dei rifiuti abbandonati nel sito ha stimato la presenza di 200mila litri di gasolio, quanto basta a un auto per fare 80 volte il giro del mondo. E non è il solo residuo, perché ci sono anche 240mila litri di acque di scarico, comprese le acque reflue, assieme a un volume sconosciuto di refrigerante a bassa radioattività usato dal generatore nucleare, oltre a un’imprecisata quantità di policlorobifenili (Pcb), un inquinante tossico.
Le simulazioni climatiche indicano che, già nel 2090, la calotta di ghiaccio che copre Camp Century potrebbe passare da un regime di accumulo a un regime di scioglimento nivale. La fusione del ghiaccio comporterebbe la sicura mobilitazione dei residui e dei rifiuti con un pericolo ambientale non trascurabile. In tal caso, gli inquinanti sarebbero trasportati verso l’oceano con gravi rischi per gli ecosistemi marini. Per contro, bonificare oggi il sito sarebbe un’opera molto difficile, poiché i rifiuti sono sepolti sotto decine di metri di ghiaccio; e l’operazione sarebbe non solo costosa, ma anche tecnicamente assai impegnativa se non quasi impossibile.
Chi sarà però responsabile della bonifica quando i rifiuti emergeranno? Sebbene Camp Century fosse una base statunitense, è in terra danese. La Groenlandia è sì un territorio danese, ma è ora in regime di auto-governo. Nessuno ha mai preso in considerazione le implicazioni del cambiamento climatico sui rifiuti abbandonati in siti politicamente ambigui. E forse ci sono altre situazioni simili in giro per il mondo, per fortuna non tutte in ambienti così estremi.

mercoledì 17 giugno 2015

La Cassazione e la vendita di frutta esposta all’aperto ai gas di scarico. - Gianfranco Amendola

La Cassazione e la vendita di frutta esposta all’aperto ai gas di scarico

La messa in commercio di frutta all’aperto ed esposta agli agenti inquinanti costituisce una violazione dell’obbligo di assicurare l’idonea conservazione delle sostanze alimentari e rispettare l’osservanza di disposizioni specifiche integrative del precetto”. Lo ha stabilito la Cassazione confermando, con una articolata sentenza (sezione terza, Pres. Teresi, relatore Ramacci, n. 6108 del 2014), la condanna inflitta ad un fruttivendolo dal Tribunale di Nola per aver detenuto per la vendita “tre cassette di verdura esposte all’aperto e, pertanto, a contatto con agenti atmosferici e gas di scarico dei veicoli in transito”.
La legge richiamata dal supremo Collegio è quella alimenti (n. 283/1962) il cui art. 5, lett. b), punisce, con l’arresto o con l’ammenda, l’impiego nella produzione, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione.
Il punto di partenza è costituito da una lontana sentenza della Cassazione a sezioni unite (n. 443 del 2002) la quale aveva chiarito che questa disposizione tende a perseguire un autonomo fine di benessere, assicurando una protezione immediata all’interesse del consumatore affinché il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura; aggiungendo che, ai fini della configurabilità del reato, non vi è la necessità di un cattivo stato di conservazione riferito alle caratteristiche intrinseche delle sostanze alimentari, essendo sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, che devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza. La giurisprudenza successiva aveva precisato che l’interesse protetto dalla norma è quello del rispetto del cd. ordine alimentare, volto ad assicurare al consumatore che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte per la sua natura; e pertanto, non è necessaria la prova di un danno alla salute ma è sufficiente accertare che le modalità di conservazione siano in concreto idonee a determinare il pericolo di un danno o deterioramento delle sostanze o che vi sia detenzione in condizioni igieniche precarie; escludendo, in proposito la necessità di analisi di laboratorio o perizie, ben potendo il giudice di merito considerare altri elementi di prova, come le testimonianze di soggetti addetti alla vigilanza, quando lo stato di cattiva conservazione sia palese e, pertanto, rilevabile da una semplice ispezione.
Per la condanna, quindi, si è ritenuta sufficiente la testimonianza della polizia giudiziaria, la quale ha evidenziato che tre cassette di verdura erano esposte all’aperto e, pertanto, a contatto con agenti atmosferici e gas di scarico dei veicoli in transito.
Conclusione: “Tale diretto accertamento da parte della polizia giudiziaria risulta del tutto sufficiente a giustificare l’affermazione di penale responsabilità, evidenziando una situazione di fatto certamente rilevante a tal fine, la cui sussistenza risulta peraltro confermata dallo stesso ricorrente, laddove, nell’atto di impugnazione, si riconosce che la verdura era esposta per la vendita sul marciapiede antistante l’esercizio commerciale”.
Questo dice la Cassazione e mi è sembrato opportuno ricordarlo all’inizio dell’estate in un paese dove l’esposizione di frutta e verdura all’aperto senza alcuna cautela, a ridosso di strade congestionate dal traffico, è dato di comune esperienza.
Certo, ci sono tante altre cose che contano a tutela della nostra salute, soprattutto per quanto concerne le modalità di coltivazione, l’uso di pesticidi, i mezzi di trasporto ecc., specie in un momento in cui gli organi pubblici di controllo sono in grandi difficoltà per mancanza di mezzi e di personale.
Né intendo sollecitare alcuna denunzia penale. La vera penalizzazione per chi si comporta con disprezzo per l’igiene e la salute pubblica è quella che può derivare dalle nostre scelte.
Cambiare fruttivendolo può essere un primo, piccolo ma importante passo per farci sentire e far comprendere che non tutti sono disposti a subire tutto.

sabato 26 aprile 2014

Reati ambientali, la legge che fa saltare i processi. E la grande industria ringrazia. - Thomas Mackinson e Francesco Casula


Porto Tolle, Tirreno Power, Ilva: per magistrati ed esperti di diritto il testo in discussione al Senato sembra scritto appositamente per limitare le indagini e mettere a rischio procedimenti in corso. Il Pd si divide. Realacci parla di "eccesso di critica dei magistrati", Casson bolla il testo come un "regalo alle lobby".

Chi inquina paga, ma solo se ha violato disposizioni amministrative, se il danno è irreversibile e la sua riparazione è “particolarmente onerosa” per lo Stato. In altre parole, chi inquina rischia di non pagare affatto. E’ ​all’ultimo giro di boa il testo unificato che introduce nel codice penale i delitti contro l’ambiente. Nelle intenzioni dovrebbe rendere dura la vita a chi infierisce su natura, paesaggio e salute pubblica. Ma il testo, per come è scritto, rischia invece di diventare un lasciapassare anche per le violazioni più gravi e di mettere a rischio anche le indagini e i processi penali già in corso, a partire da quelli sui disastri da inquinamento ambientale provocati dalle centrali termoelettriche di Savona e Rovigo. E anche nell’eventuale processo contro i vertici Ilva, la nuova norma, grazie al parametro dell’irreversibilità, potrebbe trasformarsi in un regalo ai Riva. A lanciare l’allarme sono magistrati ed esperti di diritto dell’ambiente che sperano ancora di sensibilizzare Palazzo Madama dove, in vista dell’approvazione, si ripropone anche lo scontro ideologico tra la destra sensibile alle ragioni dell’industria e la sinistra ambientalista, nonché un ruvido confronto tra le diverse anime di quest’ultima.
Licenziato alla Camera e ora all’esame delle commissioni Ambiente e Giustizia del Senato, il disegno di legge 1345 introduce delitti in materia ambientale, prima puniti solo con contravvenzioni, ad eccezione del traffico illecito di rifiuti (2007) e della “combustione illecita” del decreto Terra dei Fuochi (2014). Viene inoltre introdotto all’articolo 452 ter il “disastro ambientale”, punito con pene da 5 a 15 anni. Mano pesante, dunque, se non fosse che la norma è scritta con tanti e tali paletti da renderne impossibile l’applicazione, almeno ai casi davvero rilevanti. E lo dicono gli stessi magistrati che devono utilizzarlo. Il nuovo testo qualifica infatti il “disastro” come “alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema” quando quasi mai, per fortuna, il danno ambientale si rivela tale. In alternativa come un evento dannoso il cui ripristino è “particolarmente oneroso” e conseguibile solo con “provvedimenti eccezionali”. Ma il degrado ambientale potrebbe verificarsi anche se ripristinabile con mezzi ordinari. L’estensione della compromissione e del numero delle persone offese cozzano poi con la possibilità che il disastro possa consumarsi in zone poco abitate e non per forza estese.
Il disegno di legge sposta poi in avanti la soglia di punibilità configurando il disastro come reato di evento e non più di pericolo concreto, come è invece il “disastro innominato” (l’art. 434 del codice penale, comma primo), la norma finora applicata dalla giurisprudenza al disastro ambientale. Sinora era stato possibile punire chi commetteva “fatti diretti a causare un disastro”, quando vi era stato il pericolo concreto per la pubblica incolumità, anche senza che il disastro avvenisse perché non sempre il disastro è una nave che perde petrolio, un incendio o un’esplosione che producono evidenza immediata del danno. A volte, come nel caso dell’inquinamento da combustibili fossili e delle microparticelle come l’amianto, il disastro può restare “invisibile” a lungo prima che emergano i segnali della compromissione dell’ambiente e della salute della collettività. Segnali che, a volte, solo le correlazioni della scienza medica e dei periti riescono a individuare tra una certa fonte inquinante e il pericolo concreto di aumento di patologie e degrado ambientale in una certa area. Sempre che i magistrati abbiano potuto disporre le indagini penali.
Il procuratore generale di Civitavecchia Gianfranco Amendola, storico “pretore verde”, sottolinea la terza grave lacuna. “Deriva dalla evidentissima volontà del nuovo testo di collegare i nuovi delitti alle violazioni precedenti”. Il reato può essere contestato solo nelle ipotesi in cui sia prevista una “violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale, o comunque abusivamente, cagiona un disastro ambientale”. Come se fosse lecito, altrimenti, provocare enormi danni all’ambiente. “Fare addirittura dipendere la punibilità di un fatto gravissimo dall’osservanza o meno delle pessime, carenti e complicate norme regolamentari ed amministrative esistenti significa subordinare la tutela di beni costituzionalmente garantiti a precetti amministrativi spesso solo formali o a norme tecniche che, spesso, sembrano formulate apposta per essere inapplicabili”.
I processi a rischio: da Rovigo alla Terra dei FuochiIl testo di legge sembra sdoganare allora la linea difensiva (finora sconfitta) in alcuni processi celebri, a partire da quello di Radio Vaticana dove, a fronte di prove indiscutibili sulla molestia e la nocività delle emissioni, la difesa si era incentrata sul fatto che la norma contestata (art. 674 c.p.) richiede che l’evento avvenga “nei casi non consentiti dalla legge”. Ma soprattutto apre grandi incognite su quelli ancora da celebrarsi. Allunga un’ombra, ad esempio, sull’appello del processo appena concluso a Rovigo che ha visto condannare gli amministratori di Enel Tatò e Scaroni per le emissioni in eccesso della centrale a olio di Porto Tolle. C’è il rischio concreto, se la norma sarà licenziata così dal Senato, che in sede d’Appello ci sarà una normativa più favorevole ai vertici del colosso energetico che depenalizza proprio il reato per cui sono stati condannati.
“Nel dibattimento la maggior difficoltà è stata proprio quella di individuare specifiche disposizioni violate nella gestione dell’impianto”, spiega il legale di parte civile Matteo Ceruti. Era poi quello il cavallo di battaglia della difesa degli imputati, la non illeicità delle emissioni della centrale che – grazie a deroghe e proroghe connesse per gli impianti industriali esistenti – avrebbe potuto “legittimamente” emettere in atmosfera fino al 2005 enormi quantità di inquinanti, ben oltre i limiti imposti dall’Europa sin dagli anni Ottanta del secolo scorso. Il Tribunale ha invece condannato gli amministratori per violazione dell’art. 434, 1° comma cp che punisce i delitti contro la pubblica incolumità, evidentemente ritenendo – sulla base delle consulenze tecniche disposte dalla Procura – che l’enorme inquinamento provocato ha comunque messo in pericolo la salute degli abitanti del Polesine e l’ambiente del Parco del Delta del Po”. La stessa fine, a ben vedere, potrebbe fare anche il procedimento penale di Savona che ha condotto al sequestro dei gruppi a carbone della centrale termoelettrica Tirreno Power di Vado Ligure. Il decreto di sequestro emesso dal gip si fonda, tra l’altro, proprio sulla circostanza che per integrare il reato di disastro innominato non è necessario dimostrare che l’impianto abbia funzionato in violazione di specifiche prescrizioni di legge o dell’autorizzazione.
Lo scontro a suon di emendamenti. Il Pd diviso verso l’approvazione Sul testo si annuncia ora, in previsione del rash finale, uno scontro durissimo nelle commissioni Giustizia e Ambiente. Salvo slittamenti, si potranno presentare emendamenti fino al 29 aprile. E mentre la destra sta a guardare, è la sinistra che si ritrova il problema di far passare il testo com’è o tentare di arginare le falle. Ne rivendica la bontà il proponente, Ermete Realacci (Pd) che non lesina stoccate ai critici che “rischiano di mandare la palla in tribuna, quando sono vent’anni che si lotta per avere reati ambientali nel codice penale”. “Non sono un giurista né un magistrato – dice – se ci sono margini per migliorarlo ben venga. Ma ricordo che alcune toghe avevano criticato anche l’introduzione del reato penale di smaltimento dei rifiuti pericolosi che è stato invece determinante per combattere le ecomafie. Senza quel reato le inchieste sulla Terra dei Fuochi non sarebbero state possibili”. Non è una legge su misura delle industrie? “A volte si cerca la perfezione mentre tocca cercare vie praticabili. Questo testo riesce a tenere insieme l’equilibrio delle pene, che devono essere proporzionali rispetto ad altri reati e la certezza del diritto rispetto al quadro normativo, perché non è che se sono un magistrato posso arrestare chi voglio”.
Parole molto diverse da quelle di un altro esponente di punta del Pd, Felice Casson, vicepresidente della commissione Giustizia al Senato, per 25 anni toga di peso in fatto di reati e processi ambientali (a partire dal Petrolchimico di Porto Marghera, 1994). Casson ha colto subito nel testo il rischio di un favore ai gruppi industriali sotto assedio delle procure. E ha depositato a sua volta un disegno di legge in materia di reati ambientali. “L’avevo anche detto a quelli di Legambiente quando, a inizio legislatura, erano venuti in Senato a presentare il ddl: il testo, che resta un importante passo avanti, presenta però criticità di impostazione tecnica tecniche tali da impattare pesantemente su indagini e processi in corso. Allora proposi di modificarlo e rinviarlo alla Camera, piuttosto che farlo entrare in vigore così. A questo punto presenteremo emendamenti correttivi che integrino le disposizioni dei due testi, ma sarà dura. Perché c’è una pressione forte da parte del centrodestra per difendere il testo e farlo passare così com’è, ritenendolo perfetto proprio perché l’impostazione è tale da limitare le possibilità dell’azione penale della magistratura”.
Ilva e la norma sull’irreversibilità del danno
Anche a Taranto, nel procedimento contro la famiglia Riva e i vertici dell’Ilva per il disastro ambientale causato dalle emissioni nocive della fabbrica, il nuovo provvedimento legislativo potrebbe rappresentare un assist agli imputati. Già perché per dimostrare che il danno compiuto dalla fabbrica è “irreversibile” sarebbe necessario dimostrare di aver compiuto una serie di tentativi di bonifica che non hanno prodotto risultati. Nel capoluogo ionico, finora, le bonifiche sono state solo una promessa sulla carta: nonostante i mille proclami e la nomina di garanti, commissari e subcommissari, le operazioni di risanamento del quartiere Tamburi e delle zone colpite dalle emissioni dell’acciaieria, a oggi, nessuna operazione è concretamente partita. In un’aula di tribunale, quindi, al di là delle perizie, l’accusa non avrebbe strumenti per dimostrare che quelle operaizoni sono state inutili. Al collegio difensivo, in definitiva, basterebbe puntare sull’assenza di elementi certi per dimostrare che il danno arrecato non è, oltre ogni ragionevole dubbio, irreversibile. Un regalo che, tuttavia, non migliorerebbe di molto la situazione dei Riva che devono rispondere anche di un reato ben più grave come l’avvelenamento di sostanze alimentari per la contaminazione di oltre 2mila capi di bestiame nelle cui carni fu ritrovata diossina proveniente, secondo le perizie del tribunale, dagli impianti dell’Ilva. Un reato, che richiede la corte da’assise come per i casi di omicidio, punito con una reclusione che va da un minimo di 15 anni a un massimo, se l’avvelenamento ha causato la morte di qualcuno, anche con l’ergastolo.

domenica 7 ottobre 2012

Ecco il lodo “Salva Ilva”, bozza pronta per il prossimo Consiglio dei ministri. - Salvatore Cannavò


Ilva Taranto

Alla lettura del testo, che Il Fatto ha potuto consultare e che non è ancora ufficiale, appare chiaro, in effetti, che l'impatto delle nuove norme, se approvate, sarebbe quello di garantire l'attività produttiva allo stabilimento di Taranto, nonostante quanto stabilito dal Gip e la sostenibilità economica degli interventi di bonifica.

Il provvedimento è entrato l’altro ieri in Consiglio dei ministri, ma è stato rinviato alla prossima seduta. La bozza però è già scritta e prevede un pacchetto di semplificazioni normative che fanno discutere gli ambientalisti. In particolare i due articoli dedicati alla bonifica ambientale, ribattezzati articoli “salva Ilva”. Alla lettura del testo, che Il Fatto ha potuto consultare e che non è ancora ufficiale, appare chiaro, in effetti, che l’impatto delle nuove norme, se approvate, sarebbe quello di garantire l’attività produttiva allo stabilimento di Taranto, nonostante quanto stabilito dal Gip e la sostenibilità economica degli interventi di bonifica. Gli articoli “incriminati” sono due, il 21 e il 22. Con l’articolo 21 si tratta la “Gestione delle acque sotterranee emunte” cioè la messa in sicurezza della falda acquifera.
A essere oggetto di “semplificazione” è il decreto legislativo 152 del 2006, il cosiddetto Codice dell’Ambiente, di cui verrebbe sostituito l’articolo 243. “Nei casi in cui – si legge – le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, oltre alla eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile (corsivo nostro, ndr) devono essere adottate misure di attenuazione della diffusione della contaminazione conformi alle finalità generali e agli obiettivi di tutela, conservazione e risparmio delle risorse idriche”. L’intervento, insomma, è stabilito “ove possibile ed economicamente sostenibile” senza precisare nemmeno a chi spetti la valutazione circa la possibilità e l’economicità di tali misure. “Sarebbe una vergogna perché fa cadere il principio europeo secondo cui chi inquina paga” commenta al Fatto, il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli.
Va inoltre aggiunto che “gli interventi di conterminazione fisica o idraulica con emungimento e trattamento delle acque di falda contaminate” – cioè gli unici realmente efficaci, secondo gli ambientalisti – sono ammessi solo nei casi in cui non è altrimenti possibile eliminare, prevenire o ridurre a livelli accettabili il rischio sanitario associato alla circolazione e alla diffusione delle stesse. Una diminuzione dell’efficacia, quindi, sancita per legge. All’articolo 22, invece, si passa a una norma che sembra scritta apposta per risolvere il contenzioso che si è aperto a Taranto in questi mesi. Sotto il titolo di “procedura semplificata per le operazioni di bonifica o di messa in sicurezza”, si legge che “Nei siti contaminati, in attesa degli interventi di bonifica e di riparazione del danno ambientale, possono essere effettuati tutti gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di infrastrutturazione primaria e secondaria, nonché quelli richiesti dalla necessità di adeguamento a norme di sicurezza, e più in generale tutti gli altri interventi di gestione degli impianti e del sito funzionali e utili all’operatività degli impianti produttivi ed allo sviluppo della produzione”. Nessuno stop agli impianti, dunque, come l’Ilva chiede da mesi in relazione alle disposizione del Gip ma anche della Procura tarantina. “Si tratta di un gran favore economico fatto agli inquinatori d’Italia, non solo a Taranto” commenta ancora Bonellli. “Se non saranno economicamente sostenibili gli interventi non saranno fatti”.
Altre misure di alleggerimento vengono previste anche per quanto riguarda il permesso di costruire in caso di vincoli, per cui scatta il silenzio-assenso, ma anche per le norme che regolano la Valutazione di impatto ambientale (Via) per la quale scompare l’obbligo di pubblicazione del provvedimento in Gazzetta Ufficiale e nel Bur regionale. Basterà la pubblicazione sul sito web dell’Autorità competente.