Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
domenica 16 febbraio 2020
Vitalizi hanno ragione i 5 stelle quel taglio è stato sacrosanto. Franco Bechis (Il Tempo)
Chi ha fatto il politico tutta la vita non ci rimette. Chi pochi anni ha comunque un’altra pensione. Dove mai sarebbe il problema del taglio dei vitalizi operato finalmente in questa legislatura dopo anni di battaglie contro una ingiustizia palese? Su questo personalmente sto con il Movimento 5 stelle e la sua piazza di Roma e non potrebbe essere diversamente, visto che in prima persona avevo fatto all’inizio della scorsa legislatura questa battaglia pubblicando su Libero una lunga inchiesta che metteva a confronto gli assegni vitalizi percepiti dai “papponi delle pensioni” con i contributi da loro versati per ottenerle. Credo che fra tutti i percettori dei vitalizi in quel momento solo una ventina percepivano assegni mensili dovuti ai versamenti effettuati. Tutti gli altri avevano percepito per lunghissimi anni importi del tutto sproporzionati ai contributi versati. Più di cento avevano già incassato oltre un milione di euro di vitalizio avendo versato meno di 20 mila euro per ottenerlo. Manco al lotto si ottengono vincite di questo tipo. Per anni ho sentito ripetere dai parlamentari che sarebbe servita una legge costituzionale per toccarli, ed era una falsità perché il diritto al vitalizio non è stabilito nè dalla Costituzione nè da alcuna legge ordinaria. Ma solo da una delibera segretata dell’ufficio di presidenza della Camera a metà degli anni Cinquanta, e giustamente una analoga delibera ha cambiato quelle regole. Non vedo come una qualsiasi commissione interna alle Camere non possa riconoscere questo diritto a cambiare le regole del gioco senza forzare il diritto in modo strumentale.
C’è una sola cosa che cambierei nelle decisioni prese dalle Camere: il tetto al vitalizio. Perché se deve essere rapportato ai contributi versati e il parlamentare ha svolto questa funzione per 45 anni andando in pensione assai tardi, non c’è motivo per non dargli il vitalizio calcolato sui contributi versati anche se l’importo dovesse essere molto alto. Fuori da palazzo questo potrebbe accadere? No. E allora non c’è motivo di mettere quel tetto. Riguarda pochi, ma indebolisce la ragione del taglio a tutti gli altri. Uno deve avere in base a quello che ha versato e basta. E non si crea alcun dramma. Chi ha fatto per molte legislature il parlamentare non avrà tagliato il proprio assegno perché se lo è guadagnato. Chi lo ha fatto per poche settimane, mesi o anni avrà in ogni caso un’altra pensione dal lavoro che ovviamente avrà dovuto fare per mantenersi una volta fuori dal Palazzo.
Oltretutto anche oggi non è vero che i parlamentari hanno lo stesso trattamento di tutti gli altri italiani. Con 4 anni e 6 mesi di lavoro loro hanno diritto ad una pensione contributiva di circa mille euro netti a partire dal 65° anno di età. Con 9 anni di lavoro hanno oltre 2 mila euro netti al mese a partire dal 60° anno di età. C’è qualche altro italiano che ha le stesse condizioni pensionistiche? No. Quindi i privilegi, sia pure ridotti rispetto al passato, esistono ancora oggi. E non è proprio il caso di riportare in vigore quelli di prima buoni al massimo per qualche corte medioevale.
Riveder le stelle - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 16 Febbraio
La piazza strapiena contro i vitalizi di ritorno e la restaurazione strisciante non risolve nessuno dei problemi drammatici in cui si è avvitato il M5S. Ma è un segnale. Anzitutto di vita. E poi del fatto che chi smette di guardarsi l’ombelico parlandosi addosso su questioni interne e sventola bandiere di principio e non di bottega trova sempre migliaia di cittadini pronti a impegnarsi. Il sentimento dominante, in piazza Santi Apostoli, era l’orgoglio per le cose fatte da un movimento vilipeso e combattuto da tutti che ha mantenuto molte promesse, ma non è stato ripagato, anzi paradossalmente è stato punito dagli elettori. I militanti sono cambiati e maturati come i loro eletti. Hanno rinunciato alle battaglie impossibili, sia quelle magari giuste ma irrealizzabili, sia quelle sbagliate e velleitarie del complottismo e dell’antieuropeismo. La sfida del governo ha fatto bene a tutti, dalla base ai vertici, costretti a diventare in fretta uomini di governo e molti – anche se non tutti e fra mille errori – ci sono riusciti. Tant’è che da due anni, altro paradosso, il “movimento del vaffa” è diventato il principale fattore di stabilità, prima contro il cazzaro verde, poi contro il cazzaro rosé. Ha espresso un premier, Conte, che ha imparato più in fretta di tutti. E un capo politico, Di Maio, che ha traghettato nelle istituzioni il più grande movimento di protesta mai nato in Italia, fino al gesto raro e dignitoso delle dimissioni.
Se i 5Stelle si riappropriano delle piazze, accanto a quelle delle Sardine che per prime ne hanno meritoriamente strappato il monopolio a Salvini, è un bene per loro e per tutti: anche perché la nuova piazza non è più contro il governo di turno (sarebbe autofagia), ma per alcune battaglie. A partire da quelle sulla legalità che hanno portato all’anticorruzione, al carcere per gli evasori, alla blocca- prescrizione e all’accorcia- processi, grazie anche alla santa pazienza di Bonafede, accolto ieri come una star. Ora però, anziché crogiolarsi nel primo bagno di folla dopo mesi di cicuta, il M5S dovrebbe far tesoro di quella piazza. La smetta di discutere di regolette interne e dispettucci ombelicali. Faccia alleanze nelle regioni dove può vincere un candidato presentabile. Fissi al più presto questo benedetto congresso degli “stati generali”, lo apra a tutti i contributi esterni possibili, si dia una leadership seria e credibile e un pacchetto di nuovi traguardi da tagliare. La casta gli ha regalato lo sdegno contro i nostalgici dei vitalizi e dell’impunità, oltre al demenziale referendum di marzo contro il taglio dei parlamentari. La casta lavora per i 5Stelle. I 5Stelle la smetteranno di giocare contro se stessi?
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La piazza contro i vitalizi. - Tommaso Merlo
Per abolire i vitalizi ci è voluta la mezza rivoluzione del 4 marzo. I cittadini sono dovuti entrare nei palazzi e li hanno aboliti in qualche settimana dopo che per anni le caste raccontavano la balla che era impossibile farlo. Mantenuta la promessa era lecito aspettarsi che quella storiaccia dei vitalizi fosse finalmente conclusa. Ed invece no. Ed invece le caste hanno avuto l’incredibile sfacciataggine di fare ricorso. L’ennesima dimostrazione della cultura avida ed arrogante che ha corroso la democrazia italiana fino a devastarla. Il vitalizio è un furto legalizzato, uno dei privilegi più vergognosi anche perché mentre le caste si arricchivano a dismisura intascandosi soldi non dovuti, i cittadini scivolavano in povertà. E ci scivolavano perché quelle stesse caste governavano coi piedi pensando solo a se stesse, alle loro carriere, alle loro prebende. I vitalizi sono l’emblema non solo della malapolitica, ma anche della sua totale irresponsabilità e indifferenza rispetto alle cose fatte, ai risultati raggiunti. Un sacco di soldi. A vita. Come premio per aver rovinato il paese. Quando grazie al miracolo del 4 marzo i vitalizi sono stati aboliti, ci si sarebbe aspettati che le caste sconfitte sposassero la nuova fase politica delineata dalle urne. Ed invece no. Ed invece i cittadini sono ancora costretti a scendere in piazza per evitare che con qualche gioco sporco nei palazzi le caste ricomincino ad arricchirsi alla faccia dei poveri cristi che i soldi se li devono guadagnare fino all’ultimo euro. I cittadini sono costretti ancora a scendere in piazza perché le caste vogliono calpestare la volontà popolare ed imporre ancora una volta i propri meschini interessi sulla collettività. Un cinismo davvero impressionante. Se davvero le caste la spuntassero sui vitalizi, sarebbe per loro una vittoria simbolica e l’inizio di una vittoriosa restaurazione. La piazza contro i vitalizi non è quindi solo un grido di rabbia contro un indegno privilegio che uscito dalla porta rischia di rientrare dalla finestra, ma è un grido contro il tentativo politico del vecchio sistema partitocratico di fregarsene del 4 marzo e riprendere l’abbuffata interrotta. I vitalizi, l’impunità con la prescrizione, il referendum contro il taglio dei parlamentari, la distruzione mediatica e politica della forza che ha vinto le elezioni e osato intaccare i privilegi delle caste e dimostrare che un diverso modo di fare politica sia possibile. Tutti tasselli di un disegno restauratore che rischia di andare a buon fine se non ci sarà un’altra veemente reazione popolare. Molti cittadini sembrano essersi arresi, altri hanno abboccato ai camuffamenti con cui il vecchio sistema cerca di riciclarsi, altri attendono in disparte sfiduciati e confusi, altri han pensato bene di tradire. Cedimenti e divisioni che fanno solo il gioco delle caste e della loro restaurazione. La piazza contro i vitalizi serve anche a questo. A ricordare a tutti che dal 4 marzo in poi si son vinte tante battaglie ma la guerra per il cambiamento è ancora lunga. E non bisogna mollare.
https://infosannio.wordpress.com/2020/02/15/la-piazza-contro-i-vitalizi/?fbclid=IwAR0KBvXwxlOBWSO3oHzY6t4JKkPHnEU01O4XYKyPT-CNyK6yAjIa_YsnZLw
sabato 15 febbraio 2020
Guerra delle nomine, Renzi è tornato sul luogo del delitto. - Giorgio Meletti e Carlo Tecce
Sei anni fa #enricostaisereno. L’ultima volta stravinse, ora rischia le briciole tra Fraccaro, Gualtieri e D’Alema. Brutti segnali su Privacy e Agcom.
Il 14 febbraio 2014, Enrico Letta salì al Quirinale per dimettersi da presidente del Consiglio. La fretta di Matteo Renzi di fargli le scarpe a colpi di #enricostaisereno, con il supporto logistico di Giorgio Napolitano, aveva un’unica spiegazione: installarsi a Palazzo Chigi in tempo per gestire la tornata di 400 nomine nelle società controllate dallo Stato, a cominciare dalle più appetibili, Eni, Enel, Poste e Leonardo. L’analisi di Riccardo Fraccaro, esponente non di primissimo piano dei Cinque Stelle, fu assai severa: “La verità è che ha fretta di gestire la prossima infornata di poltrone. Il neopremier è un cinico arrivista, un arrampicatore politico senza scrupoli. Invece di occupare militarmente le poltrone, adotti una procedura trasparente per il rinnovo dei vertici dei più importanti gruppi d’Italia”.
Sei anni dopo, anche ieri la festa di San Valentino è stata segnata dai venti di crisi soffiati da Renzi. Ancora una volta la vera posta in palio, nell’immediato, è la spartizione delle poltrone. Solo che stavolta è Fraccaro al tavolo principale. Spentasi la stella di Luigi Di Maio e passata la meteora Stefano Buffagni, è lui, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a rappresentare i Cinque Stelle al suk delle poltrone (per la verità non trasparente come Fraccaro pretendeva da giovane). M5S e Pd, come azionisti di riferimento del governo Conte, conducono il gioco. Nicola Zingaretti ha la sponda dell’amico Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, aiutato a sua volta nel disbrigo della pratica dall’attivissimo capo della segretaria Ignazio Vacca. Essendo Gualtieri titolare del decisivo potere formale di proposta dei grossi nomi da portare al Consiglio dei ministri, in questa fase il ruolo di Giuseppe Conte è ridimensionato, non avendo voluto, o potuto, accollarsi la mediazione tra i variegati appetiti della maggioranza. Anche se non ci sono tavoli formali, sono Fraccaro e Zingaretti (alias Gualtieri, alias Vacca) a condividere la discussione, già fitta a quattro-cinque settimane dall’appuntamento con le nomine, con i piccoli azionisti della maggioranza, ex Leu e Italia viva, e con un grande vecchio come Massimo D’Alema che gioca più che altro a titolo personale e, ringalluzzito dalla nomina dell’amico Rodolfo Errore alla presidenza della Sace, si dà molto da fare convinto com’è di poter ancora contribuire al bene del Paese suggerendo qualche nome giusto per una delle circa 400 poltrone in palio.
A differenza di sei anni fa, non potendo sbancare Palazzo Chigi e fare bottino pieno, Renzi è costretto a minacciare sfracelli per ottenere qualche poltroncina in più. “Finora non ci hanno fatto toccare palla”, piagnucolano i suoi, anonimamente, per giustificare le insensate intemperanze del capo sulla prescrizione. Martedì in aula è in agenda la partita preliminare per le autorità per la Privacy e per le Comunicazioni, con otto mesi di ritardo e con una forte sensazione di ennesimo rinvio. Al momento Renzi è fuori dalla contesa, un pessimo segnale che l’ha innervosito. Neppure stavolta, però, i deputati e i senatori dovrebbe riuscire a scegliere i quattro componenti della Privacy e i quattro dell’Agcom più il presidente che spetta al governo con l’avallo dei due terzi delle commissioni competenti.
In mancanza di accordo nel collegio, la Privacy va al più anziano: il centrodestra aveva puntato sul candidato senatore Ignazio La Russa, classe 1947, il centrosinistra ha replicato col giurista Pasquale Stanzione (1945), il centrodestra ha sfoderato l’imbattibile Raffaele Squitieri (1941), ex Corte dei Conti. In questo stato di salute la maggioranza di governo si prepara ad affrontare i dossier Eni & C con un’accortezza: non toccare gli amministratori delegati, anche se vacillano Luigi Ferraris di Terna e Alessandro Profumo di Leonardo, e cambiare i presidenti, con le eccezioni di Gianni De Gennaro di Leonardo e Patrizia Grieco di Enel, protetta dall’ad Francesco Starace, il manager che è talmente tranquillo da spendersi per altri e non per sé.
Per la multinazionale del petrolio serve l’impresa più coraggiosa: dimostrare che le vicende giudiziarie di Claudio Descalzi e i conflitti d’interessi con gli affari passati della moglie non siano una variabile. A chiedere la conferma del numero uno pare siano scesi in campo i Paesi dove l’Eni estrae greggio, con i quali Descalzi si è dato molto da fare, e la loro domanda di continuità non ha trovato insensibile il Quirinale.
I Cinque Stelle non farebbero barricate se però il Pd ci mette la faccia intestandosi il terzo mandato dell’amministratore delegato. In tal caso Marco Alverà di Snam, legato al sistema dell’ex ad Paolo Scaroni e in campagna elettorale da mesi, aspetterebbe il prossimo giro. In Poste si aspetta la formalità per brindare al bis di Matteo Del Fante, adottato dai renziani e poi adorato dai pentastellati, ma soprattutto scortato dal vice Giuseppe Lasco; invece Emma Marcegaglia, il presidente di Eni, non ha speranze e Giampaolo Massolo (oggi in Fincantieri) scalpita.
In Fincantieri, sotto la guida di Giuseppe Bono, è cominciata la carriera di Fabrizio Palermo. Il capo di Cassa Depositi e Prestiti si considera uomo di industria e pensa a un ritorno nel settore, magari in Leonardo, ma Profumo ha un buon rapporto con M5S e Pd e la spinta del Quirinale. Palermo libererebbe l’ambita poltrona in Cdp. Ma un governo così debole non può permettersi un disegno così ampio. La politica si accontenta di ritoccare qua e là i vertici delle aziende e di scannarsi per i consigli di amministrazione.
MAFIE Mafia, Graviano parla ancora di Berlusconi: “Ha tradito anche Dell’Utri. Io volevo fargli arrivare un messaggio per ricordargli i debiti”. - Lucio Musolino e Giuseppe Pipitone
Il boss di Brancaccio torna a fare il nome dell'ex presidente del consiglio al processo di Reggio Calabria e conferma di aver cercato di mandargli un messaggio tramite Adinolfi: "Devi ricordargli che io ancora sono vivo". E fa il nome dell'ex senatore: "Berlusconi ha fatto leggi che hanno danneggiato anche lui". Poi continua a lanciare segnali: "Ormai sono rimasto io solo che sono a conoscenza di queste situazioni. Su via D’Amelio, porterò a tante malefatte che ancora sono nascoste". E nega di aver concepito un figlio in carcere: "Non racconterò mai a nessuno come è andata."
Nega, glissa, prova spesso a cambiare discorso, poi torna a lanciare segnali. “Hanno fatto leggi ingiuste per non farmi uscire dal carcere, perché ormai sono rimasto io solo che sono a conoscenza di queste situazioni“. E poi: “Porterò altra documentazione su via D’Amelio, porterò a tante malefatte che ancora sono nascoste”. E ancora: “Sulla mia vita c’è un libro pronto, forse anche più di un libro”. Di cosa parla Giuseppe Graviano, il boss che custodisce il segreto delle stragi? “Io non sono uno che manda messaggi“, sostiene lui, specificando che possono metterlo “anche sottosopra ma non dirò niente. Se vogliono aspettare quello che dico…”. Di sicuro c’è solo che il boss di Brancaccio è tornato a fare il nome di Silvio Berlusconi. E lo ha fatto ammettendo di aver chiesto al compagno d’ora d’aria, Umberto Adinolfi, d’inviare un messaggio all’ex presidente del consiglio. Oggetto della comunicazione: “Doveva ricordarsi che io sono ancora vivo“. Dopo l’interrogatorio fiume di una settimana fa, Graviano ha continuato la sua deposizione al processo ‘Ndrangheta stragista, in corso davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria, dove è accusato dell’omicidio di due carabinieri. Non è un pentito, ma un mafioso stragista sepolto al 41 bis da molteplici ergastoli. Non è un collaboratore ma un imputato: come tale può mentire. E infatti nega praticamente ogni accusa. “Io- sostiene – non ho fatto le stragi, sono innocente. Ho una dignità, una serietà, non dico bugie”. Dice anche che “sono state fatte leggi incostituzionali, perché la corte costituzionale li sta dichiarando incostituzionale”.aQuali leggi? “Quelle fatte per non farci uscire dal carcere, dopo che ci hanno accusato delle stragi“. Oggi è tornato a dipingere il suo arresto, a Milano nel gennaio del 1994, come “un progetto che è stato voluto da più persone“. Cosa intende dire? “Dopo essere stato arrestato – ha detto Graviano – ogni giorno ricevevo visite, e non so se venivano registrate. C’erano carabinieri, poliziotti. E alla fine mi hanno detto: ‘Ora le accuseremo per tutte le stragi d’Italia, da qui non uscirà più. E poi ho ricevuto l’ordinanza di custodia cautelare di Roma”.
“Berlusconi ha tradito Dell’Utri” – La novità è che questa volta Graviano fa il nome di Marcello Dell’Utri. Lo storico braccio destro di Berlusconi fino a oggi ha recitato il ruolo del convitato di pietra nei racconti del boss di Brancaccio, che da tre udienze risponde alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Per la corte di Cassazione, infatti, Dell’Utri è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra l’ex premier e Cosa nostra almeno fino al 1992. Per la corte d’assise di Palermo, invece, i rapporti tra Dell’Utri e il clan sono proseguiti anche negli anni successivi ed erano intrattenuti con lo stesso Graviano. Una ricostruzione sulla quale non esistono ad oggi prove considerate definitive dalla Suprema corte. Il boss di Brancaccio, in ogni caso, dimostra di essere ferrato sulle sentenze: “Dell’Utri è stato condannato solo fino al 1992, poi non hanno creduto a Spatuzza”. Quindi pronuncia una frase sinistra: “Berlusconi ha tradito anche Dell’Utri, ha danneggiato anche il signor Dell’Utri“. Cosa vuol dire? Quando e Perché il leader di Forza Italia avrebbe tradito il suo storico braccio destro? “Ha fatto leggi che hanno danneggiato anche lui e tutti i detenuti che hanno il 41 bis. Per non fare uscire noi dal carcere, ha iniziato a fare leggi. E pure Dell’Utri è stato condannato“, sostiene Graviano.
“Volevo mandare un messaggio a Berlusconi, levati i debiti” – Madre natura, come lo chiamavano i suoi uomini, aveva già fatto il nome di Berlusconi quando l’aggiunto Lombardo gli ha contestato alcune delle intercettazioni in carcere con Adinolfi. Sono i colloqui registrati per ordine della procura di Palermo, durante i quali Graviano sembra chiedere al compagno di socialità di aiutarlo per far pervenire un messaggio a qualcuno fuori dal carcere. A chi si riferisce? “Riguarda sempre i soldi di mio nonno investiti con Berlusconi, lui non rispettava il patti. E mio nonno aveva accordi con queste persone”, risponde Graviano. Il boss è al carcere duro da 26 anni, ma sembra avvertire ancora una sorta di senso di responsabilità nei confronti delle fantomatiche persone che negli anni ’70 avevano investito 20 miliardi a Milano tramite suo nonno, come ha raccontato il padrino una settimana fa. “Io non volevo fare brutta figura con l’impegno di mio nonno verso quelle persone”. Ma che tipo di messaggio voleva inviare a Berlusconi? E tramite chi? “Io ho detto di avvicinare una persona a lui vicina e digli di andarsi a levare i debiti, perché lui sa tutto. Doveva solamente ricordare a Berlusconi che io ancora sono vivo. Mio cugino Salvo era morto, ma io sono vivo”. I fatti raccontati da Graviano, però, risalgono agli anni ’90, perché il boss di Brancaccio ci pensa solo nell’aprile del 2016 a mandare un messaggio a Berlusconi? “Perché il signor Adinolfi doveva essere scarcerato a breve”. Il pm lo incalza: “Lei aveva esigenza di mandare messaggi a Berlusconi anche prima?”. Risposta: “Sì, perché a me interessava rispettare gli impegni per le persone che hanno il 20% da dividere tra loro“. Quindi è tornato a citare la fantomatica scrittura privata, che secondo lui, proverebbe gli investimenti dei palermitani nelle aziende di Arcore: “La scrittura privata c’è. C’è una lettera del 2002, quando è morto mio cugino. Mi scrive sua moglie e mi dice: tuo cugino vuole parlare con te. Mi voleva parlare forse di questa lettera”. Ma chi era l’uomo scelto da Adinolfi per far pervenire questo messaggio a Berlusconi? “Dottore, non mi faccia fare il nome, per cortesia“, risponde Graviano.
“Mio figlio concepito mentre ero in carcere? Non racconterò mai a nessuno come è andata” – Uno dei passaggi più oscuri delle intercettazioni in carcere di Graviano è quello in cui il boss confida ad Adinolfi come sia riuscito ad avere un figlio quando già era detenuto in regime di 41 bis.”Non racconterò mai a nessuno come ho concepito mio figlio mentre ero al carcere duro, perché sono cose intime mie. Dico solo che non ho fatto niente di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche Dio e sono rimasto soddisfatto. Non ho chiesto alcuna autorizzazione, ma ho approfittato della distrazione degli agenti del Gom…”, ha detto il capomafia, smentendo quanto dice nelle intercettazioni. “Io tremavo, lei era nascosta ni rrobi ( tra la biancheria, ndr). E dormivamo nella cella assieme, cose da pazzi. Tremavo, tremavo”, aveva raccontato al compagno d’ora d’aria, non sapendo di essere intercettato in carcere dai magistrati della procura di Palermo. “Vedi che fare il figlio nel carcere, questo per me è stato un miracolo“, è un altro passaggio delle intercettazioni. “Sono venuti tanti colleghi a chiedere, non venivano autorizzati i permessi”, dice oggi il boss al pm, sostenendo di avere approfittatto di una “distrazione” di alcuni agenti del Gom. All’epoca, il boss e il fratello Filippo Graviano erano detenuti all’Ucciardone, per partecipare ad alcuni processi. Non si è mai capito in che modo fossero riusciti a mettere incinta le rispettive mogli: ci furono complicità? E a che livello? Oggi Graviano ha detto che “i politici non c’entrano niente…” mentre sulla procedura di concepimento fu istruito da”un ginecologo che non posso certo nominare”. Fino a pochi anni fa si pensava che i fratelli Graviano avessero fatto ricorso all’inseminazione artificiale, ma Graviano non ha confermato questa ipotesi. I figli dei due boss si chiamano entrambi Michele, come il nonno, ucciso a Brancaccio nel 1982.
“Ho incontrato Berlusconi 3 volte”- Sette giorni fa Graviano aveva sostenuto che Filippo Quartararo, suo nonno materno, era stato il primo contatto tra la famiglia e i palermitani che hanno investito denaro a Milano. “Negli anni ’70 mio nonno aveva messo i soldi nell’edilizia al nord. Mio nonno materno, Quartanaro Filippo, era una persona abbastanza ricca. Era un grande commerciante di ortofrutta. Il contatto è col signor Berlusconi, glielo dico subito”. La smentita dell’avvocato Niccolò Ghedini e l’annuncio di querele sono arrivate praticamente a udienza in corso. Graviano è entrato nel dettaglio degli investimenti citati: “Venti miliardi di lire con il venti percento. Quando è morto mio padre, mio nonno mi prese in disparte e mi disse ‘Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu. Poco dopo mio nonno, che aveva più di 80 anni, morì”. Il vecchio Quartararo muore nel 1986, Michele Graviano, padre di Giuseppe nel 1982. In quei quattro anni Graviano sostiene di aver avuto il tempo di fare la conoscenza di Berlusconi. “Dopo la morte di mio padre, mio nonno mi dice: c’è sta situazione, io sto andando avanti. Tuo papà non vuole che mi rivolgo a voi. Io e mio cugino Salvo abbiamo detto: ci pensiamo. Ci siamo consigliati col signor Giuseppe Greco. E abbiamo deciso di sì e siamo partiti per Milano. E mio nonno ci ha presentato al signor Berlusconi, abbiamo capito cosa era questa società”. Il boss di Brancaccio sostiene di aver incontrato “tre volte” Berlusconi a Milano, persino quando era latitante. In un’occasione avrebbe cenato con il leader di Forza Italia in un appartamento di Milano 3. Mai, però, aveva citato Dell’Utri. Fino a oggi.
Agcom multa la Rai per 1,5 milioni di euro: “Violate indipendenza, imparzialità e pluralismo”. Pd: “Grave, via Salini e i vertici”.
L'Autorità ha diffidato l'azienda a cessare immediatamente i comportamenti contestati, anche al fine di consentire la verifica del corretto utilizzo delle risorse pubbliche (canone) e private (pubblicità) per il finanziamento delle attività e della programmazione di servizio pubblico.
Multa da 1,5 milioni di euro per la Rai. Il Consiglio dell’Agcom ha accertato, con due diverse delibere, alcune violazioni degli obblighi di contratto di servizio da parte della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo. In particolare, in merito a numerosi episodi riguardanti la programmazione diffusa dalle tre reti generaliste, l’Autorità ha accertato il mancato rispetto da parte di Rai dei principi di “indipendenza, imparzialità e pluralismo”. L’Agcom – si legge in una nota – ha inoltre accertato il mancato rispetto dei principi di non discriminazione e trasparenza, in relazione al pricing effettivamente praticato, dalla concessionaria Rai, nella vendita degli spazi pubblicitari.
Il Pd chiede le dimissioni di Salini e dei vertici Rai – “La pronuncia (e multa) di Agcom sulla Rai dice cose chiare e gravi. Se si aggiunge la trasferta sanremese il quadro è completo. Cambiare e cambiare velocemente è l’unica via”, ha scritto su Twitter il vicesegretario Pd Andrea Orlando. Il vicecapogruppo dem alla Camera Michele Bordo è andato oltre tornando a chiedere le dimissioni dell’amministratore delegato: “A Salini”, ha dichiarato, “non resta che valutare la propria permanenza al vertice dell’azienda così come la permanenza degli attuali vertici dell’informazione. Le ripetute violazioni del contratto di servizio, accertate dall’Agcom e richiamate più volte in questi mesi, rappresentano una doppia beffa ai danni della qualità dell’informazione Rai per i cittadini che dovranno anche pagare la multa visto che ne sono azionisti attraverso il governo. Per Salini e per il management è l’ora della verità”. Per il deputato di Italia viva Michele Anzaldi siamo di fronte a “una sanzione senza precedenti”: “E’ la conseguenza inevitabile di quanto vado denunciando da mesi con esposti, interrogazioni, dichiarazioni: questa Rai rappresenta uno dei punti più bassi mai raggiunti dall’informazione del servizio pubblico”.
Per il Movimento 5 stelle ha parlato il vicepresidente della commissione di Vigilanza Rai Primo Di Nicola: “La notizia della sanzione alla Rai da parte dell’Agcom è molto grave”, ha detto, “ma altrettanto grave è che la stessa Agcom dia notizia della multa per gravi violazioni del contratto di servizio pubblico senza indicare le trasmissioni a cui si riferisce. Che nell’azienda pubblica ci siano dei problemi non è una novità e noi li abbiamo denunciati. Ma questa sortita dell’Authority e le divisioni interne che emergono sulla decisione presa destano preoccupazione e allarme. Aspettiamo che Agcom fornisca la documentazione dettagliata sulla vicenda. Dopodiché come MoVimento 5 Stelle faremo le nostre valutazioni. Sulla Rai non accettiamo giochetti. La par condicio è fondamentale, ma dall’Authority vogliamo sapere chi l’ha violata e come”.
La sanzione “per l’ampiezza e la durata delle infrazioni” – L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, si legge sempre nella nota ufficiale, ha deciso di irrogare la sanzione, in ragione dell’ampiezza e della durata delle infrazioni, ma tenendo conto di alcune iniziative ripristinatorie. Ha votato contro il commissario Mario Morcellini, mentre si è astenuto il commissario Francesco Posteraro. “Mi sono astenuto perché ritengo che le violazioni riscontrate non siano di gravità tale da richiedere l’irrogazione di una sanzione”, ha detto all’Ansa Posteraro. L’Autorità ha poi diffidato la concessionaria pubblica chiedendo che elimini, nella vigenza del contratto di servizio 2018-2022, le violazioni e gli effetti delle infrazioni accertate, adottando specifiche misure volte a garantire il rispetto degli obblighi e a evitare il ripetersi delle violazioni in futuro, richiamando l’importanza della responsabilità editoriale pubblica della concessionaria.
“Nella vigilanza della missione di servizio pubblico”, ha precisato ancora Agcom, “non sono le singole fattispecie, su cui la società ha spesso messo in atto azioni ripristinatorie o correttive, a rilevare ma l’effetto che tali condotte hanno generato e potrebbero generare sui valori della collettività e i diritti dei cittadini, nonché sul valore di utilità pubblica e sociale del canone del servizio della concessionaria”. L’Autorità ha inoltre accertato, all’unanimità, il mancato rispetto dei principi di non discriminazione e trasparenza, in relazione al pricing effettivamente praticato, dalla concessionaria, nella vendita degli spazi pubblicitari. Di conseguenza, l’Agcom ha diffidato la Rai a cessare immediatamente i comportamenti contestati, anche al fine di consentire ad Agcom la verifica del corretto utilizzo delle risorse pubbliche (canone) e private (pubblicità) per il finanziamento delle attività e della programmazione di servizio pubblico.
L’azienda: “Stupore per la decisione” – Poco dopo la notizia delle delibere, la Rai ha diffuso una nota per ribadire che “prende atto con grande stupore delle decisioni del Consiglio di oggi dell’Autorità”. L’azienda ha quindi difeso il proprio operato: “Nel riservarsi di esaminare in dettaglio il provvedimento quando sarà notificato, Rai non mancherà di rappresentare nelle opportune sedi la correttezza del proprio operato in coerenza con il ruolo assegnatole dalle leggi, anche da quelle che tutelano l’autonomia dei giornalisti”. E ancora: “Il Servizio pubblico resta sempre impegnato, anche nella presente complessa congiuntura, nella tutela della libera informazione e nella rappresentazione corretta del dibattito presente nel Paese a beneficio in primo luogo dei cittadini che pagano il canone, tutto ciò sempre nel più scrupoloso rispetto delle norme cui è sottoposto”. Quindi la nota conclude: “Il Servizio pubblico resta sempre impegnato, anche nella presente complessa congiuntura, nella tutela della libera informazione e nella rappresentazione corretta del dibattito presente nel Paese a beneficio in primo luogo dei cittadini che pagano il canone, tutto ciò sempre nel più scrupoloso rispetto delle norme cui è sottoposto”.
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