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lunedì 29 aprile 2024

Caccia alla materia oscura: assioni e nuove speranze. - Arianna Guastella

Le ricerche sulla materia oscura, la misteriosa componente invisibile che costituisce circa l'85% della materia dell'Universo, stanno compiendo passi avanti.

Le ricerche sulla materia oscura, la misteriosa componente invisibile che costituisce circa l’85% della materia dell’Universo, stanno compiendo passi avanti grazie a nuove tecniche sperimentali progettate per rilevare le ipotetiche particelle note come assioni.

Materia oscura e esperimenti innovativi.

Sfruttando tecnologie all’avanguardia e un approccio collaborativo interdisciplinare, gli scienziati stanno spingendo i confini della nostra conoscenza su questa sfuggente componente del cosmo. Le nuove tecniche includono esperimenti di ricerca diretta, dove si cercano direttamente le interazioni degli assioni con la materia ordinaria, e approcci indiretti, come la ricerca di prodotti dell’annientamento degli assioni.

Nonostante decenni di ricerche e numerosi esperimenti, la natura della materia oscura rimane un mistero. Questa componente invisibile continua a eludere la nostra comprensione. Ora, un nuovo esperimento, in costruzione presso l’Università di Yale negli Stati Uniti, offre una nuova speranza per svelare i segreti di questa affascinante sostanza.

La materia oscura è presente nell’Universo fin dalle sue origini, esercitando la sua influenza sulla formazione di stelle e galassie. Tuttavia, la sua natura sfuggente la rende invisibile alla luce e a qualsiasi altro tipo di materia ordinaria. Le sue interazioni con il mondo visibile sono così deboli da renderla estremamente difficile da rilevare e studiare.

Materia oscura: una nuova speranza con l’esperimento ADMX.

Il nuovo esperimento di Yale, chiamato “ADMX” (Axion Dark Matter Experiment), si differenzia dai precedenti tentativi grazie al suo approccio innovativo. ADMX cercherà di individuare direttamente gli assioni, ipotetiche particelle che potrebbero costituire una parte significativa della materia oscura.

L’esperimento impiegherà un rivelatore estremamente sensibile, raffreddato a temperature vicine allo zero assoluto, per catturare i minuscoli segnali prodotti dagli assioni mentre interagiscono con un campo magnetico.

L’impegno e la tenacia della comunità scientifica nella ricerca della materia oscura sono davvero ammirevoli. ADMX rappresenta un passo importante in questa sfida, offrendo una nuova opportunità per svelare i misteri di questa componente fondamentale del nostro universo.

Il successo di questo esperimento potrebbe rivoluzionare la nostra comprensione della fisica fondamentale e aprire nuove strade per esplorare l’origine e l’evoluzione del cosmo.

Il modello standard della fisica delle particelle, pur rappresentando un’incredibile conquista scientifica, è ormai considerato incompleto. Questa teoria, che descrive le particelle elementari e le loro interazioni, presenta alcune discrepanze con le osservazioni sperimentali, lasciando irrisolte importanti questioni.

Per questo motivo, la fisica moderna si trova ad affrontare una sfida cruciale: la ricerca di nuove particelle fondamentali che possano completare il modello standard e fornire una descrizione più completa dell’universo.

Il neutrone, una particella elementare che compone il nucleo atomico insieme al protone, rappresenta un enigma per la fisica moderna. Nonostante la sua neutralità complessiva, la teoria prevede che sia formato da tre quark carichi. Di conseguenza, ci si aspetterebbe che il neutrone presenti delle zone con cariche positive e negative, generando un cosiddetto “momento di dipolo elettrico.

Numerosi esperimenti condotti per misurare questo momento di dipolo, tuttavia, hanno portato a un risultato sconcertante: esso risulta troppo piccolo per essere rilevato, attestandosi su un valore inferiore a una parte su dieci miliardi. Questo valore infinitesimale, definito come “limite superiore”, ha spinto i fisici a interrogarsi sulla sua natura.

Nel mondo della fisica, lo zero matematico rappresenta un’affermazione di grande portata. Alla fine degli anni ’70, i fisici delle particelle Roberto Peccei e Helen Quinn, seguiti da Frank Wilczek e Steven Weinberg, hanno tentato di riconciliare le teorie con le osservazioni.

Essi hanno proposto che il parametro in questione non fosse effettivamente zero, bensì una quantità dinamica che nel tempo ha perso la sua carica, giungendo a zero dopo il Big Bang. Secondo i calcoli teorici, un simile evento avrebbe dovuto generare una moltitudine di particelle leggere e sfuggenti.

Queste particelle, soprannominate “assioni” in omaggio a una marca di detersivi per la loro capacità di “risolvere” il problema dei neutroni, possiedono caratteristiche che le rendono candidate ideali per costituire la materia oscura. Se effettivamente generate nell’universo primordiale, gli assioni dovrebbero ancora esistere oggigiorno. Ancora più interessante, le loro proprietà coincidono perfettamente con le aspettative per la materia oscura.

Per questi motivi, gli assioni rappresentano una delle principali ipotesi per la natura della materia oscura, stimolando numerose ricerche e la sperimentazione di sofisticati esperimenti per la loro individuazione.

Nonostante la loro natura elusiva, gli assioni non sono completamente invisibili. La loro debole interazione con altre particelle implica che, seppur minimamente, possono comunque interagire. In determinate circostanze, come in presenza di un campo magnetico, gli assioni invisibili potrebbero addirittura trasformarsi in particelle ordinarie, tra cui i fotoni, la componente fondamentale della luce.

Questa possibilità rappresenta una ghiotta opportunità per i fisici sperimentali. La trasformazione degli assioni in fotoni apre la strada al loro rilevamento, rendendoli finalmente evidenti. Numerosi esperimenti sono stati progettati e condotti con questo obiettivo, sfruttando diverse tecniche per catturare i flebili segnali lasciati dagli assioni in interazione con la materia ordinaria. Tuttavia, la sfida è ardua.

La debolezza dell’interazione e la rarità di questi eventi rendono il rilevamento degli assioni un’impresa estremamente complessa. I ricercatori devono impiegare strumenti e tecnologie all’avanguardia, spingendo i confini della sensibilità e dell’accuratezza per sperare di cogliere i timidi segnali di queste particelle elusive.

La ricerca degli assioni rappresenta un capitolo affascinante della fisica moderna, un’avventura scientifica che unisce teoria e sperimentazione nella caccia a una materia misteriosa che permea il nostro Universo. La potenziale scoperta degli stessi non solo svelerebbe un tassello fondamentale del cosmo, ma potrebbe anche aprire nuove strade per la comprensione di fenomeni fisici ancora enigmatici.

Numerosi esperimenti ingegnosi sono stati ideati per stanare l’elusiva particella di assioni all’interno di un ambiente controllato di laboratorio. Uno di questi approcci consiste nel tentare di convertire la luce negli stessi, per poi riconvertirli in luce dall’altro lato di una parete.

L’approccio attualmente più sensibile, tuttavia, si concentra sull’alone di materia oscura che permea la nostra galassia (e di conseguenza la Terra). Un dispositivo chiamato aloscopio viene utilizzato per questo scopo. Esso consiste in una cavità conduttiva immersa in un forte campo magnetico. Questa tecnica dovrebbe catturare la materia oscura che ci circonda (ipotizzando che si tratti di assioni), mentre il campo magnetico induce la conversione degli stessi in luce. Questo processo dovrebbe generare un segnale elettromagnetico all’interno della cavità, la cui frequenza oscilla in base alla massa specifica dell’assioni.

Funzionando come una radio, l’alosocopio necessita di essere regolato per intercettare la frequenza corretta. In pratica, le dimensioni della cavità vengono modificate per sintonizzarsi su diverse frequenze caratteristiche. Se la frequenza degli assioni non coincide con quella della cavità, è come sintonizzare una radio sul canale sbagliato, senza ricevere alcun segnale.

Materia oscura: nuovi esperimenti per svelare i segreti degli assioni.

La ricerca dell’assioni rappresenta una sfida entusiasmante per i fisici, che stanno impiegando tecniche innovative per svelare i segreti di questa particella fantasma. Gli esperimenti con gli alòscopi, sempre più sofisticati, ci avvicinano alla potenziale scoperta della materia oscura, che non solo amplierebbe la nostra conoscenza dell’universo, ma potrebbe anche aprire nuove frontiere nella fisica.

La scansione di tutte le frequenze potenziali per individuare gli assioni è come cercare un ago in un pagliaio, senza conoscere in anticipo il canale giusto. È come armeggiare con una vecchia radio, regolando la manopola con la speranza di intercettare un segnale debole in mezzo al rumore bianco.

Le sfide non si limitano a questo. La cosmologia indica le decine di gigahertz come la regione più promettente per la ricerca sugli stessi. Tuttavia, esplorare queste frequenze elevate richiede cavità troppo piccole per catturare un segnale significativo.

Per superare questo ostacolo, nuovi esperimenti come il nostro Axion Longitudinal Plasma Haloscope (Alpha) stanno adottando un approccio innovativo. Sfruttando i metamateriali, materiali compositi con proprietà globali che differiscono notevolmente da quelle dei loro componenti.

La costruzione dell’impianto Alpha è in corso e dovrebbe essere pronto per l’acquisizione dei dati entro qualche anno. La tecnologia alla base è promettente e rappresenta il frutto di una collaborazione tra fisici dello stato solido, ingegneri elettrici, fisici delle particelle e persino matematici.

https://reccom.org/caccia-alla-materia-oscura-assioni-e-nuove-speranze/

giovedì 7 marzo 2024

Le misteriose Bolle di Fermi. - Massimo Zito

Dieci anni fa, il telescopio spaziale per raggi gamma Fermi (Fermi Gamma-ray Large Area Space Telescope, Glast) della Nasa ha scoperto una coppia di giganteschi lobi di radiazione gamma, al centro della nostra galassia che si estendono per 50mila anni luce, 25mila anni luce sopra e 25mila anni luce sotto il disco galattico. Queste strutture sono state chiamate bolle di Fermi.

Le bolle di Fermi sono struttre scoperte oltre dieci anni fa dal telescopio spaziale per raggi gamma Fermi (Fermi Gamma-ray Large Area Space Telescope, Glast) della Nasa. Sono una coppia di giganteschi lobi di radiazione gamma, al centro della nostra galassia che si estendono per 50mila anni luce, 25mila anni luce sopra e 25mila anni luce sotto il disco galattico.

Questi lobi a forma di clessidra sono stati chiamati Bolle di Fermi.

Quando furono scoperte le bolle di Fermi nessuno ne aveva capito l’origine, tuttavia in uno studio pubblicato su The Astrophysical Journal due ricercatori cinesi dell’Osservatorio astronomico di Shanghai (Shao) dell’Accademia cinese delle scienze hanno proposto un nuovo modello che spiega sia l’origine delle bolle di Fermi che l’origine della struttura biconica a raggi X presente nel centro della Via Lattea, concludendo che sono lo stesso fenomeno, originato da onde d’urto generate da una coppia di getti provenienti da Sagittarius A*, il gigantesco buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia.

Le bolle sono due enormi lobi colmi di gas incandescente, raggi cosmici e campi magnetici. Sebbene invisibili a occhio nudo, sono molto luminose nello spettro dei raggi gamma, dove presentano bordi netti che coincidono con una struttura biconica evidente nella parte a raggi X dello spettro.

L’origine delle bolle di Fermi.

I ricercatori Guo Fulai e Zhang Ruiyu pensano che questa corrispondenza tra le due strutture possano avere la stessa origine. Inoltre, la struttura biconica a raggi X potrebbe essere spiegata dal guscio sottile dell’onda d’urto del gas incandescente, generata da un’esplosione di energia avvenuta 6 milioni di anni fa dal buco nero super massiccio centrale della nostra galassia, noto anche come Sagittario A * (o Sgr A *).

L’onda d’urto potrebbe essere iniziata quando il buco nero ha improvvisamente emesso due enormi getti di materia ionizzata in direzioni opposte lontano dal centro galattico a una velocità prossima a quella della luce

I ricercatori hanno spiegato che se i getti fossero stati abbastanza larghi e abbastanza potenti, avrebbero potuto creare due onde d’urto gemelle che spostandosi attraverso il gas su entrambi i lati del centro galattico lo avrebbero compresso e riscaldato, formando cosi le strutture a raggi X a forma di clessidra; i bordi delle onde d’urto, espandendosi nello spazio intergalattico per migliaia di anni luce in entrambe le direzioni, avrebbero originato le Bolle di Fermi. L’intero processo sarebbe durato circa un milione di anni.

Il modello di Fulai e Ruiyu indica che l’energia totale emessa dal buco nero super massiccio, durante la generazione dell’evento è paragonabile a quella rilasciata da circa 20mila supernove. La materia totale consumata da Sgr A* durante questo evento è circa 100 volte la massa del nostro Sole.

Guo fa notare che la struttura biconica a raggi X ha una base molto stretta, questo esclude che il fronte d’onda sia stato prodotto da formazione stellare. Al contrario, i getti collimati depositano rapidamente la maggior parte dell’energia a grandi distanze lungo la direzione del getto, portando naturalmente ad avere un fronte d’urto vicino al piano galattico molto stretto.

Secondo i due ricercatori cinesi, l’ipotesi delle onde d’urto spiega le temperature estremamente elevate delle bolle di Fermi e il fatto che i bordi inferiori delle bolle si sovrappongono perfettamente con le strutture a raggi X.

Secondo i due ricercatori, inoltre, se un evento, simile ma meno potente, di onde d’urto si fosse verificato qualche milione di anni dopo, potrebbe spiegare le strutture radio più piccole a forma di bolla osservate di recente nel centro galattico.

Secondo Guo, lo studio suggerisce con forza che circa cinque milioni di anni fa una coppia di potenti getti è stata emessa dal buco nero super massiccio per un periodo di un milione di anni e che questo rilascio abbia portato alla formazione delle gigantesche bolle di Fermi, che oggi ammiriamo.

https://reccom.org/le-misteriose-bolle-di-fermi/

sabato 2 marzo 2024

Una spiegazione semplice dell’entanglement quantistico. - Elena Buratin

 

L'entanglement, o correlazione quantistica, è un legame fra due o più particelle che hanno proprietà correlate.

L'entanglement, anche chiamato correlazione quantistica, è un legame fra due o più particelle che hanno proprietà correlate, chiamate stati quantici. Ma che cos'è esattamente l'entanglement? A che scala si manifesta? Chi lo ha teorizzato? Scopriamolo insieme!

Alcune nozioni base.

La meccanica classica, quella di Newton per intenderci, descrive le proprietà e il comportamento della materia a grande scala. La meccanica quantistica, invece, descrive  il comportamento microscopico di singole particelle che si comportano in modo contro-intuitivo, diversamente da come ci verrebbe spontaneo pensare. L'aggettivo "quantistico" deriva dal termine latino "quantum" riferito alla quantità che identifica il più piccolo pacchetto indivisibile di una certa grandezza.

Cos'è l'entanglement?

"Entanglement" (in inglese, "groviglio", "intreccio") è un termine coniato da Erwin Schrödinger nel 1935 e in meccanica quantistica indica un legame fra particelle. È definito da una funzione, chiamata funzione d'onda di un sistema, che descrive le proprietà delle particelle come fossero un unico oggetto, anche se le particelle si trovano ad enorme distanza. Questa correlazione permette alla prima particella di influenzare la seconda istantaneamente, e viceversa.

Ma non tutte le particelle sono "entangled", ovvero aggrovigliate. Affinché questa correlazione abbia luogo, cioè per far sì che le due particelle abbiano stati quantici correlati, queste due particelle devono essere prodotte simultaneamente da un'interazione fisica. Un tipico esempio di stato quantico è lo spin di una particella. Esso può assumere valore positivo o negativo. Quando abbiamo a che fare con particelle "entangled", quindi unite nel legame, la somma degli spin delle due particelle è pari a zero. Dunque se si misura lo spin di una delle due, automaticamente ed istantaneamente si conoscerà anche lo spin dell'altra.

È un po' come prendere un paio di guanti e di chiuderli separatamente in due scatole diverse. Se aprendo la prima scatola trovate il guanto destro, saprete immediatamente che nella seconda scatola c'è quello sinistro.

Ma com'è fatta la realtà quando nessuno la guarda? Gli spin delle due particelle sono definiti già in partenza o si materializzano solo nel momento dell'osservazione?

Diversi punti di vista.

Una prima corrente di pensiero fu capitanata da Niels Bohr, grande sostenitore della meccanica quantistica. Questa corrente riteneva che le particelle nascessero quando osservate e che solo la loro funzione onda del sistema fosse reale prima dell'osservazione.

Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen, invece, erano convinti che le particelle nascessero già con le loro caratteristiche (realismo locale), in quanto la relatività aveva dimostrato che nessuna informazione poteva trasmettersi istantaneamente, viaggiando più veloce della luce.

Questo fenomeno istantaneo, l'entanglement, doveva quindi essere legato a delle variabili nascoste, a noi sconosciute, le quali definiscono lo spin delle particelle prima ancora di effettuare l'osservazione.

Questi scienziati definirono la meccanica quantistica incompleta e mossero le loro critiche nel famoso paradosso EPR, acronimo derivato dalle loro iniziali.

Verifica sperimentale.

Nel 1964 John Bell identificò un metodo basato sulle probabilità, chiamato teorema di Bell, per capire se lo stato quantico delle due particelle entangled fosse definito fin dall'inizio (seguendo l'idea di Einstein, Podolsky e Rosen) o se si manifestasse solo a conseguenza dell'osservazione (come nell'ipotesi di Bohr).

A causa di difficoltà tecnologiche si dovette aspettare fino al 1982, quando Alain Aspect misurò il comportamento di fotoni entangled e validò la teoria di Bohr. Einstein aveva quindi torto.

Fintantoché le due particelle non vengono osservate, i loro spin rimangono indefiniti, ovvero entrambe le particelle hanno al tempo stesso spin positivo e negativo, secondo il principio di sovrapposizione degli stati. È la sola presenza dell'osservatore ad interferire con il sistema e a calarlo nella "realtà".

Conoscenza istantanea.

L'entanglement permette di conoscere istantaneamente il comportamento della seconda particella, non per via di un trasferimento di informazioni più rapido della luce, ma perché le due particelle sono di fatto un unico sistema governato da una sola funzione d'onda.

Una perturbazione esterna locale, come l'arrivo di un fotone o di un osservatore, non altera solo il comportamento della prima particella, ma influenza tutto il sistema, e di conseguenza definisce lo stato quantistico anche della seconda.

Una piccola precisazione finale. L'esempio dei guanti, utile per comprendere il fenomeno, non calza più perfettamente. Il guanto destro e quello sinistro, infatti, sono definiti fin dall'inizio, mentre lo stato quantico delle particelle non lo è. È un'interferenza esterna a definirne lo stato.

continua su: https://www.geopop.it/una-spiegazione-semplice-dellentanglement-quantistico/

https://www.geopop.it/

mercoledì 17 marzo 2021

Gli uomini vengono da Marte. Tra letteratura e astrofisica. - Riccardo Antoniucci

 

Due Mondi - Le “cronache marziane” sono passate da minaccia a frontiera di nuova vita.

Perseverance è approdata il 18 febbraio nell’entusiasmo generale. Curiosity è lì dal 2012, mentre in orbita ruotano Hope degli Emirati arabi uniti e l’europeo ExoMars, tra gli altri satelliti. Presto arriverà il primo rover cinese, mentre sulla Terra la Space X di Elon Musk testa missili e idee per viaggi interplanetari. Oggi Marte appare affollato, ma c’è stato un momento, nei vent’anni trascorsi tra la missione Viking del 1976 e Pathfinder del 1997, in cui il pianeta rosso non interessava più a nessuno. Cos’era successo? Una delusione. Viking aveva certificato che il pianeta era privo d’acqua, rompendo così un motore che per 150 anni ha alimentato la curiosità umana, non solo scientifica: la domanda “c’è vita su Marte?”.

Vita marziana. Il primo a porre seriamente il quesito è stato l’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, che tra il 1877 e il 1878 aveva creduto di osservare canali rettilinei, artificiali, sulla superficie di Marte e tracciò varie mappe. Un effetto ottico, che però è rimasto a lungo incastonato nel pensiero scientifico. “Fino agli anni 50 e 60 le idee, comunque realistiche, di Schiaparelli erano ancora enormemente in voga”, spiega Marcello Coradini, planetologo e responsabile dei programmi d’esplorazione del Sistema solare dell’Esa, che ha guidato la missione ExoMars ed è autore del saggio Marte, l’ultima frontiera (Il Mulino). “Per preparare le prime missioni sul pianeta rosso – continua Coradini – la Nasa usava praticamente la stessa mappa di Schiaparelli. Se dovessimo descriverlo come fenomeno culturale, direi che la Nasa ha preso il testimone dalle mani di Schiaparelli”.

Anche la statunitense Sarah Stewart Johnson, che ha lavorato alle missioni Spirit, Opportunity e Curiosity, in un libro recente (quasi omonimo: Marte. L’ultima frontiera, Sperling & Kupfer) ricorda che “il mistero di quelle formazioni lineari fu uno dei motivi per cui nel 1969 la Nasa decise di lanciare una coppia di sonde verso Marte”.

Tra scienza e finzione. La vita su Marte ha alimentato un immaginario che si è evoluto in parallelo tra scienza e finzione. Nel 1880, due anni dopo le ricerche di Schiaparelli, esce il romanzo Across the Zodiac di Percy Greg, in cui un esploratore scopre che il pianeta rosso è abitato da esseri molto simili a noi, che si rifiutano di credere che il visitatore venga da un altro pianeta. Quasi subito i marziani diventano pericolosi. Opera iniziatrice è La guerra dei mondi di Herbert George Wells (1898), riadattata da Orson Welles nel celebre sceneggiato radiofonico nel 1938 e poi in pellicola da Steven Spielberg. Di fatto è la prima invasione extraterrestre della storia letteraria, dove, peraltro, l’unica cosa che salva i terrestri dall’inesorabile avanzata marziana è un batterio. Quando la Terra precipita nella spirale delle guerre mondiali, Marte si offre come specchio in cui riflettere criticamente sulla società. Succede nella trilogia Sotto le lune di Marte dell’ex militare Edgar Rice Burroughs (1912-1919): un capitano viene teletrasportato su Marte e trova un mondo morente e una civiltà dilaniata dalla guerra tra fazioni divise dal colore della pelle.

Marziani tra noi. Dopo la seconda guerra mondiale comincia la corsa allo spazio e nella cultura di massa è la fase dell’Invasione degli ultracorpi (romanzo del 1954 e film del 1956) e delle epiche extraterrestri alla Star Trek. Anche solo per associazione cromatica, Marte è spesso metafora del “nemico” comunista (esiste in effetti un’utopia socialista marziana: la scrisse Bogdanov nel 1908), ma altre volte serve a criticare la società del consumismo, come nel Pianeta rosso di Robert Heinlein o nelle Cronache marziane di Ray Bradbury. Filone prolifico è anche quello della colonizzazione, di cui è icona I fondatori di Isaac Asimov, primo romanzo sulla “terraformazione” di Marte. “Perché non abbiamo pensato ai crateri?” disse il re della fantascienza guardando una fotografia scattata dalla sonda Nasa Mariner 4, che per prima fotografò il pianeta rosso nel 1965. Come a ogni grande narrativa, le storie marziane hanno avuto il loro risvolto parodistico. Dal gioviale Marziano a Roma di Ennio Flaiano, che si ritira sopraffatto dall’indolenza dei terrestri capitolini, al cult Mars Attacks! di Tim Burton, parodia dell’action movie sull’invasione aliena. Fino a Fascisti su marte di Corrado Guzzanti, che sceneggia una farsesca invasione nera del pianeta rosso in un mix di satira politica e parodia delle cronache marziane.

Nuova frontiera.Dopo la delusione del 1976 sono state altre le suggestioni scientifiche che hanno ispirato l’epica spaziale. L’esplorazione intergalattica, i buchi neri e i paradossi della gravità. Diventato un “sasso” qualunque, il pianeta rosso ha ispirato meno, restando ancorato all’immaginario anni 70. Oggi, però, la seconda corsa allo spazio promette di portare gli astronauti su Marte: di certo gli autori stanno prendendo nota.



martedì 23 febbraio 2021

Gli scienziati hanno trovato un portale per la quinta dimensione, dicono. - Simone Cosimi

 

Secondo un nuovo studio la materia oscura può essere il frutto dei fermioni spinti, e bloccati, in una quinta dimensione.

Che cos’è la materia oscura? Si tratta, almeno per i cosmologi, di un’ipotetica componente che, al contrario di tutto ciò che conosciamo, non emetterebbe radiazione elettromagnetica e dunque sarebbe rilevabile solo in modo indiretto. Ad esempio tramite i suoi effetti gravitazionali. Dovrebbe costituire quasi il 90% della massa dell’universo. In un nuovo studio un gruppo di scienziati afferma ora di poterla spiegare ipotizzando una particella in grado di collegarsi alla quinta dimensione, sorta di dimensione parallela dove i parametri (appunto, le dimensioni) superano di gran lunga quelle di altezza, larghezza e profondità per come le conosciamo.

La ricerca, pubblicata nell’Europea Physical Journal C, sarebbe la prima – spiega Popular Mechanics – a utilizzare in modo coerente una teoria introdotta nel 1999 per spiegare l’enigma della materia oscura all’interno del campo della teoria delle particelle. Si tratta della teoria nota come modelli di Randall-Sundrum, descrizioni del mondo in termini di un universo ad alta dimensione a geometria deformata, o più concretamente come uno spazio anti-de Sitter a cinque dimensioni in cui le particelle elementari sono appunto localizzate su una brana a-dimensionale o brane. A sua volta una tesi che si ricollega alla teoria delle stringhe che interpreta l’universo come una specie di “sandwich” tridimensionale immerso in iperspazio a undici dimensioni.

La nostra conoscenza dell’universo fisico è condannata ad affidarsi all’idea della materia oscura, che come dicevamo ne occuperebbe la parte preponderante e ci consentirebbe di spiegare il funzionamento della gravità per il semplice fatto che senza questa sorta di “infrastruttura” di sostegno nascosta molte teorie crollerebbero. Ciononostante la materia oscura non compromette le particelle che vediamo e sentiamo, “e questo significa che deve avere altre proprietà speciali”. Ci sono per esempio, raccontano gli scienziati spagnoli e tedeschi, alcune domande a cui il modello standard della fisica non riesce a rispondere: “Uno dei più significativi esempi è il cosiddetto problema della gerarchia, cioè la questione per cui il bosone di Higgs sia più leggero” della massa di Planck. “La fisica teorica non riesce poi a risolvere altri fenomeni che osserviamo. E uno dei più evidenti è l’esistenza della materia oscura”.

bird like energy eruption from a neutron star with star field in background 3d rendering
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Il nuovo studio tenta dunque di spiegarne l’esistenza attraverso l’uso di un modello basato sulle teorie descritte prima: “Gli scienziati hanno studiato le masse dei fermioni che ritengono possano comunicare con la quinta dimensione attraverso dei portali, creando quindi della materia oscura fermionica all’interno di quello spazio". Cosa sono i fermioni? Prendono il nome da Enrico Fermi e sono l’altro lato dei bosoni, cioè una delle due famiglie fondamentali in cui si dividono le particelle (quest'ultime sono particelle-forza, le altre particelle-materia). Hanno spin – cioè un momento angolare intrinseco - semintero e sono sempre dotati (al contrario dei bosoni come fotoni o gluoni) di massa visto che di fatto tutta la materia conosciuta e rilevabile è costituita da fermioni (quelli fondamentali sono i quark, come protoni e neutroni, e i leptoni, come gli elettroni). Rispondono al principio di eslcusione di Pauli, che è un principio seminale della meccanica quantistica secondo cui due fermioni identici non possono occupare simultaneamente lo stesso stato quantico.

Questi fermioni in grado di comunicare fra le diverse dimensioni potrebbero almeno spiegare parte della materia oscura che gli esperti non sono in grado di osservare: “Sappiamo che non esiste un candidato a spiegare la materia oscura praticabile nel modello standard della fisica", dicono gli scienziati,"quindi già questo fatto richiede la presenza di nuova fisica". Dunque secondo l’indagine masse di fermioni riuscirebbero a manifestarsi nella quinta dimensione e lì rimanere bloccati, sfuggendo a ogni misurazione a nostra disposizione almeno relativa al modello standard che infatti riesce a descrivere tutte le particelle che conosciamo, e non le altre.

Come osservare questo tipo di materia è il problema di tutte le teorie che hanno tentato di postularne l’esistenza. Ma tutto ciò che serve per identificare la materia oscura fermionica in una quinta dimensione deformata sarebbe un dispositivo paragonabile al rivelatore di onde gravitazionali. Che potrebbe appunto svelarci, su un diverso livello superiore a geometria deformata, la presenza di quelle stesse particelle che conosciamo.

https://www.esquire.com/it/lifestyle/tecnologia/a35479555/quinta-dimensione-portale/?fbclid=IwAR0wjXbwEcGPLONShUhAoVNATW4mtM54jwNtKLwpKqSsPShhqniMzl4ND7k

venerdì 29 maggio 2020

Il problema della “materia mancante” dell’universo è stato finalmente risolto.

rete cosmica

I lampi radio veloci sono fenomeni cosmici misteriosi e intriganti. Sono stati identificati per la prima volta nel 2007, ma le loro origini continuano a sfuggire agli scienziati. Sono ancora abbastanza rari, ma stiamo migliorando nel rilevarli. Ora abbiamo trovato il modo di usarli per imparare qualcosa in più sull'universo..

In un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Nature mercoledì, Jean-Pierre Macquart e un team di astronomi internazionali viene descritto come hanno utilizzato il rilevamento di alcuni Fast Radio Burst per risolvere un mistero che ha afflitto gli astrofisici per lungo tempo relativo alla materia normale nell’universo, la cosiddetta materia barionica,  – e in che modo la loro tecnica ha fornito un modo completamente nuovo di guardare il cosmo.

Il problema della “materia mancante”.

Macquart, astronomo dell’International Centre for Radio Astronomy Research in Australia, e il suo team hanno analizzato una serie di Fast radio Burst (FRB), rilevati dall’enorme array di telescopi noto come Australian Square Kilometer Array Pathfinder.
Macquart e un gruppo di collaboratori provenienti da istituzioni di tutto il mondo, parte del gruppo investigativo Commensal Real-time ASKAP Fast Transients Survey, hanno capito che i burst potevano anche essere usati per rilevare la “materia mancante” dell’universo.
askap1.pngL’Australian Square Kilometer Array Pathfinder ha contribuito a risolvere uno dei misteri permanenti del cosmo. – ASKAP
L’universo è costituito da “materia ordinaria”, materia oscura ed energia oscura. Gli ultimi due costituenti rappresentano circa il 95% dell’universo noto e sono incredibilmente misteriosi. Sappiamo che esistono ma non siamo mai stati in grado di rilevarli.
Il 5% restante è costituito da materia ordinaria, quella che compone le stelle, i pianeti, la nostra auto e noi stessi.
Quando hanno guardato … qualche decennio fa, potevano spiegare solo la metà della materia ordinaria“, afferma Macquart. Contando tutto ciò che si può vedere – le galassie, le stelle, i pianeti, i gas – si poteva rintracciare circa la metà di quel 5%.
Da tempo, però, gli astronomi hanno capito dove trovare questa materia mancante. Nel corso degli anni, sono stati utilizzati numerosi metodi diversi per cercare di rilevare la materia mancante, ma i ricercatori non sono stati in grado di rilevare adeguatamente tutta la materia normale in tutto l’universo, principalmente perché si sono concentrati su specifiche regioni dello spazio. Macquart paragona questo al tentativo di dire quanto è grande un cane “guardando le dimensioni della sua coda”.
Ma la nuova tecnica introdotta dal team – utilizzando i FRB – consente di guardare l’intero scenario.
Quello che fanno gli FRB è attraversare spazi [dello spazio] in cui [altre] tecniche semplicemente non funzionano“, dice.
tgwzvqc.png
Una visualizzazione di come un segnale FRB viaggia attraverso lo spazio vuoto e cosa succede al segnale quando si imbatte in materia mancante. – ICRAR

Segnali improvvisi dal passato.

I lampi radio veloci sono fenomeni cosmici misteriosi e intriganti. Sono stati identificati per la prima volta nel 2007, ma le loro origini continuano a sfuggire agli scienziati. Sono ancora abbastanza rari, ma stiamo migliorando nel rilevarli. Nuovi telescopi e array radio, come l’ASKAP, consentono agli astronomi di individuare la fonte di queste esplosioni di onde radio dallo spazio profondo.
ASKAP è un pezzo chiave del nuovo studio perché, fondamentalmente, guarda un’ampia area di cielo, come un Grande Fratello cosmico. Ogni secondo prende 10 trilioni di misurazioni e quindi esegue una media di circa 1 miliardo di misurazioni al secondo, alla ricerca di segni di FRB.
Per giungere alle antenne di ASKAP sulla Terra, le onde radio viaggiano da galassie lontane, sopportando un lungo viaggio che le porta attraverso il vasto nulla dello spazio tra le galassie. Noi vediamo queste regioni dello spazio come vuote, ma in realtà sono piene di particelle come gli elettroni che vengono urtate dall’onda radio durante il suo viaggio attraverso l’universo.
Le onde radio, mentre viaggiano attraverso il cosmo interagiscono con gli elettroni liberi, sporcando il segnale radio“, afferma Geraint Lewis, un astrofisico dell’Università di Sydney che non era affiliato allo studio.
È questa sbavatura del segnale radio che è stata la chiave per trovare la materia mancante.
Gli astronomi hanno contato “il numero di elettroni lungo la linea di visuale” tra noi e la sorgente dei FRB, fornendo una misura della materia nascosta nel cosmo. Dopo aver studiato cinque FRB diversi, provenienti da cinque sorgenti diverse, il team ha trovato le loro misurazioni allineate quasi perfettamente con le previsioni di quanta materia normale dovrebbe esistere nell’universo.
Il mistero è stato finalmente risolto e i cosmologi ora sano che gli attuali modelli sviluppati per comprendere l’universo non sono errati.

Mappatura della rete cosmica.

Risolto il mistero della materia mancante, il team ora pensa di poter usare gli FRB come nuovo strumento per sondare il cosmo.
Il metodo di rilevamento degli FRB è estremamente sensibile rispetto ai metodi precedenti usati e consente ai ricercatori di rilevare la materia ordinaria vagante nel vasto spazio apparentemente vuoto tra le galassie. Ciò significa che gli astronomi potrebbero essere in grado di mappare la cosiddetta rete cosmica, quei filamenti di materia che sotto forma di gas collegano tra loro le galassie.
Questa tecnica ci permetterà di mappare dove si trova il gas“, afferma Prochaska.
Ad oggi, disponiamo solo di un’immagine della rete cosmica creata da una simulazione al computer, ma tra cinque anni, dopo avere analizzato almeno altri 100 FRB, dovremmo essere in grado di creare una mappa fedele dell’universo“.
Il team continuerà a cercare FRB con ASKAP, utilizzando, inoltre, il nuovo strumento in corso di costruzione che sarà in grado di individuare molti più FRB, aumentando il tasso di rilevamento di 20 volte. Un tale salto potrebbe consentire al team di raccogliere 100 segnali entro un anno e contribuire a rimodellare il modo in cui vediamo l’universo, fino ai suoi primi giorni.
Potremmo anche essere in grado di dire qualcosa sull’epoca della reionizzazione, quando l’universo è stato trasformato da materia neutra a materia ionizzata“, afferma.
Certo, la materia barionica mancante costituisce solo una percentuale molto piccola di tutta la materia presente nell’universo e ci sono grandi domande cosmologiche che devono ancora trovare risposta.
Il prossimo passo obbligatorio sarà quello di scoprire qualcosa di più su materia oscura ed energia oscura.
Fonte: Nature

martedì 21 aprile 2020

Perché l'antimateria scomparve dopo il Big Bang? Arrivano i primi indizi. - Bruno Pontecorvo, Gabriella Catanesi

Perché l'antimateria scomparve dopo il Big Bang? Arrivano i primi indizi

L'esperimento T2K sui neutrini che spiega perché prevalse la materia conquista la copertina di Nature. Una scoperta, fatta da scienziati di 12 paesi, che parla anche italiano.

ROMA - Sono solo i primi indizi per capire perché subito dopo il Big Bang la materia ha prevalso sull'antimateria. Ma molto interessanti. Gli scienziati hanno osservato per la prima volta differenze nel comportamento dei neutrini e della loro controparte dell'antimateria, i cosiddetti antineutrini. Il risultato, che ha guadagnato la storia di copertina di Nature, è stato ottenuto dalla collaborazione T2K (Tokai to Kamioka), che coinvolge 12 Paesi e a cui l'Italia partecipa con le Università di Napoli, Padova, Roma Sapienza e Politecnico di Bari, con il coordinamento dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).

I fisici di T2K hanno dimostrato che gli antineutrini, rispetto ai neutrini, cambiano d'abito meno frequentemente, trasformandosi da una tipologia a un'altra delle tre esistenti in natura, un fenomeno che gli esperti chiamano oscillazione, e che fu previsto dal fisico italiano Bruno Pontecorvo negli Anni 50. "I nuovi risultati dimostrano, con una certezza del 99,7% , che il fenomeno dell'oscillazione si verifica con probabilità diverse per i neutrini rispetto agli antineutrini", ha spiegato all'agenzia Ansa Gabriella Catanesi, responsabile per l'Infn di T2K e componente del comitato esecutivo dell'esperimento.


I neutrini sono particelle molto sfuggenti: basti pensare che in un secondo ben 60 miliardi attraversano la punta di un dito senza lasciare traccia. Occorrono, quindi, esperimenti molto grandi e sorgenti molto potenti per studiarli. In T2K un fascio di neutrini, o di antineutrini, prodotto dall'acceleratore di particelle, Japan Proton Accelerator nel villaggio giapponese di Tokai viene inviato a 295 chilometri al rivelatore sotterraneo Super-Kamiokande, che con i suoi 11.000 occhi elettronici è capace di catturare la luce prodotta dagli elusivi neutrini nelle interazioni con 50.000 tonnellate di acqua purissima.

"Durante il tragitto gli antineutrini si trasformano da un tipo a un altro, oscillando da muonici in elettronici", chiarisce Catanesi. "Obiettivo di T2K è cercare differenze di comportamento fra neutrini e antineutrini, per capire - aggiunge - se la simmetria fra queste due componenti viene violata, contrariamente a quanto accade per la gran parte delle leggi che descrivono il comportamento delle particelle elementari".

Uno dei misteri della fisica è infatti capire perché sia venuta meno l'originale simmetria tra materia e antimateria dopo il Big Bang, dove sia finita l'antimateria e perché non vediamo, ad esempio, anti-stelle, anti-galassie e persino un anti-universo. Spiega Catanesi: "L'avere osservato che il numero di antineutrini che si trasformano da un tipo a un altro è inferiore rispetto ai neutrini può essere importante per spiegare perché oggi nell'universo vediamo più materia che antimateria. Si tratta - conclude la studiosa dell'Infn - di un punto di partenza. Occorreranno misurazioni più precise per confermare queste indicazioni. Per questo, stiamo lavorando per migliorare ancora il nostro apparato, che potrà aiutarci a dare una risposta al problema dell'antimateria mancante dell'universo".


https://www.repubblica.it/scienze/2020/04/16/news/perche_l_antimateria_scomparve_dopo_il_big_bang_arrivano_i_primi_indizi-254165337/?fbclid=IwAR3xaNaMxqxPyqUa5aRM8VJzayivqiYl3fIlNWA_-bnn65FNgRffIrSPVxY

domenica 16 febbraio 2020

Spazio, segnale radio misterioso ricevuto da un’altra galassia: cos’è il Fast Radio Burst. - Paolo Virtuani

Spazio, segnale radio misterioso ricevuto da un'altra galassia: cos'è il Fast Radio Burst

Proviene da una sorgente a 500 milioni di anni luce di distanza. Si è ripetuto per più di un anno ogni 16,35 giorni. Anche se l’origine è sconosciuta, per gli scienziati non si tratterebbe di una civiltà aliena. 

Nel gergo degli astrofisici si chiamano Fast Radio Bursts (Frb), lampi radio veloci. Durano pochi millesimi di secondo, provengono dall’esterno della nostra galassia e vengono captati dai radiotelescopi in modo casuale. Ora per la prima è stato registrato un segnale (classificato come FRB 180916.J0158+65) che si è ripetuto secondo uno schema regolare. La notizia proviene dal Canada. Gli scienziati dell’esperimento Chime (Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment) tra il 16 settembre 2018 e il 30 ottobre 2019 hanno identificato un segnale che aveva il seguente schema: nei primi quattro giorni arrivava una volta ogni ora, poi spariva e ritornava dodici giorni dopo con la stessa modalità. 

Ancora sconosciuti. Gli Frb sono una manifestazione ancora non del tutto compresa: per alcuni sono dovuti ai buchi neri, per altri alle pulsar, per altri ancora all’azione della materia oscura. Vennero identificati per la prima volta nel 2007 analizzando dati ricevuti nel 2001 e finora ne sono stati registrati poco più di cento, anche se alcune stime ritengono che sulla Terra ne arrivino migliaia ogni giorno provenienti da ogni zona del cielo. Sono fenomeni di enorme energia, ma dopo aver attraversato l’Universo arrivano da noi con una potenza mille volte inferiore a quella di un messaggio di un cellulare posto alla distanza della Luna.

Messaggi alieni?Gli Frb sono stati ritenuti un mezzo per identificare eventuali civiltà aliene se fossero stati ricevuti con uno schema regolare, tale da ipotizzare un invio preciso e voluto. Ma gli stessi studiosi di Chime dicono che il segnale ricevuto è stato originato con un‘energia tra le più forti dell’intero universo, tale da rendere difficile immaginarlo dovuto a una civiltà anche estremamente avanzata. La provenienza, poi, 500 milioni di anni luce da una galassia a spirale, lo esclude da un’origine interna alla Via Lattea. Resta però la domanda del motivo della regolarità dell’impulso. Forse una sorgente che ruota intorno a una stella in un sistema binario, oppure una stella di neutroni e una stella massiccia e molto calda. Concludono gli scienziati: servono ulteriori approfondimenti sugli Frb e in particolare su quello osservato.


lunedì 10 febbraio 2020

Mostruosa galassia nell’universo primordiale. - Maura Sandri


Rappresentazione artistica di una galassia imponente e polverosa, simile a come doveva apparire Xmm-2599 alla luce visibile quando ancora stava formando le sue stelle. Crediti: Nrao/Aui/Nsf, B. Saxton.

Circa 12 miliardi di anni fa, quando l'universo era ancora adolescente, la galassia Xmm-2599 aveva già una massa di oltre 300 miliardi di soli. Uno studio ha ora dimostrato che la formazione stellare era stata, fino a quel momento, incredibilmente attiva per poi, improvvisamente e per ragioni ancora sconosciute, cessare completamente. Nella scoperta sono coinvolti anche tre astrofisici dell’Inaf: Francesco La Barbera, Mario Nonino e Paolo Saracco.
Un team internazionale di scienziati ha trovato un’insolita ed enorme galassia che esisteva già circa 12 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva solo 1.8 miliardi di anni – o, in altre parole, solo il 13 per cento della sua età attuale, pari a 13.8 miliardi di anni. Dalla sommità del vulcano Mauna Kea, alle isole Hawaii, grazie alle numerose osservazioni effettuate con l’Osservatorio W. M. Keck, il team ha scoperto che la galassia in questione, chiamata Xmm-2599, era veramente molto massiccia, e deve aver formato stelle a una velocità elevatissima. Poi, improvvisamente, per ragioni ancora sconosciute, ha smesso di farlo.
«L’universo non aveva ancora due miliardi di anni, e già la massa di Xmm-2599 superava quella di 300 miliardi di soli», dice Benjamin Forrest, ricercatore alla University of California Riverside (Ucr) e primo autore dello studio. «Con il nostro lavoro siamo riusciti a dimostrare che Xmm-2599 ha formato la maggior parte delle sue stelle molto velocemente, quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni, per poi diventare inattiva quando ne aveva solo 1.8 miliardi».
Per arrivare a queste conclusioni, il team ha utilizzato le osservazioni spettroscopiche del potente Mosfire (Multi-Object Spectrograph for Infrared Exploration), che ha permesso di compiere misure dettagliate di Xmm-2599 e quantificarne con precisione la distanza. «Sono state necessarie molte osservazioni, alcune delle quali lunghe nove ore ciascuna, per determinare la distanza e la massa di Xmm-2599», ricorda il coautore Percy Gomez, astronomo all’Osservatorio del Keck.
«In quell’epoca, pochissime galassie avevano smesso di formare stelle e nessuna è così massiccia come Xmm-2599», osserva Gillian Wilson, anch’egli di Ucr. «L’esistenza di galassie ultramassive come Xmm-2599 rappresenta una vera sfida per i modelli numerici. Anche se galassie così enormi sono, per quell’epoca, incredibilmente rare, risultano comunque previste dai modelli. Tuttavia, dovrebbero essere galassie ancora in grado di formare stelle. Ciò che rende Xmm-2599 così interessante, insolita e sorprendente è che non sta più formando stelle, forse perché ha smesso di essere alimentata, o il suo buco nero ha iniziato ad accendersi. I nostri risultati richiedono cambiamenti nel modo in cui i modelli disattivano la formazione stellare nelle prime galassie».
Questo set di immagini mostra la possibile evoluzione di Xmm-2599, da una galassia massiccia, polverosa, nella quale è molto attiva la formazione stellare (a sinistra), a una galassia rossa inattiva (al centro), per poi entrare a far parte, forse, di un grappolo luminoso di galassie (a destra). Crediti: Nrao/Aui/Nsf, B. Saxton; Nasa/Esa/R. Foley; Nasa/Esa/Stsci, M. Postman/Clash
«Abbiamo catturato Xmm-2599 nella sua fase inattiva», spiega Wilson. «Non sappiamo in cosa si sia trasformata oggi. Sappiamo che non può perdere massa. Una domanda interessante è cosa sia successo intorno a essa. Col passare del tempo, potrebbe essere stata in grado di attrarre gravitazionalmente le galassie vicine e formare una luminosa metropoli di galassie?». Il coautore Michael Cooper, della Uc Irvine, ritiene che questa potrebbe essere una prospettiva molto probabile: «Forse durante i successivi 11.7 miliardi di anni di storia cosmica, Xmm-2599 diventerà il membro centrale di uno dei più brillanti e massicci ammassi di galassie nell’universo locale. In alternativa, potrebbe continuare ad esistere per i fatti suoi. Oppure potremmo avere uno scenario che sarà una via di mezzo tra questi due scenari estremi».
I risultati dello studio sono appena stati pubblicati su The Astrophysical Journal, in un articolo di cui sono co-autori anche Francesco La Barbera dell’Inaf di Napoli, Mario Nonino dell’Inaf di Trieste e Paolo Saracco dell’Inaf di Brera. «La formazione ed evoluzione delle galassie è un argomento di studio fondamentale nell’astrofisica», spiegano i tre astrofisici a Media Inaf, «sia dal punto di vista osservativo che da quello teorico, con i diversi modelli proposti (collasso monolitico vs modello gerarchico). La scoperta di Xmm-2599 rappresenta una sfida eccitante, date le straordinarie proprietà di questa galassia dedotte dalle osservazioni, quali la massa stellare (300 miliardi di masse solari, circa cinque volte la massa stellare della nostra galassia), la quasi totale assenza di formazione stellare e, soprattutto, la sua esistenza in un’epoca alla quale l’universo aveva solo una frazione dell’età attuale».
«Le osservazioni suggeriscono che l’intervallo di tempo di formazione di Xmm-2599, inteso come il tempo trascorso fra la formazione delle prime stelle dal gas preesistente, al momento in cui la formazione stellare è cessata quasi del tutto, sia ancor più breve (inferiore a 1 miliardo di anni)», continuano La Barbera, Nonino e Saaracco. «Ciò implica un tasso di formazione stellare davvero elevato, con picchi corrispondenti a più di mille soli per anno (per confronto, la nostra galassia ha un tasso stimato di 1.5-1.7 soli per anno). Resta quindi da capire quale sia il processo – o i processi – fisico che ha interrotto in maniera repentina la formazione stellare in un oggetto cosi massivo come Xmm-2599. Ciò è senz’altro di grande interesse per tutti coloro che studiano modelli di formazione delle galassie, in particolare quelle di più grande massa, simili a Xmm-2599. I modelli attuali riescono a riprodurre in parte questi oggetti, ma ci sono indicazioni che la densità di oggetti così peculiari sia maggiore di quella prevista».
«Dal punto di vista osservativo», concludono i tre, «si tratta di trovare quali potrebbero essere i progenitori di galassie come Xmm-2599: i candidati più verosimili sono le galassie con alto tasso di formazione stellare con una notevole quantità di polveri, alla cui caratterizzazione e scoperta sta contribuendo in maniera determinante Alma. Un contributo importante è inoltre atteso da Euclid, in cui Inaf è fortemente coinvolto, dato che per scoprire e studiare oggetti molto rari come Xmm-2599 è fondamentale osservare nelle bande infrarosse su ampie zone di cielo.  Gli eccellenti dati di Euclid dovrebbero fornire un campione significativo di oggetti simili a Xmm-2599, contribuendo a chiarire in maniera determinante i processi che hanno portato alla formazione di simili “mostri” quando l’universo era ancora estremamente giovane».