Da un lato “la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate”. Dall’altro anni di tagli alla spesa che hanno causato “una sostanziale debolezza della rete territoriale”. Quella che avrebbe dovuto fare da argine all’ondata di malati che, specie al Nord e in Lombardia in particolare, ha investito pronti soccorso e reparti durante la pandemia di Covid-19. Una politica che, si legge nel Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti, “ha fortemente pesato sulla gestione dell’emergenza sanitaria” e “ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate”.
Quattro segni “meno” – spesa pubblica, personale, ospedali e strutture territoriali, investimenti – quelli rilevati dai giudici contabili. A livello nazionale, scrivono, la spesa diretta delle famiglie è cresciuta dal 2012 al 2018 del 14,1% contro il 4,5% di quella delle P.a. Nel frattempo la forza lavoro nella sanità è diminuita. In 5 anni i dipendenti a tempo indeterminato di Asl, aziende ospedaliere, universitarie e Irccs pubblici sono passati da 653 mila a 626 mila, per un taglio di 27 mila posti (-4%). Nello stesso periodo il personale flessibile è aumentato solo di 11.500 unità. I tagli maggiori? Nelle Regioni sottoposte a un piano di rientro dei costi (a Molise, Lazio e Campania “sono riferibili riduzioni tra il 9 e il 15%”), mentre tra le altre a tagliare di più sono state Liguria (-5,4%), Piemonte, Emilia e Lombardia (tra -3,7 e -3,3%). E la scure si è abbattuta anche sui posti letto, scesi dai 230.396 del 2012 ai 210.907 del 2018, soprattutto a causa della chiusura dei piccoli ospedali.
“Ma quanto il processo di riduzione dell’assistenza ospedaliera si è tradotto in un ampliamento di quella territoriale?”, domandano i giudici. La risposta è nei fatti. I medici di medicina generale – prima linea contro il Covid – sono passati da 45.437 a 43.731. Una flessione del 3,8% a livello nazionale, ancor più accentuata nelle Regioni non sottoposte a un piano di rientro e nei territori più falcidiati dal virus: -5,6% in Lombardia, -6,4% in Piemonte, -5,3% in Veneto, -4,7% in Emilia, -6,5% nelle Marche, -8,9% in Liguria. Nello stesso periodo la scure si è abbattuta sulle guardie mediche: se le strutture sono aumentate del 5,9%, i dottori che ci lavorano sono passati da 12.027 a 11.688 (-2,8%). Anche in questo caso la flessione maggiore è stata registrata nelle Regioni più sane dal punto di vista economico (-5,1%) e in alcune di quelle più colpite dall’emergenza: -8,8% in Lombardia, -24,8% in Emilia, -16,2% nelle Marche.
Nel frattempo anche il sistema delle strutture di prossimità è stato depotenziato. “Si tratta degli ambulatori in cui si erogano prestazioni specialistiche come l’attività clinica, di laboratorio e di diagnostica strumentale”, specifica la Corte: nel 2017 erano 8.867, ridotti del 4,3% rispetto al 2012. “Una flessione che caratterizza tutte le regioni del Centro Nord”: in Lombardia sono passati da 729 a 663 (-9,1%) mentre quelle che i giudici contabili definiscono “altre strutture territoriali” da 743 a 708 (-4,7%). “La mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio – conclude il report – ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate”.
“Non è solo un problema di risorse – spiega Americo Cicchetti, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari della Cattolica – ma di organizzazione. Il Covid ha messo in evidenza che quelle Regioni che avevano investito sul territorio hanno risposto meglio, come il Veneto e l’Emilia-Romagna. La Lombardia aveva fatto una riforma in questo senso, ma si è fermata presto”. Si riferisce, il professore, alla legge 23/2015 con cui la giunta Maroni aveva immaginato una riorganizzazione basata sulle Ast (Agenzie per la tutela della salute) e sulla realizzazione di Pot (Presidi ospedalieri territoriali) e Presst (Presidi Socio-Sanitari Territoriali). Strutture piccole per garantire, con i medici di base, ai cittadini di essere curati vicino a casa, senza gravare sui poli ospedalieri. Ma che in Lombardia hanno visto la luce in minima parte.