Intervista a Matthew Klein, editorialista del settimanale finanziario Usa Barron's e autore di "Trade Wars are Class Wars". Tra le altre cose spiega come scelte politiche di paesi come Cina, Germania, Stati Uniti che hanno favorito una distribuzione della ricchezza a favore di ceti più abbienti siano alla base degli squilibri commerciali e finanziari globali. E che i correttivi stanno nella redistribuzione delle ricchezze.
L’editorialista del settimanale finanziario Barron’s Matthew Klein e l’economista Michael Pettis sono gli autori di Trade Wars are Class Wars, edito da Yale University Press. Il libro spiega come una distribuzione della ricchezza troppo sbilanciata a favore dei ceti più abbienti sia alla base delle tensioni finanziarie e commerciali tra Stati. Una situazione che in una certa misura dipende da scelte politiche che negli ultimi decenni hanno interessato la Germania come la Cina o gli Stati Uniti, pur nella particolarità e differenza dei rispettivi sistemi. Se non verrà corretta, anche con interventi di natura fiscale, questa condizione presenta e presenterà rischi notevoli e crescenti, di natura sia economica che sociale. Ilfattoquotidiano.it ha intervistato Klein.
Come si intuisce già dal titolo, la tesi di fondo sviluppata nel vostro libro è quella secondo cui le tensioni commerciali internazionali dipendono, in ultima analisi, da una distribuzione disarmonica della ricchezza all’interno dei singoli Paesi. Ma esattamente come funziona questo meccanismo?
Questa è la questione cruciale, e infatti per spiegarla bene abbiamo dovuto scrivere un intero libro (ride, ndr). Ad ogni modo, la “versione breve” è che oggi tutti siamo interconnessi, attraverso il commercio internazionale e il sistema finanziario. Quello che accade e che cambia all’interno di una società, avrà inevitabilmente conseguenze per persone che vivono altrove indipendentemente dal fatto che questi effetti siano intenzionali o meno. Un buon esempio per cogliere bene il concetto è quello che accade con l’inquinamento.
Il secondo aspetto chiave della nostra tesi è che i ricchi, e le imprese che controllano, sono molto differenti da tutti gli altri. La maggior parte delle persone spende più o meno tutto quello che guadagna nel corso della vita. I ricchi no e questo accade in qualsiasi Paese del mondo. Le persone che si trovano al vertice della piramide della ricchezza risparmiano una buona fetta di quel che guadagnano. Guardato da un’altra prospettiva risparmiare significa comprare asset (come fondi, immobili, azioni, etc, ndr) invece che beni o servizi. Il motivo è semplice: per quanto i gusti possano essere raffinati e costosi, c’è un limite alla quantità di beni necessari per la loro soddisfazione (es non ha senso comprarsi 5 yacht o 10 Ferrari, ndr). Quindi cambiamenti significativi nella distribuzione del reddito dalla gente comune ai ricchi, spostano risorse da persone che spendono molto in beni e servizi a persone che acquistano molti asset.
Non dimentichiamo che ogni reddito proviene dalla spesa di qualcun altro. A livello globale questo significa che per chi è già ricco, arricchirsi ulteriormente è molto difficile, se si cerca di farlo unicamente comprimendo il reddito degli altri. La spesa complessiva diminuirebbe e così, in proporzione, calerebbero i ricavi delle imprese. Ciò che consente ai consumatori di continuare a spendere anche quando i redditi sono stagnanti, sono i prestiti. E infatti quello a cui abbiamo assistito a livello globale è che la crescente concentrazione del reddito ha coinciso con un forte aumento dei debiti di famiglie e governi. Se guardiamo a queste dinamiche dal punto di vista del commercio quello che vediamo è che un cambiamento della distribuzione del reddito in un Paese può avere conseguenze negative anche altrove, riducendo gli acquisti dall’estero di beni e servizi e spingendo così le persone che vedono calare i loro ricavi, a contrarre debiti che spesso non sono in grado di sostenere.
Nel libro scrivete che attualmente la zona euro è la principale fonte di squilibri globali. Il caso più emblematico è quello della Germania, dove i governi, sia di destra che di sinistra, hanno fatto scelte politiche a favore delle élite. Cosa dovrebbe fare Berlino per cambiare questa situazione? Pensi che una tassa sul patrimonio potrebbe essere una buona opzione?
Il problema fondamentale, per quanto riguarda la Germania, è che nel complesso i tedeschi hanno vissuto al di sotto delle loro possibilità per un ventennio. I redditi delle famiglie, gli investimenti pubblici in infrastrutture, e anche quelli aziendali, sono stati sacrificati per il benessere del bilancio pubblico. Il governo ha ripagato i suoi debiti, le aziende generano molto flusso di cassa per i loro proprietari, ma nel complesso la società tedesca sta peggio di come potrebbe stare. La notizia positiva è che questa situazione può essere corretta con decisioni piuttosto semplici. Il vincolo del pareggio di bilancio previsto dalla Costituzione tedesca dovrebbe essere sostituito con una regola più sensata, che offra margini per effettuare più investimenti pubblici.
Una volta che avessero una maggiore possibilità di indebitarsi, governo centrale e Lander potrebbero finalmente lavorare sul grande arretrato di interventi in manutenzione e sviluppo delle infrastrutture. Il governo potrebbe, ad esempio, finanziare con più risorse lo sviluppo della rete ferroviaria ad alta velocità, implementare la rete internet e favorire la transizione verso fonti di energia rinnovabili. Soprattutto governo e imprese dovrebbero considerare la possibilità di correggere alcune delle scelte fatte negli anni ’90 e 2000, mi riferisco soprattutto ai tagli al welfare che hanno aumentato l’insicurezza dei lavoratori, oltre che alla diffusione di lavori con orario ridotto. Infine, il governo potrebbe valutare un impegno nella redistribuzione diretta per trasferire il reddito dai ricchi imprenditori tedeschi, che hanno prosperato negli ultimi 20 anni, a favore della stragrande maggioranza della popolazione che viceversa non l’ha fatto. Modifiche al regime dell‘imposta sulle successioni e l’introduzione di un’imposta sul patrimonio, che tenga adeguatamente conto delle valutazioni immobiliari, sarebbero certamente utili a questo scopo.
Come spiegate bene nel vostro libro, e a proposito del fatto che le scelte di un paese producono conseguenze ben al di là dei suoi confini, quello che è accaduto negli ultimi 20 anni in Germania è alla base della crisi dei debiti sovrani che nel 2012 ha colpito Paesi come Italia, Spagna e Portogallo…
Ripeto, oggi viviamo in un mondo in cui tutti sono connessi. Nessun paese è isolato dal sistema globale, neppure paesi pariah come la Corea del Nord. La Germania è un’economia aperta e fortemente integrata con il resto d’Europa. Tutto ciò che accade qui ha quindi profonde conseguenze sui paesi vicini. Quando il governo e il mondo degli affari tedeschi hanno adottato una serie di decisioni che hanno causato una riduzione dei consumi delle famiglie e degli investimenti pubblici e privati nel paese, questo ha avuto ripercussioni anche sulle importazioni tedesche, che sono diminuiti. Nel frattempo però gli esportatori tedeschi hanno continuato a vendere senza problemi nel mondo e nei paesi vicini. I risparmi accumulati dai tedeschi più abbienti venivano infatti prestati all’estero attraverso il sistema bancario della Germania, sostenendo importazioni e consumi locali. A ricevere questi finanziamenti erano, tra gli altro, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia e Stati baltici. Quindi questi stati esportavano meno di quanto avrebbero potuto anche a causa di una domanda tedesca fiacca ma hanno mantenuto inalterato il loro livello di importazioni, grazie ai finanziamenti a basso costo che arrivavano dalla Germania. Il problema è che purtroppo questo sistema non è sostenibile a lungo.
Qualcosa di simile è accaduto negli Stati Uniti nel 2008. Il Paese ha dovuto assorbire un immenso flusso di denaro proveniente dall’estero, i risparmiatori di tutto il mondo vogliono comprare titoli Usa. Per soddisfarli ha emesso una grandissima quantità di titoli obbligazionari, anche di pessima qualità come quelli costruiti sui famigerati mutui subprime. Gli Usa amministrano il dollaro, la moneta di riferimento a livello globale, ma questo più che un privilegio, ha finito per diventare un peso.
Gli Stati Uniti si trovano in una situazione delicata perché, come hai ricordato, le persone, in tutto il mondo, vogliono possedere attività denominate in dollari. Tuttavia creare e distribuire quelle attività in dimensioni sufficienti per soddisfare questa gigantesca domanda finisce per avere effetti distorsivi sull’economia. E’ il motivo per cui nel libro definiamo lo status di valuta di riserva del dollaro un “fardello esorbitante” piuttosto che un “privilegio esorbitante” (definizione coniata negli anni ’60 dall’allora ministro delle finanze francese Valery Giscard D’Estaigne, ndr). Ci sono una serie di cose che gli Usa potrebbero fare per ridurre la domanda estera di asset su valori sostenibili. Se la Federal Reserve e il Fondo monetario internazionale rendessero più facile prendere in prestito dollari in caso di necessità, i governi stranieri avrebbero meno bisogno di detenere ingenti riserve. Tasse sugli investimenti esteri, e altri controlli sui capitali, potrebbero scoraggiare l’acquisto di beni statunitensi. Allo stesso tempo, il governo federale dovrebbe prendere atto di essere il soggetto più capace di soddisfare questa domanda. Essere quindi disposto ad emettere una quantità di titoli di Stato sufficiente per fare in modo che non debba essere il settore privato a farlo. Infine, vorrei sottolineare che non c’è motivo per cui il dollaro debba essere l’unica valuta di riserva. L’euro è un’alternativa valida e, in teoria, titoli di debito emessi dall’UE potrebbero essere attraente tanto quanto quelli del Tesoro degli Stati Uniti. Sarebbe un bene sia per gli europei, che potrebbero prendere in prestito e spendere più di quanto fanno ora, sia per gli americani.
Anche la Cina mostra forti squilibri nel suo modello di sviluppo, con i redditi della classe media sacrificati a favore degli investimenti decisi dal governo centrale. Voi scrivete che, in un modo o nell’altro, Pechino dovrà presto correggere questo stato di cose. Questo processo comporta dei rischi per la Cina o per gli altri Paesi?
Sì, la natura squilibrata dell’economia cinese pone sicuramente dei rischi, ma è importante capire quali sono questi rischi. Un crollo improvviso è improbabile, perché il governo mantiene uno stretto controllo sul sistema finanziario. Il risultato più probabile è che il tasso di crescita dell’economia tenderà a rallentare ancora più di quanto non abbia già fatto sinora. Il governo cercherà però di evitarlo. Come? Aumentando ulteriormente il suo surplus (differenza tra valore delle esportazioni e delle importazioni, ndr) , un comportamento molto nocivo per il resto del mondo.
Prima o poi il peso dei consumi sul Pil aumenterà. Questo potrebbe verificarsi perché la spesa delle famiglie accelera velocemente oppure, ed è più probabile, perché rallenterà la crescita degli investimenti. In una certa misura questo sta già accadendo. La crescita è rallentata notevolmente dal 2010, in parte grazie alla decisione del governo di frenare l’espansione del credito e di contenere la spesa per investimenti. Ma a questo punto tagliare ulteriormente gli investimenti, senza fare nulla per i lavoratori cinesi e i pensionati, deprimerebbe la spesa totale, e finirebbe per ridurre anche le importazioni con ripercussioni negative anche sulle economia del resto del mondo.
La pandemia come influenza e come sta cambiando la situazione che voi descrivete?
La pandemia ha causato un calo consistente sia della spesa globale per beni e servizi, sia della loro produzione. Ma i cali sono stati diversi da paese a paese, Cina e Stati Uniti in particolare hanno esperienze diametralmente opposte. In Cina, la spesa dei consumatori è diminuita drasticamente e il governo ha fatto poco per proteggere i redditi dei lavoratori. Ha invece aiutato le imprese, con prestiti a basso costo e deprezzamento della valuta. Così ha favorito l’export (una moneta svalutata fa si che i prodotti cinesi costino meno all’estero e quindi vengano venduti più facilmente, ndr) e il surplus commerciale ha raggiunto nuovi record. Viceversa il governo degli Stati Uniti ha fornito un enorme sostegno alle famiglie americane, che hanno speso i soldi in beni, molti dei quali importati. La produzione manifatturiera statunitense è invece rimasta debole, principalmente a causa della debolezza delle esportazioni. Gli squilibri di cui parliamo nel libro si sono ulteriormente esacerbati. L’unico fatto positivo che posso vedere, anche se probabilmente è prematuro dirlo, è che l’Europa ha mostrato un grado di solidarietà maggiore di quanto mi sarei aspettato. Se si dovesse affermare e consolidare la pratica di emettere debito comune per finanziare spese di interesse comune, per i singoli governi sarebbe più facile aiutare i cittadini, pur rispettando i vincoli di bilancio. Inoltre i titoli di debito comune dell’Ue sarebbe anche un’opzione di risparmio per gli europei alternativa ai titoli di stato statunitensi, favorendo così un riequilibrio tra le due sponde dell’Atlantico.
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