Il Parlamento ha votato la risoluzione al Pnrr del governo Conte chiedendo più fondi all’industria della Difesa.
Il Recovery Plan (Piano nazionale di ricostruzione e resilienza) di cui si erano perse le tracce, ha dato un colpo di vita ieri e l’altroieri con il voto del Parlamento sulle relazioni di indirizzo al governo. Voto a stragrande maggioranza (anche Fratelli d’Italia si è astenuta) come il governo Draghi esige. E voto che permette di fare il punto sulla situazione, ma anche di prendere la misura della disinvoltura delle indicazioni delle Camere.
Nei testi voluminosi approvati nei giorni scorsi, infatti, si possono trovare l’una accanto all’altra, frasi come questa: “Il Piano ricevuto dal Parlamento purtroppo non prevede nulla per la tutela della biodiversità e degli ecosistemi, né per la riparazione dei danni ambientali che si sono susseguiti nel tempo su tutto il territorio nazionale. È quindi indispensabile fare in modo che la ‘Missione Rivoluzione verde e transizione ecologica’ contenga in modo chiaro e organico il tema della biodiversità, degli ecosistemi e dei loro servizi, e del paesaggio”. Impegno di chiara matrice ecologista al di là di cosa voglia dire concretamente.
Arrivano le armi. Poco dopo si legge però anche che occorre “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”.
Al di là del linguaggio involuto (di quelli che fanno inorridire il professor Cassese), il testo è molto chiaro e, come ha notato la Rete Disarmo, di fatto punta a destinare una parte dei fondi del Pnrr a rinnovare la capacità e i sistemi d’arma a disposizione dello strumento militare. “Un tentativo di greenwashing, di lavaggio verde, dell’industria delle armi che la Rete Italiana Pace e Disarmo stigmatizza e rigetta”.
Questa attenzione al settore militare finora era rimasta sottotraccia, anche perché difficilmente compatibile con i vincoli e le indicazioni che il Next Generation Eu ha previsto (Digitale, Transizione ecologica, Coesione sociale). Ma nelle discussioni delle commissioni parlamentari, da cui quel testo proviene, la fantasia non manca e a qualcuno è sembrato naturale poter inserire il potenziamento del sistema militare all’interno della direttrice ecologica. Senza però trascurare quella digitale. E infatti in un altro passaggio “malandrino” della risoluzione della Camera si trova “l’esigenza di valorizzare il contributo a favore della Difesa sviluppando le applicazioni dell’intelligenza artificiale e rafforzando la capacità della difesa cibernetica”. Al Senato si scrive, invece, che si “ritiene opportuno valorizzare il contributo della Difesa al rafforzamento della difesa cibernetica, sostenendo i programmi volti a rafforzare questo settore dello strumento militare, anche nell’ambito dei progetti in corso di svolgimento a livello dell’Unione europea”.
È il piano Conte.L’aspetto buffo della vicenda, comunque, è che il Parlamento ha discusso e votato sul vecchio progetto presentato dal governo Conte e, come ha fatto notare la sola Fratelli d’Italia, non ha potuto mai essere aggiornato su quanto sta facendo il governo Draghi. Se il Pnrr, per la gran parte della stampa italiana, era in ritardo già prima di essere ideato, oggi che alla scadenza mancano 29 giorni, nessuno se ne preoccupa più.
Sia il Senato che la Camera hanno iscritto nelle loro raccomandazioni, l’esigenza di una puntuale informazione anche con un successivo passaggio parlamentare prima della presentazione del Piano oppure tramite una relazione periodica. “Dovrebbero essere fornite maggiori informazioni in merito al modello di governance del Piano”, si legge nel documento del Senato. Entrambe le Camere, poi, hanno ribadito che occorrerà una “piattaforma digitale” per verificare l’andamento del Piano riaffermando per l’ennesima volta la necessità di semplificare le norme per l’attuazione dei progetti e di avviare le solite riforme strutturali (giustizia, Pubblica amministrazione, mercato del lavoro) che l’Unione europea richiede.
Le promesse di Franco. Tutti i gruppi si sono poi, in sede di dichiarazione di voto, detti soddisfatti delle spiegazioni proposte dal ministro dell’Economia Daniele Franco che, in verità, non è andato oltre il generico. “Ogni euro che verrà impegnato, ogni euro che verrà speso dovrà essere rendicontato”, ha garantito Franco, anche perché “i contributi a fondo perduto impongono un onere per il bilancio europeo a cui il nostro Paese è poi tenuto a contribuire”. Il ministro si è sperticato in elogi per il lavoro parlamentare assicurando che ogni indicazione verrà presa in considerazione (anche quella sulle armi?) dando poi qualche informazione su quanto si sta elaborando presso il proprio dicastero, unico centro di comando nella gestione del Piano nazionale di ricostruzione e resilienza. Franco ha ricordato che al momento la dotazione del Piano è di 191,5 miliardi di euro di cui circa “il 60 per cento dovrà essere destinato a obiettivi di modernizzazione digitale del Paese e di transizione ecologica, e che devono essere indirizzati soprattutto a giovani e imprese. Mi riferisco, qui, alle imprese di tutti i settori: innanzitutto, il settore manifatturiero; i servizi, tra i quali, ovviamente, è fondamentale il turismo; l’agricoltura, che è stata spesso ricordata questa mattina”.
La centralità è al sistema produttivo, dunque, nella solita convinzione che basti finanziare, a fondo perduto, l’offerta perché ci sia sviluppo, crescita e benessere. Fuori da questa priorità ci sarà il sostegno all’occupazione (non precisata, in genere si tratta di incentivi alle imprese), finanziamenti all’imprenditorialità femminile, per rafforzare la parità di genere, con misure che dovrebbero garantire “una parità sostanziale nei diversi ambiti, non solo lavorativo, ma anche sociale e culturale”. Alla fine, però, stringendo un po’, l’unico termine che viene fuori sono gli asili nido.
Per ridurre gli squilibri territoriali, Franco annuncia che “le risorse destinate alle aree territoriali del Mezzogiorno supereranno significativamente la quota del 34 per cento”. Qui parliamo di Alta velocità, scuola, sanità e agricoltura. Infine, alcune informazioni sulla governance: “Vi anticipo – ha detto il ministro – che la proposta finale di Piano conterrà la descrizione di un modello organizzativo basato su una struttura di coordinamento centrale, collegata a specifici presidi settoriali preso tutte le amministrazioni coinvolte, unitamente a strumenti e strutture di valutazione, sorveglianza e attuazione degli interventi”.
È poi previsto un pacchetto di “norme di semplificazione procedurale che agevoli la concreta messa in opera degli interventi, anche nel caso di interventi la cui realizzazione sarà responsabilità degli enti territoriali”, quindi con una serie di deroghe, immaginiamo, che erano state fortemente contestate al precedente governo. Sarà poi prevista “una piattaforma digitale pubblica centralizzata, con i dati relativi all’attuazione dei progetti del piano”.
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