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venerdì 2 aprile 2021

Consulta. Sì ai domiciliari per gli over 70 anche se recidivi. - Antonella Mascali

 

I detenuti ultrasettantenni potranno ottenere gli arresti domiciliari anche se condannati con l’aggravante della recidiva. La Corte costituzionale, relatore Francesco Viganò, ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario, che prevede per loro il divieto assoluto. La magistratura di sorveglianza dovrà valutare caso per caso se il condannato recidivo “sia in concreto meritevole di accedere” ai domiciliari, “tenuto conto anche della sua eventuale residua pericolosità sociale”. La misura, spiega la Corte, “si fonda su una duplice presunzione. Da un lato, il legislatore presume una generale diminuzione della pericolosità sociale del condannato anziano, secondo, le prescrizioni del giudice e con i dovuti controlli”. Inoltre, aggiunge la Corte, la norma è stata ritenuta irragionevole “anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena” e in modo conforme “alla costante giurisprudenza che considera contrarie” alla Costituzione (3 e 27) “le preclusioni assolute”. Questa sentenza non riguarda i detenuti anziani mafiosi o terroristi. La Corte, però, ribadendo il suo no alle preclusioni automatiche per benefici o misure alternative potrebbe applicare lo stesso concetto quando, dopo Pasqua, deciderà in merito al divieto attuale per mafiosi ergastolani di accedere alla libertà condizionale se non hanno collaborato.

IlFattoQuotidiano

domenica 29 novembre 2020

Tana liberi tutti. - Marco Travaglio

 

A edicole unificate, Roberto Saviano su Repubblica, Sandro Veronesi sul Corriere e Luigi Manconi sulla Stampa hanno scritto tre articolesse quasi identiche per unirsi per un paio di giorni allo sciopero della fame dei radicali e detenuti a favore di amnistia e/o indulto e/o altre tre misure svuota-carceri per “far uscire qualche migliaio di persone”: bloccare l’esecutività delle condanne definitive (cioè lasciare a spasso i nuovi pregiudicati); estendere a tutti i condannati, senza distinzioni di reati, la detenzione domiciliare speciale del dl Ristori (cioè mandare a casa anche i mafiosi e i terroristi, saggiamente esclusi dal governo); allungare la liberazione anticipata dagli attuali 45 giorni l’anno a 75 (cioè cancellare due mesi e mezzo da ogni anno di pena da scontare). Il tutto per scongiurare la presunta “strage” da Covid, con tanto di “condanne a morte” decise dal governo cattivo. I tre si dipingono come intellettuali scomodi, censurati ed emarginati dai media, alfieri di una battaglia che richiede “una grossa dose di coraggio”: infatti occupano tre pagine sui tre principali quotidiani italiani.

Noi pensiamo che i detenuti, a parte le restrizioni previste dalla legge, debbano godere degli stessi diritti degli altri cittadini. Quindi, se davvero la situazione fosse l’apocalisse descritta dal trio, ci assoceremmo immantinente al grido di dolore. Per fortuna i dati – quelli veri, non i loro – dicono l’opposto: le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del Paese: 5 morti da febbraio su 54.363 (contro i 29 reclusi morti in Gran Bretagna). E solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa (per chi ne ha una). Che, trattandosi di gente perlopiù povera, è di solito un ambiente altrettanto esiguo, promiscuo, sovraffollato, ma per giunta incontrollato. Già nella prima ondata i “garantisti” all’italiana strillavano all’“olocausto” nelle carceri, accusando il ministro Bonafede di non metter fuori nessuno, mentre altri geni gli imputavano di metter fuori centinaia di boss (che poi erano tre). Risultato: 2 morti da marzo a maggio e picco massimo di 140 contagiati sui 51mila detenuti di allora. Un’inezia, in rapporto ai dati nazionali. Del resto, bastava un po’ di buonsenso: contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è; e rimetterlo in circolazione non riduce il rischio che si contagi, ma lo aumenta. Ora che la seconda ondata è più diffusa e uniforme in tutta Italia, anche le carceri ne risentono. Sugli attuali 53.720 detenuti (dati del 24 novembre: chissà dove Saviano ne ha visti “oltre 60mila”), i morti sono 3 e i positivi 826 (l’1,5% del totale).

Di questi, 772 sono asintomatici, cioè non malati (93,5%), 32 paucisintomatici curati nelle strutture carcerarie e 22 sintomatici in ospedale. Poi ci sono gli agenti penitenziari: 970 positivi su circa 36mila, di cui 871 asintomatici (90%) e 99 sintomatici (10%). Ma sommarli ai detenuti, come fanno i tre tenori per raddoppiare i positivi in carcere, non ha senso, perché gli agenti positivi non mettono piede in carcere: 941 sono isolati in casa (97%), 19 in caserma e 10 in ospedale. Idem per il personale amministrativo e dirigenziale (72 positivi). Chi conosce i dati sul Covid (quelli veri) noterà la percentuale enorme di positivi asintomatici in carcere (93,5%) rispetto a chi sta fuori (55-60%). Il perché è presto spiegato: in carcere chiunque entri per iniziare la detenzione (“nuovo giunto”) viene sottoposto a tampone, resta isolato per 10-14 giorni e va in cella con gli altri solo dopo il secondo test negativo; per chi invece è già lì, appena si scopre un positivo scatta il tampone per tutti gli ospiti dell’istituto. Quindi la copertura di screening è pressoché totale, cosa che ovviamente non avviene per chi sta fuori: su 60 milioni di italiani, ogni giorno ne vengono testati 200-220 mila, spesso gli stessi che fanno il secondo tampone o più coppie di test. Il che rende ridicola la tesi del trio Saviano-Veronesi-Manconi, secondo cui si rischia il Covid più dentro che fuori. È vero il contrario: su 51mila detenuti, l’indice di positività è dell’1,5%, mentre sui 220-200 mila cittadini liberi testati al giorno è dell’11-12% (che sale addirittura al 23-24 escludendo i secondi tamponi e quelli ripetuti dagli stessi soggetti). Il che smentisce platealmente la tesi di Saviano-Veronesi-Manconi.

È falso che le carceri registrino “un tasso di infetti circa 10 volte superiore a quello, già pesante, che c’è fuori” (Veronesi), anche perché nessuno sa quanti siano i positivi fuori. Ed è falso che il governo – in particolare Bonafede e il Dap – se ne freghi per “indifferenza”, “ottundimento”, “paralisi”, “disumanità” e sadica sete di “tortura”. Anzi i protocolli finora adottati, con i test, i triage, gli isolamenti hanno circoscritto i contagi. E il sovraffollamento endemico delle carceri (che dipende dalla carenza di posti cella in rapporto al numero dei delinquenti, non certo da un eccesso di detenuti, il cui numero è inferiore alle medie europee) è stato alleviato senza tana liberi tutti, ma con misure equilibrate: la semilibertà prolungata (chi deve rientrare la sera dorme a casa) e la detenzione domiciliare speciale (con braccialetto elettronico per i casi più gravi, esclusi mafiosi e altri soggetti pericolosi). Se i numeri cambieranno, ne riparleremo. Per ora l’unica strage in corso nelle carceri è quella della verità.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/29/tana-liberi-tutti/6020238/

lunedì 7 settembre 2020

La peste del linguaggio. Quando il detenuto diventa una “persona privata della libertà”. - Nando dalla Chiesa


La peste del linguaggio | Sussurri obliqui

Ma benedetti figli, non ce l’hanno un linguista? Non dico un Tullio De Mauro, ma una persona di buon senso che conosca l’italiano? Mi riferisco a chi in Parlamento, nei ministeri o altrove maneggia con straordinario sprezzo del ridicolo la nostra lingua per sfornare leggi e norme. Stavo giusto meditando su quale persona o situazione scegliere per queste Storie italiane quando un telegiornale della sera ha rivoluzionato tutto. Parlando dello scandalo primaverile delle cinquecento scarcerazioni in massa di boss e trafficanti, il notiziario ha nominato un “Garante delle persone private della libertà”. Che una volta era prima di tutto garante dei detenuti. I quali, a quanto pare, annoverano ora tra i loro diritti quello di non essere più chiamati tali. Una nuova, classica operazione di travestimento semantico. A volta queste operazioni hanno un senso, come quando la domestica è diventata “collaboratrice domestica”. Altre volte sono ridicole, come quando il netturbino (già diverso dallo spazzino) sarebbe dovuto diventare operatore ecologico. Altre volte sono tragicomiche, come in questo caso. Che cosa vuole dire “persone private della libertà”? Si rendono conto gli sprovveduti di quel che scrivono?
Purtroppo non c’è più un Calvino che deplori, quando arriva, “la peste del linguaggio”. Ma qui la peste del politicamente corretto colpisce davvero senza pietà. Perché a essere privati della libertà non ci sono solo i detenuti, che ogni persona assennata continuerà a chiamare tecnicamente, e senza intenti offensivi, “detenuti”. Ma ci sono altre numerose schiere di persone.
Per esempio le donne – mogli, fidanzate e figlie – degli uomini di mafia. Ne stiamo leggendo ormai una quantità di storie raccapriccianti. Vere forme di schiavitù, rispetto alle quali la libertà di azione e di parola di un detenuto diventa quasi un miraggio. Oppure ci sono i testimoni di giustizia, anch’essi privati della loro libertà e in più, spesso, anche del nome. Sono di fatto dei “fine pena mai”, perché non ci sarà mai un medico o un giudice, per quanto corrotto o codardo, capace di restituirli a vita libera. E di quale libertà godono poi i minori che si affastellano negli opifici cinesi, tra il posto di lavoro e la branda, senza poterne uscire per anni? E ancora, ma si potrebbe continuare a lungo: di che libertà godono le giovani prostitute vittime di tratta a sedici, diciassette anni, tenute come bestie-bancomat dalle organizzazioni che le sfruttano? E infine, pietra di paragone massima: e gli ostaggi dei sequestri di persona? Se le parole hanno un senso il Garante delle “persone private della libertà” deve occuparsi anche di tutti costoro, deve scovare i luoghi in cui i loro diritti vengono conculcati e poi difenderne la domanda di giustizia, trattandosi per di più non di “presunti colpevoli” ma di esseri certamente innocenti. Anzi: da che parte starà questa figura mitologica di garante, dovesse mai essere chiamata a scegliere tra i diritti di questi innocenti “privati della libertà” e quelli di chi, avendogliela tolta, incorresse poi nella punizione dello Stato? Quesito interessante e imbarazzante.
Già immagino qualcuno sorridere, con aria di superiorità. “Ma il garante mica deve pensare a tutte queste persone. Pensa ai diritti dei detenuti”. Appunto, e torniamo al punto di partenza. Se alla parola conseguono i fatti, tutto cambia (e forse non sarebbe male, visto che le categorie di cui abbiamo parlato sono totalmente indifese). Se le parole sono invece maquillage che toglie a una società i suoi significati, siamo alla truffa, o alla barzelletta. E significa che c’è il Covid ma c’è anche la peste del linguaggio. E a proposito. Quello che viene giustamente invocato è il distanziamento “fisico”. Contro le distanze sociali è da più di due secoli che ci battiamo. Ribadisco: dategli un linguista.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/07/la-peste-del-linguaggio-quando-il-detenuto-diventa-una-persona-privata-della-liberta/5922900/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-09-07

lunedì 11 novembre 2013

Carceri, per gli alimenti prezzi alle stelle ai detenuti. E le ditte fanno affari d’oro. - Chiara Daina

Carceri, per gli alimenti prezzi alle stelle ai detenuti. E le ditte fanno affari d’oro


I quasi 65 mila reclusi nelle carceri della Repubblica italiana possono decidere di sfamarsi in due modi: usufruendo del “carrello” che gli passa lo Stato che paga 2,90 euro per tre pasti oppure facendo la spesa. Ma il costo di una confezione di pasta o di caffè dietro le sbarre è molto più alto della media.

Nelle carceri italiane si fanno affari d’oro. Accade alla luce del sole ogni giorno e riguarda la routine dei pasti quotidiani dietro le sbarre. I quasi 65mila reclusi nelle carceri della Repubblica italiana possono decidere di sfamarsi in due modi: usufruendo del “carrello” che gli passa lo Stato, – colazione, pranzo e cena consegnati direttamente in cella nelle “gavette”, recipienti metallici che ogni detenuto riceve in dotazione al momento dell’arresto – oppure mettendosi ai fornelli, esclusivamente da campeggio.
Nel primo caso, la spesa è a carico del ministero della Giustizia, che stanzia 2,90 euro a testa per tre vitti al giorno. Di solito, la qualità del cibo è quello che è e le dosi non saziano mai abbastanza. Nel secondo caso, è il singolo carcerato a pagare la spesa extra, il cosiddetto “sopravvitto”, attraverso un conto corrente postale intestato all’istituto penitenziario su cui la famiglia ha versato dei soldi di tasca propria. La lista della spesa è già pronta, può variare un minimo con le stagioni (d’estate spuntano gelati e pomodorini), ma in generale non concede ripensamenti: al detenuto basta compilare due volte alla settimana un modulo apposta indicando tra gli alimenti disponibili quelli che gli servono. L’elenco comprende oltre ai beni di prima necessità (dalla pasta alle bombolette del gas, assorbenti e carta igienica), cartoleria, sigarette e giornali. Tutto normale fin qui. Se non fosse che chi sta dietro le sbarre non ha diritto alla scelta come chi va al supermercato: lo spaccio interno, dato in appalto a privati, offre un articolo per ogni genere di prodotto, di solito della marca più cara, e zero possibilità di avvalersi di prezzi scontati, offerte, “tre per due” o alimenti da discount. Tanto il detenuto non può non pagare il conto. O cambiare fornitore. Tanto se si lamenta in cella, nessuno lo ascolta. Solo per citare qualche esempio pescato a caso nei listini prezzi delle nostre carceri, da nord a sud: caffè Lavazza (qualità rossa) a 3.39 euro, 250 grammi di burro a 2,55 euro, una confezione monodose (50 grammi) di marmellata a 70 centesimi, olio di oliva (non extravergine) a 5,50 euro, un chilo di biscotti a 4,15 euro, scatola di tonno Rio mare da 80 grammi a 1,05 euro, Scottex (4 rotoli) a 2,39 euro. I marchi non sono naturalmente responsabili di questi prezzi gonfiati e nei vari istituti il prezzo oscilla solo di qualche centesimo. Rare le eccezioni di merce sottomarca in alternativa a quella griffata. Nella casa di reclusione di Bollate (Milano), fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, o in quella di Padova, dove nel 2011 i detenuti hanno fatto due settimane di astensione dalla spesa per denunciare il caro prezzi, si trova anche il caffè low cost a 85 centesimi. Lussi per pochi, appunto. 
Lucrare sulla pelle dei detenuti è diventato un gioco da ragazzi. E il via libera arriva direttamente dai piani alti. La ditta che fornisce il vitto è la stessa che ha in mano il servizio di spesa extra e per massimizzare i profitti impone un’offerta limitata a pochissimi marchi, tra i più costosi in commercio. E poco importa se il direttore di un carcere è costretto a mandare indietro camion carichi di frutta e verdura di scarto venduti come merce di prima qualità. “Nessuna azienda è disposta a fornire tre pasti al giorno a meno di tre euro, quindi alla stessa viene affidata anche il sopravvitto perché non lavori in perdita” spiega Alfonso Sabella, a capo della Direzione generale dei beni e servizi del Dap. Va avanti così dal 1920. Risale a quell’anno infatti il Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari, che disciplina la prestazione congiunta di fornitura pasti e gestione dello spaccio (articolo 1, capitolato d’appalto). Una manna per le quattordici ditte che si sono aggiudicate entrambi i servizi nelle 206 carceri italiane. In pratica, un oligopolio con guadagno doppio e assicurato.
La Saep spa, per esempio, da anni gestisce gli spacci interni di 26 carceri italiane (di cui otto in Lombardia) e nel 2010 ha registrato oltre 4 milioni di utili. È una delle tredici società controllate dalla Tarricone holding srl, con sede a Balvano in provincia di Potenza e un giro d’affari niente di meno che nel gioco d’azzardo: gestisce due sale bingo (Gioco 2000 e Medusa), una piattaforma telematica per il poker online (Poker mondial network) e la raccolta di scommesse sportive e ippiche (Betflag). Un bel pacchetto di licenze garantito dalla nostra Repubblica. Poi c’è la Arturo Berselli & c. spa, con sede a Milano, che vince appalti dal 1930. È attiva in 20 istituti e nel 2012 ha fatto utili per oltre un milione e mezzo di euro. Altra presenza storica è Claudio Landucci, titolare della ditta omonima, alle spalle una carriera a capo dell’Associazione nazionale appaltatori degli istituti di pena (Anafip), e oggi attivo in sedici prigioni dello Stivale.  
C’è di più. Per volontà del ministero della Giustizia, gli appalti delle forniture di vitto devono essere effettuati limitando l’ammissione alla gara “alle sole ditte che nel triennio precedente abbiano regolarmente svolto rapporti analoghi con enti pubblici”. Una condizione che non piace all’Antitrust, che il 17 giugno 2005 con una segnalazione al ministero ha chiesto di tenere conto del principio di concorrenza da bilanciare con le esigenze di sicurezza, come stabilito dalla normativa europea. Perfino la sezione delle Marche e della Lombardia della Corte dei Conti per due volte ha respinto i decreti con cui i Dap regionali assegnavano alle ditte gli appalti. Il motivo? Vizi nelle procedure previste dalla legge. Ma dopo otto anni il copione si ripete. E nessuno, neanche per sbaglio, sembra avere intenzione di fare un passo in avanti. È rimasta lettera morta anche la circolare diffusa da Franco Ionta nel 2011, in cui l’ex capo del Dap pretendeva che in sopravvitto ci dovessero essere almeno “tre o quattro articoli per lo stesso genere”. In un’altra circolare del 1996 si chiedeva che il tariffario modello 72 (quello della spesa del sopravvitto) fosse il più ampio possibile. Parole al vento. Alla fine della fiera il detenuto è condannato due volte, alla sua pena e alla negligenza delle istituzioni.