Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 2 luglio 2025
Il pozzo sacro di Santa Cristina - Sardegna.
giovedì 8 maggio 2025
Tombe dei giganti. - @ndrea Milanesi
Le tombe, spesso composte da lunghe camere sepolcrali coperte da grandi lastre di pietra e precedute da imponenti esedre semicircolari, sono state interpretate dagli archeologi come luoghi di sepoltura collettiva e centri di aggregazione rituale per le comunità nuragiche. La loro disposizione richiama simboli di fertilità: teste di toro, falliche evocazioni della forza vitale della terra e della ciclicità della natura. Queste immagini sembrano suggerire che le tombe non fossero solo luoghi di morte, ma anche di rinascita spirituale e di comunione tra vivi e defunti.
Ma se la scienza ci offre spiegazioni razionali, la leggenda sarda intreccia la sua trama con quella della storia. Secondo la tradizione popolare, infatti, queste tombe sarebbero i sepolcri di misteriosi giganti che un tempo avrebbero abitato l’isola, esseri di straordinaria forza e saggezza. Racconti tramandati di generazione in generazione descrivono come, tra le pietre silenziose di S’Ena e Thomes, Coddu Vecchiu o Li Lolghi, si celino ancora le energie primordiali di questi antichi titani, custodi di conoscenze dimenticate e protagonisti di una mitologia che travalica i confini del tempo.
La monumentalità delle Tombe dei Giganti, la loro collocazione spesso in luoghi panoramici e la loro misteriosa aura, continuano ad affascinare viaggiatori, studiosi e sognatori di ogni epoca. Sono luoghi di incontro tra il visibile e l’invisibile, tra l’umano e il divino, tra la certezza della pietra e l’incertezza del mito. In esse si riflette la profonda spiritualità della cultura nuragica, che vedeva nella morte non una fine, ma una trasformazione, un ritorno all’unità primordiale della comunità.
Ma quale verità si cela dietro questi monumenti? Siamo in grado, oggi, di distinguere ciò che è storia da ciò che è leggenda, o forse entrambe le dimensioni sono necessarie per comprendere il senso profondo di questi luoghi? E ancora: la memoria collettiva, custodita tra pietre e racconti, può aiutarci a ritrovare il senso del sacro in un’epoca dominata dalla tecnologia e dalla velocità?
Forse, come suggerisce il silenzio millenario delle Tombe dei Giganti, la risposta non sta nel separare il mito dalla storia, ma nel riconoscerli come due volti della stessa, antica domanda umana: chi siamo noi, di fronte all’eternità della pietra e alla fugacità della vita?
#TombeDeiGiganti
@ndrea Milanesi
lunedì 7 aprile 2025
I Giganti di Mont'e Prama.
I Giganti di Mont'e Prama (Sos gigantes de Mont’e Prama in lingua sarda[1][3][4]) sono antiche sculture risalenti alla Civiltà nuragica ritrovate casualmente nel marzo del 1974 in località Mont'e Prama nel Sinis di Cabras, nella Sardegna centro-occidentale. Sono state scolpite a tutto tondo ognuna a partire da un unico blocco di calcarenite locale proveniente da cave distanti in linea d'aria sedici chilometri. La loro altezza varia tra i due e i due metri e mezzo e come nelle raffigurazioni dei bronzetti nuragici rappresentano arcieri, guerrieri e pugilatori. Insieme alle statue furono rinvenute sculture raffiguranti nuraghi, oltre a numerosi betili del tipo "oragiana",[5] tipico manufatto artistico presente nell'esedra delle tombe dei giganti.[6] Il complesso scultoreo ricomposto in seguito al restauro è costituito da trentotto sculture di cui cinque arcieri, quattro guerrieri, sedici pugilatori, tredici modelli di nuraghe.
Le statue sono state ritrovate spezzate in numerosi frammenti in connessione a una vasta necropoli costituita attualmente (2021) da circa 150 sepolture. Nelle tombe a pozzo sono stati sepolti in postura assisa dei giovani individui, quasi tutti di sesso maschile e dalla muscolatura molto sviluppata: secondo gli studiosi ciò denota l'appartenenza alla classe dei guerrieri o degli aristocratici. All'interno delle tombe sono stati rinvenuti anche diversi frammenti di statue e sculture e l'associazione dei frammenti con i resti osteologici consente di datare le statue tramite il metodo del Carbonio 14. Altri reperti in grado di fornire indicazioni cronologiche sono le ceramiche e in un solo caso uno scarabeo egizio di età ramesside. A seconda delle ipotesi, la datazione dei Kolóssoi, nome con il quale li chiamava l'archeologo Giovanni Lilliu, oscilla dal IX secolo a.C. o addirittura dal XIII secolo a.C., ipotesi che in ogni caso fa di Mont'e Prama il complesso di statue a tutto tondo più antico e numeroso d'Europa e del Mar Mediterraneo occidentale, in quanto antecedenti ai kouroi della Grecia antica e seconde soltanto alle sculture egizie.[7]
Il sito oltre ad essere circondato da numerose vestigia nuragiche (villaggi, nuraghi), risulta essere l'emergenza di un più vasto insediamento. Le prospezioni geofisiche effettuate tramite l'utilizzo di un georadar hanno permesso di individuare altre numerose tombe e probabilmente altri giacimenti di statue nonché altre strutture templari. Ad oggi (2021) tali evidenze non sono state ancora indagate. Dopo quattro campagne di scavo fra il 1975 e il 2017, sono stati rinvenuti circa diecimila frammenti di pietra tra i quali 15 teste, 27 busti, 176 frammenti di braccia, 143 frammenti di gambe, 784 frammenti di scudo. Inizialmente solo alcuni dei primi frammenti vennero esposti in un'ala del Museo archeologico di Cagliari e la scoperta fu trascurata per decenni.[8] Con lo stanziamento dei fondi nel 2005 da parte del Ministero per i beni e le attività culturali e della Regione Sardegna, le statue sono state ricomposte dai restauratori del Centro di conservazione archeologica di Roma, coordinati dalla Soprintendenza per i Beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro, nei locali del Centro di restauro e conservazione dei beni culturali presso Sassari. Attualmente (2021) diversi reperti ceramici e diverse datazioni ottenute col metodo C-14 indicano nel bronzo recente nuragico (XII secolo a.C.-XIII secolo a.C.) la fase iniziale della necropoli. L'ultima inumazione nuragica è datata al IV sec. a.C. contestuale alla conquista cartaginese della Sardegna e di poco antecedente alle numerose ceramiche e tombe puniche collegate alla distruzione e alla discarica delle statue. Nel 2014 in seguito a nuove campagne geofisiche, le università di Sassari e Cagliari ripresero gli scavi portando alla luce nuove tombe e statue.
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lunedì 26 agosto 2024
Domus de janas - Sardegna
Le domus de janas sono tombe preistoriche scavate nella roccia tipiche della Sardegna prenuragica.
Si trovano sia isolate, che in grandi raggruppamenti formati anche da più di 40 tombe. A partire dal Neolitico recente fino all'età del bronzo antico (4400–2000 a.C.) queste strutture contraddistinguevano tutte le zone dell'isola, ad eccezione della Gallura.
Ne sono state scoperte più di 2.400, circa una ogni 10 chilometri quadrati in media, e si ipotizza che molte rimangano ancora da trovare. Sono spesso collegate tra loro a formare dei veri e propri cimiteri sotterranei, con in comune un corridoio d'accesso (dromos) ed un ingresso a volte molto spazioso e con un soffitto alto.
In italiano il termine sardo domus de janas (variante meridionale) è stato tradotto in «case delle fate», essendo le janas delle figure mitologiche tipiche del folclore regionale, simili a creature femminili dai poteri magici.[1]
Le domus de janas in altre zone dell'isola sono conosciute anche con il nome di forrus, forreddus, concheddas, grutas.[2]
Datazione.
Gli archeologi sostengono che le prime domus de janas siano state scavate intorno alla metà del IV millennio a.C. durante il periodo in cui sull'isola si sviluppò la Cultura di San Ciriaco (Neolitico recente 3400-3200)[3]. Con la Cultura di Ozieri (Neolitico finale 3200-2800) si diffusero in tutta la Sardegna (ad eccezione di gran parte della Gallura[4]). Le genti di cultura Ozieri erano laboriose e pacifiche, dedite all'agricoltura e con una particolare religione che aveva una corrispondenza nelle lontane isole Cicladi. Adoravano il Sole e il Toro, simboli della forza maschile, la Luna e la Madre Mediterranea, simboli della fertilità femminile. Statuine stilizzate della Dea Madre sono state ritrovate in queste sepolture e nei luoghi di culto.
Le diverse architetture.
Le grotticelle sono state edificate su costoni in cui affiorava la roccia viva, una vicino all'altra così da formare nel tempo delle vere e proprie necropoli. Anche se presenti in altri siti mediterranei, sull'isola acquistano un carattere di unicità e straordinarietà per l'accurata lavorazione, per i caratteristici aspetti architettonici e le ricche decorazioni che richiamano quelle che furono le case dei vivi (ma su scala ridotta, si pensa, più o meno alla metà), dando una precisa idea di come in realtà fossero costruite le case dei paleosardi cinquemila anni fa. Si possono perciò trovare grotticelle a forma di capanna rotonda con il tetto a forma di cono, ma anche con spazi rettangolari e a tetto spiovente, provviste di porte e di finestre. Le pareti poi venivano spesso ornate con simboli magici in rilievo, rappresentanti corna taurine stilizzate, spirali ed altri disegni geometrici[5]. Piuttosto numerose sono infatti le rappresentazioni naturalistiche o schematiche della testa taurina, o delle sole corna, che «testimoniano il culto di una divinità principio di rigenerazione per i defunti in quanto simbolo della vita e della potenza fecondatrice. Accanto alla decorazione in rilievo compare anche quella incisa e quella dipinta, quest'ultima documentata in particolare nella celebre tomba di Mandra Antine di Thiesi. Compaiono motivi lineari e geometrici, quali zig-zag, spirali, dischi, talvolta di grande valore simbolico»[6].
Inumazione.
Seguendo particolari riti, il defunto veniva trasferito da quella che durante la sua vita fu la sua casa abituale, in un'altra casa, secondo un antico principio ideale - proprio di queste genti - che presupponeva la continuità eterna dell'essere umano.
I corpi venivano deposti in posizione fetale e - si pensa - venissero dipinti con ocra rossa, così come le pareti della tomba stessa. Accanto alle spoglie venivano deposti oggetti di uso comune facenti parte del corredo terreno del defunto e si pensa anche che venisse lasciato del cibo per il viaggio ultraterreno. Nel tempo i corredi funebri venivano rimossi per far luogo a nuove deposizioni e questa usanza ripetuta nei secoli ha impedito una miglior conoscenza del fenomeno e per questa ragione le ipotesi che le domus de janas fossero destinate ad un unico gruppo familiare resta non provata[6].
L'archeologo Giovanni Lilliu su questo argomento ha scritto che: «...i cadaveri erano sepolti, non di rado, sotto bianchi cumuli di valve di molluschi. Ma tutti portando con sé strumenti e monili della loro vita terrena: punte di frecce di ossidiana, coltelli e asce di pietra, ma anche collane, braccialetti ed anelli di filo di rame ritorto, e tante ceramiche». Altre ipotesi sostengono che il corpo veniva lasciato all'aperto per scarnificarsi e solo dopo, quando era ridotto ad uno scheletro, veniva riposto nelle grotticelle.
L'utilizzo nel tempo.
Per quelle domus più complesse gli archeologi pensano ad un disegno costruttivo unitario seguendo una particolare planimetria a forma di T o a forma di croce. L'accesso è costituito da un lungo corridoio che immette in una anticella per poi raggiungere una cella centrale sulla quale si affacciano le varie cellette funerarie. Oltre alla cultura di San Ciriaco e a quella di Ozieri, anche le successive culture prenuragiche utilizzarono le domus de janas. Sporadicamente furono occupate anche durante la Civiltà nuragica ed in età storica. Il caso più conosciuto e quello della necropoli di Sant'Andrea Priu a Bonorva, utilizzata pure in periodo romano e poi come chiesa in quello bizantino, quando fu più volte intonacata e dipinta con affreschi dedicati alle storie della Vergine, alla vita di Cristo e degli apostoli.
I vari complessi sepolcrali.
I raggruppamenti più consistenti sono il complesso ipogeico di Anghelu Ruju[7] presso Alghero, costituito da 36 ipogei, quello di Montessu a Villaperuccio, quello di Sant'Andrea Priu,[8] nei dintorni di Bonorva, quello di Puttu Codinu a Villanova Monteleone[9]. Altre presenze di Domus de janas non meno importanti per estensione ed interesse archeologico si trovano in altre aree della Sardegna. Alcuni di essi, come per esempio il complesso ipogeico di Pimentel in Trexenta, non sono stati completamente scavati e sono ancora parzialmente interrati.
Scavi e studi.
Nel 1904 Antonio Taramelli aveva condotto uno scavo presso la Necropoli di Anghelu Ruju che è stato considerato il primo di ampio respiro e che aveva prodotto esiti apprezzabili[12], pubblicati nel 1909[13]. Giovanni Pinza e Antonio Taramelli sono stati i primi a dare una definizione a questi monumenti e il documentato inquadramento nel panorama culturale del Mediterraneo[14]
Candidatura Unesco.
Nel 2021 le domus de janas sono state candidate alla lista dei patrimoni dell'umanità[15], ed a Dicembre 2023 la regione Sardegna in collaborazione con vari enti (Soprintendenza regionale della Sardegna, la Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per le province di Sassari e Nuoro, la Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per la Città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e sud Sardegna e Direzione regionale musei Sardegna) ha firmato un protocollo d'intesa per sostenere la candidatura[16][17]. Nello specifico, sono state candidate diverse domus de janas situate nei comuni di: Ardauli, Alghero, Anela, Arzachena, Bonorva, Castelsardo, Cheremule, Goni, Mamoiada, Mores, Oliena, Olmedo, Oniferi, Ossi, Ozieri, Pau, Porto Torres, Putifigari, Sassari, Sedilo, Sennori, Villanova Monteleone, Villaperuccio e Villa Sant'Antonio[18].
martedì 30 luglio 2024
Un pozzo sacro di 3.500 anni che sfida ogni spiegazione. - Deslok
Questo pozzo sacro, costruito con un’incredibile conoscenza della geometria, dell’ingegneria e dell’astronomia, fu eretto da una misteriosa civiltà circa 3.500 anni fa.
Uno dei siti antichi più incredibili d’Europa si trova in Sardegna, Italia, in pochi conoscono l’esistenza di questo posto. L’antico monumento fa parte di un insediamento nuragico e si ritiene risalga ad almeno 3.000-3.500 anni fa.
Alcuni dicono che questo antico sito ospita la più impressionante pietra scolpita con precisione nel Mediterraneo. Altri sostengono che la sua precisione, bellezza e forma ricordano l’antica lavorazione egizia o quella delle culture pre-Inca in Perù. La verità è che il sito ospita un vero capolavoro.
Un pozzo sacro di 3.500 anni che sfida ogni spiegazione
Il Pozzo Sacro di Santa Cristina è un’antica struttura ritenuta l’espressione più alta e sofisticata dell’antica civiltà nuragica. Costruito con massi di pietra incredibilmente precisi e perfettamente posizionati, il sito è ancora più affascinante se consideriamo la geometria perfetta incorporata al suo interno.
Il Pozzo Sacro è stato costruito con un orientamento da Nord-Nordovest a Sud-Sudovest. Tre elementi distinti compongono il Pozzo Sacro. Tutti e tre sono stati accuratamente costruiti e cesellati. C’è l’atrio, il vano scala e la camera ipogea. Due di questi tre sono elementi esterni, l’atrio e il vano scale. Il capolavoro architettonico è visibile osservando il vano scala trapezoidale. Questo pozzo sacro è uno dei pozzi meglio conservati dell’isola.
Caratteristiche astronomiche del Pozzo Sacro.
Sebbene avvolto nel mistero come molte altre strutture antiche, il Pozzo Sacro ha alcune caratteristiche specifiche che sembrano puntare verso uno scopo astronomico. Uno è che negli equinozi il sole illumina l’interno del pozzo.
La luce del sole penetra perfettamente all’interno, riflettendosi sull’acqua. La seconda e forse più affascinante caratteristica è che ogni diciotto anni e sei mesi, quando la Luna raggiunge il suo punto più alto nel cielo, la luce lunare attraversa l’apertura del pozzo, illuminandone l’interno.
I suoi costruttori sono avvolti nel mistero.
Il Pozzo Sacro diventa ancora più suggestivo se all’equazione aggiungiamo che la civiltà che lo ha costruito, la cultura nuragica, è completamente avvolta nel mistero. Nonostante abbiano costruito monumenti incredibili e massicci, non hanno lasciato documenti scritti che possano dirci di più su di loro.
È impressionante che, sebbene i nuragici fossero costruttori così prolifici, non siano mai stati trovati documenti scritti su di loro. Infatti, gli unici documenti scritti di cui disponiamo che menzionano la civiltà nuragica provengono dalla letteratura romana e greca. Anche così, la maggior parte degli esperti ritiene che molti dei resoconti scritti siano considerati di natura mitologica.
Cosa sono i nuraghi?
I nuraghi sono le costruzioni più caratteristiche di questa antica cultura. Un nuraghe non è altro che una torre in pietra costruita con muratura ciclopica. Per erigere le torri, i costruttori usavano blocchi di pietra poligonali e li posizionavano uno sopra l’altro.
Su alcune torri, gli antichi costruttori usavano fango e malta per tenere in posizione le pietre. Tuttavia, le torri sono caratterizzate dall’uso di pietre tagliate uniformemente, un metodo chiamato stile isodomico.
Le torri che costruirono testimoniano che la civiltà nuragica era estremamente avanzata. Sulla base di stime, si ritiene che questa antica civiltà abbia eretto in Sardegna tra le sette e le ottomila torri di pietra.
Il semplice numero di torri suggerisce che queste persone fossero architetti, ingegneri e progettisti altamente avanzati.

