giovedì 28 maggio 2020

Ai sovranisti restano le chiacchiere. - Gaetano Pedullà

SALVINI MELONI

Di grande successo in Italia, il cabaret di Salvini e Meloni adesso fa ridere il mondo. Esattamente come usano con il Governo di Giuseppe Conte, a cui i leader sovranisti aggiungono un più davanti a qualunque provvedimento, ieri i leader sovranisti hanno bocciato la poderosa proposta della Commissione europea per superare i disastrosi effetti economici del Covid. Un’offerta senza precedenti, pari a 750 miliardi, che solo all’Italia può portare 81,8 miliardi a fondo perduto e altri 90,9 di prestiti a tassi minimi e a lungo termine.
In un mondo normale, chi sta tutti i giorni in tv a denunciare che famiglie e imprese sono senza soldi dovrebbe baciare terra dov’è sporco e ringraziare per una tale opportunità, che peraltro ha bisogno del sostegno di tutti per superare nel Consiglio d’Europa le resistenze degli ultimi quattro Stati rigoristi, capeggiati dall’Olanda. E invece cosa fanno Lega e Fratelli d’Italia? Sputano nel piatto in cui finalmente anche l’Italia può prendere dopo aver sempre e solo dato, e protestano perché dovevamo avere di più.
Lo stesso cliché, insomma, che ci propinano nei talk show, dove se il Governo stanzia un miliardo per qualcosa i generosi leghisti & fratelli di Giorgia ribattono che loro di miliardi ne avrebbero messi due e magari, perché no, tre o quattro. Tanto all’opposizione si fanno i conti con i soldi del Monopoli. Per fortuna, però, a Palazzo Chigi non ci sono loro, che in Europa stanno in guerra con tutti e non ci avrebbero fatto prendere il becco di un quattrino. E allora sì che avremmo cominciato a correre, ma verso il baratro.

Ecco (per ora) il Recovery Plan: all’Italia 82 miliardi, 60 da ridare. - Marco Palombi

Ecco (per ora) il Recovery Plan: all’Italia 82 miliardi, 60 da ridare

Alla fine è andata come si prevedeva, la brutta notizia semmai è che potrebbe andare peggio. Parliamo del Recovery Fund europeo: ieri è stata infatti presentata la proposta della Commissione Ue che andrà però discussa e approvata dai governi (Olanda e Austria, per dire, hanno già detto no). Partiamo dalla cifra totale: accanto al normale budget Ue (circa 1.100 miliardi di euro in 7 anni) ci saranno non 1.500 miliardi, la proposta spagnola, ma 750 tra 2021 e 2024. Si tratta di 500 miliardi di trasferimenti e il resto di prestiti, tutti, fino all’ultimo centesimo, sottoposti alle condizioni (quali riforme, quali settori, quali investimenti) che Bruxelles detterà a chi li prende.
Va comunque segnalato che è la prima volta, e ci è voluta una recessione mai vista in tempo di pace e che richiederebbe ben altre risposte, che l’Unione europea si dispone a emettere debito comune in quantità ragguardevoli per aumentare la capacità di spesa centrale.
Veniamo al vil denaro. Il progetto della Commissione prevede che il debito emesso andrà ripagato – in un arco di tempo da definire che va dal 2028 al 2058 – pro quota rispetto al peso nell’economia dell’Unione. I 500 miliardi di trasferimenti diretti hanno il vantaggio di non finire subito nella contabilità pubblica, quindi di non appesantire il rapporto debito-Pil: l’Italia dovrà comunque restituire la sua quota che su quei 500 miliardi è di circa 64 (più o meno il 13% dell’Ue secondo le ipotesi tecniche della Commissione, ma il conto potrebbe essere più salato perché va definito chi e in che proporzione si caricherà l’uscita della Gran Bretagna).
Chiarito questo, parliamo di cosa dovrebbe arrivare in Italia: secondo indiscrezioni arrivate ieri da Bruxelles, si tratta di quasi 82 miliardi di trasferimenti (dai 100 ipotizzati inizialmente dalla stessa Commissione) ovvero neanche 20 di trasferimenti netti in quattro anni. Poi ci sono altri 91 miliardi sotto forma di prestiti seppur a tassi agevolati (ma non è detto che vengano richiesti tutti). E dunque, si tratta di un primo passo, ma non siamo di fronte a un cambio di paradigma se non a livello simbolico.
Come arriveranno questi soldi nei vari territori? Di fatto si tratta di una estensione del bilancio dell’Ue, quello ad esempio dei sussidi all’agricoltura o, poniamo, dei fondi di coesione: finora, ed è una difficoltà da tener presente, come Paese non siamo stati bravissimi a spendere quei soldi.
Futuribile, poi, una proposta laterale della Commissione: quella di finanziare parte dell’operazione con imposizioni di tasse “europee”. Tra le ipotesi citate ci sono una tassa sulla plastica o sulle imprese inquinanti, come pure la sempre rinviata “web tax” sulle multinazionali del digitale.
Detto questo, il lettore deve tenere a mente che al momento discutiamo di una proposta che sarà probabilmente modificata nei mesi seguenti. Come detto, infatti, i quattro Paesi detti “frugali” hanno già sollevato – ognuno a modo suo – più di una perplessità sul documento della Commissione Ue, che – come previsto – si è posizionata nell’ordine di grandezza e nelle categorie tecniche di intervento indicati dall’intesa tra Francia e Germania una settimana fa.
Per capirci su quali saranno i temi di discussione, partiamo da Sebastian Kurz: per il cancelliere austriaco, questo è un “punto di partenza” nella ricerca europea di una risposta alla crisi e l’equilibrio “tra “prestiti e sussidi necessita di dibattito”. Il governo svedese non fa neanche finta di discutere: “La proposta della Commissione non è accettabile: l’azione europea deve essere basata sui prestiti e non sui trasferimenti”.
Vi risparmiamo gli altri, ma la questione è tutta qui: i Paesi del Nord si batteranno per diminuire la quota di sussidi (i maggiori beneficiari, secondo le indiscrezioni, sarebbero Italia e Spagna) cambiando ulteriormente disegno al Fondo per la Ripresa: da un segnale di buona volontà com’è oggi a un’iniziativa senza peso. Un primo accordo potrebbe arrivare a luglio, ma non è detto si vada così veloci: fortuna che a breve la Bce annuncerà l’estensione dei suoi acquisti di titoli sui mercati. Un bell’assist per l’Italia e per Conte: finché la Bce è in campo il Mes resta in panchina.

Expo2015, il sindaco di Milano s’inventa l’utile da 40 milioni. - Gianni Barbacetto

Expo: chiesti 13 mesi per sindaco Sala - Lombardia - ANSA.it
A tornare sull’argomento Expo è stato lui, Giuseppe Sala. “La società Expo 2015 in liquidazione presenta dei conti che riassumono dieci anni di percorso con un avanzo, quindi un utile, di 40 milioni”, ha dichiarato qualche giorno fa. “Il tormentone del buco da 200 o 400 milioni è finito. Questa storia per me finisce ieri”. È una storia italiana di successo, di “competenza, onestà e dedizione”. Proprio così: “Vi dico queste cose al di là del fatto che per me è una grande soddisfazione anche perché penso che in momenti difficili come questi bisogna poter dire e poter pensare che pur in un Paese difficile come il nostro, pur in momenti storici a volte anche cattivi come questo, si può fare. Si può fare se si ha competenza, onestà e dedizione, le caratteristiche di chi ha lavorato con me”.
Tutto a posto, tutto bene, dice dunque il commissario Expo diventato sindaco di Milano: la storia di Expo finisce con un “utile” di 40 milioni. Un “utile”? Proviamo allora a spiegare al manager Sala, in maniera facile facile, che cos’è successo davvero, visto che evidentemente non si è ancora ripreso dall’aperitivo sui Navigli di #milanononsiferma e continua a mostrarsi appannato e mal consigliato (vedi foto a braccia conserte sul tetto del Duomo con in cielo le Frecce tricolori).
Metti che un padre consegni al figlio preferito una cifra consistente, diciamo 2 miliardi e 300 milioni di euro, affinché apra un’attività. Il figlio progetta e realizza un grande bazar internazionale provvisorio. Le spese sono molte, i clienti sono meno del previsto, per attirarli è necessario fare prezzi stracciati e alla fine gli incassi non superano i 700 milioni. Chiusa l’attività e fatti i conti, il figlio si ritrova in tasca 40 milioni. Che cosa racconterà? Di aver chiuso l’operazione con 40 milioni di utili?
A Expo è andata esattamente così. Sono stati messi nell’impresa 2 miliardi e 300 milioni di denaro pubblico. Impiegati per la realizzazione dell’evento (1,3 miliardi) e per la sua gestione (circa 1 miliardo). Gli incassi (da biglietti, sponsorizzazioni, royalties) sono stati 700 milioni. A questi si aggiungono 75 milioni pagati da Arexpo per l’urbanizzazione delle aree su cui si è svolta l’esposizione universale. Dunque sono stati spesi 1 miliardo e 525 milioni, da cui vanno tolti i 40 milioni avanzati. So che è brutto chiamarlo “buco” o “rosso”, allora chiamatelo come volete, ma 1 miliardo e 485 milioni non sono mica rientrati nelle casse del padre premuroso.
Poi si puo dire che Expo ha fatto benissimo a Milano e all’Italia, che si sapeva fin dall’inizio che manifestazioni come l’esposizione universale non hanno il fine di chiudere in pareggio ma di sviluppare l’economia, che il famoso indotto ha portato soldi e benefici, che Milano pesa per il 12 per cento del pil nazionale e c’è chi giura che Expo 2015 sia stata la magica svolta che l’ha fatta diventare una delle grandi metropoli del mondo.
Io aspetto pazientemente le prove di questa melassa autocelebrativa, i numeri e gli argomenti capaci di dimostrarlo. Negli ultimi anni è cresciuta a dismisura una retorica stucchevole che ha celebrato in modo irragionevole una città che ha perso le sue fabbriche, indebolito il suo tessuto produttivo, venduto i gioielli di famiglia a cinesi (Pirelli) e arabi (Porta Nuova), ridotto la sua gloria ad aperitivi e food, locali e movida. Ora la pandemia rischia purtroppo di mostrare che il re è nudo, che l’eccellenza lombarda è fragile. La ripartenza andrà realizzata con un po’ più di modestia e senso di realtà. Senza spacciare, per favore, gli avanzi per utili.

Il gatto dei Benetton, tre amici al bar e quello scemo di Leonardo. - Daniele Luttazzi

L’altro giorno, il gatto dei Benetton, un persiano bianco dalla mente finanziaria raffinatissima, durante una riunione della Spectre (Atlantia-Autostrade-Ponte Morandi) ha consigliato il suo boss, che lo stava accarezzando, di ricattare con una minaccia legale il governo italiano per ottenere garanzie pubbliche su due miliardi di prestiti: così, se la Spectre non li onorerà, dovrà pensarci lo Stato. Il mio gatto, Romeo, è un suo secondo cugino, e ieri si è collegato con lui via Zoom per rampognarlo. L’altro, che è un figlio di buona donna come pochi, ha finto di cadere dalle nuvole: “Per legge, abbiamo diritto a quelle garanzie”. “E grazie al cazzo”, ha replicato Romeo. “Lo Stato vuole togliere le concessioni ad Autostrade per tutte le manchevolezze omicide della Spectre. Ma senza più concessioni, Autostrade salta, e non potrà restituire i prestiti, che a quel punto dovrà pagare lo Stato. Il tuo ricatto è schifoso!”. “Grazie”, gli ha detto quello, prima di pigiare un pulsante rosso che ha carbonizzato il mio gatto con una scossa elettrica sulla sua poltroncina.
Carlo De Benedetti pubblicherà un nuovo giornale. Si chiamerà Domani. Il nome non è felicissimo: nel romanzo di Eco Numero zero, il quotidiano Domani era una macchina del fango. E prima di Eco, nel film di James Bond Il Domani non muore mai, Tomorrow (“Domani”) era il giornale del malvagio Elliot Carver. Il neo-direttore sarà Stefano Feltri, uno dei tre italiani ammessi all’ultimo Bilderberg. Non so voi, io non vedo l’ora di leggere il primo numero.
In certi supermercati americani, quando una cliente va a lamentarsi all’ufficio reclami, il funzionario convoca un certo signor Smith e lo licenzia seduta stante. La cliente se ne va, contenta di avere stravinto; ma se il giorno dopo si ripresentasse con una nuova lagnanza, ritroverebbe il funzionario che convoca di nuovo il signor Smith per licenziarlo su due piedi, perché il signor Smith è pagato dall’azienda per fare quella parte almeno una dozzina di volte al giorno. Alle conferenze stampa di Conte, i giornaloni fanno sempre il tiro al piccione. A Conte farebbe comodo un signor Smith. O è Casalino?
Nel 1680, Papin osservò che il coperchio della pignatta si solleva per la pressione del vapore acqueo, e intuì che in quella pentola bollente c’era “materia per produrre con poca spesa delle forze estremamente grandi”. Passarono 80 anni prima che Watt, sfruttando l’idea di Papin, costruisse la prima macchina a vapore. Ora: le pignatte le mettevano sul fuoco anche all’epoca di Leonardo da Vinci. Ma a Leonardo da Vinci non venne mai in mente l’idea di Papin. Che cretino!
Ritorno alla normalità. Roma, tre amici al bar. Il conto è 30 euro. Ognuno dei tre dà 10 euro al cameriere. Il gestore chiede al cameriere se i clienti sono stati soddisfatti. “Hanno detto che è un po’ caro”, risponde il cameriere. E il gestore: “Col Coronavirus abbiamo più spese. Vabbè, restituiscigli 5 euro”. Poiché è difficile dividere 5 per 3, il cameriere intasca 2 euro e ne restituisce 3 ai clienti. Così avranno pagato 9 euro ciascuno. Ora: 9 x 3, 27. Più i 2 che si è tenuto il cameriere, 29. Dov’è finito l’euro che manca?

Il ritorno dello Gedi. - Marco Travaglio

Virus, Copasir: «Fake news contro l'Italia, c'è volontà di destabilizzare»
Da qualche settimana mi svegliavo la mattina con uno strano senso di vuoto. Come se mi mancasse qualcosa e non sapessi che cosa. Poi ieri ho letto Repubblica e ho capito: le fake news russe. E, già che ci siamo, pure cinesi. Ecco cos’era quella sgradevole sensazione: “Da Russia e Cina fake news contro l’Italia. È una guerra fredda”. E chi lo dice? Il Copasir, che dovrebbe controllare i servizi segreti, ma s’è preso una vacanza e ora indaga – insieme a un’ottantina di task force italiane ed europee – sulle fake news d’importazione (missione senz’altro più agevole che indagare su quelle italiane). E ha partorito un “report” di notevole “portata” “di cui Repubblica è venuta in possesso”. E, siccome a caval donato non si guarda in bocca, è passata sopra al dettaglio che il presidente del Copasir è il leghista Raffaele Volpi, detto The Fox, compare di partito di quelli che andavano e venivano dall’hotel Metropol di Mosca a trattare tangenti sui carburanti. Gente che di Russia se ne intende. Infatti il quotidiano di Sambuca Molinari smaschera “Sputnik, ma anche Russia Today” come “fonti esposte della disinformatia russa, fabbricanti di narrative artefatte”. E Repubblica se ne intende anche più di Volpi e del Copasir, visto che dal 2010 al 2015 allegava come suo inserto settimanale Russia Oggi, a cura del Cremlino di Putin. E ora scopre, grazie a una “chiosa” di Volpi, che Russia Today e Sputnik “tendono a fomentare polemiche contro l’Ue e i Paesi dell’Alleanza euro-atlantica” (mai esistita, ma fa niente).
L’allerta, come si può immaginare, è ai massimi livelli. “Senza alcuna pietà per le migliaia di morti che si accumulavano negli obitori italiani”, “la fucina della disinformazione russo-cinese ha continuato a sfornare centinaia di fake news” per “condizionare l’opinione pubblica italiana” e “indebolire il fronte delle democrazie occidentali nello scacchiere geopolitico mondiale”. Mica pizza e fichi. Ma anche per “delegittimare un competitor come gli Stati Uniti” (casomai a delegittimarlo non bastassero le cazzate fatte e dette da Trump). Stiamo parlando della “nuova frontiera della Guerra Fredda del terzo millennio”, “luogo di intersezione tra le maggiori potenze globali” e pensate un po’: “il Coronavirus è il palcoscenico perfetto che i regimi autocratici stavano aspettando”. Corbezzoli. In tre mesi Mosca e Pechino ci hanno trasformati in 60 milioni di agenti putiniani e di guardie rosse xijinpinghiane con la sola forza del pensiero, a colpi di “decine di profili fasulli”, “account anonimi” e “un esercito di troll”, senza dimenticare “le famigerate botnet” che, qualunque cosa siano, non hanno bisogno di presentazioni.
Gli esempi delle fake news che ci hanno russocinesizzati in blocco fanno accapponare la pelle. 
1) Il video con “una voce da un balcone” che urla “Grazie Cina!”, mentre “anziani commossi e famiglie si abbracciano e applaudono per le mascherine e gli aiuti ricevuti”: terribile. 
2) “La notizia falsa che i nostri servizi fossero a conoscenza del virus già nel novembre 2016 e avessero taciuto… rimasta sul sito di Rainews per mezza giornata”, addirittura (cioè più segreta dei servizi segreti): agghiacciante. 
3) “13 articoli apparsi sul sito Sputnik” sul “virus creato in un laboratorio americano in Ucraina” e su “Bill Gates finanziatore del virus” (evidentemente ha un conto in banca pure il Covid-19): mostruosi. 
4) Altri “due articoli dal contenuto discutibile”: da non dormirci la notte. 
5) “Casi apparentemente ‘autoctoni’, ma di cui non è ancora chiara l’origine”, tipo “il gruppo pubblico su Facebook i cui iscritti, facendo leva sulla difficoltà economica di cui soffre la popolazione della Puglia, inneggiano alla rivoluzione, al disordine sociale, contro il governo italiano”: la famosa insurrezione del Tavoliere e della Capitanata, da pelle d’oca. Ma anche “il gruppo privato ‘Rivoluzione Nazionale’ che incoraggia i raid ai danni di supermercati nel palermitano”: da barricarsi in casa.
Noi per la verità ci eravamo fatti l’idea che a soffiare sul fuoco delle sommosse e degli assalti ai supermercati fosse La Stampa, italianissima cugina di Repubblica, con titoli rasserenanti come “Rivolte al Sud: a Palermo prime razzie alimentari” (18 marzo), “Il Nord a rischio di tensioni sociali” (12 maggio), che sarebbero parsi un po’ eccessivi persino a Maria Giovanna Maglie. Ma si sa che questi troll russo-cinesi si annidano dappertutto, anche tra gli intrepidi cavalieri Gedi. Ieri, per dire, mentre l’annuncio della Von der Leyen sul Recovery Fund spazzava via tutte le panzane sul nostro governo perdente in Europa e condannato a chiedere l’elemosina al Mes, ci siamo abbeverati alla fonte purissima dei nemici delle fake news: Repubblica. E abbiamo scoperto, dal nostro idolo Stefano Folli, che Conte è “imbarazzato” perché i renziani hanno salvato Salvini e dimostrato che sul blocco della Open Arms il premier “non poteva non essere informato e quindi era consenziente, dal momento che Salvini, nei giorni della Open Arms, non è stato smentito da Palazzo Chigi”. In realtà Conte lo smentì con una lettera ufficiale lunga due metri e pubblicata anche su Facebook il 15 agosto 2019. Ma queste son cose note ai giornalisti, dunque non a Folli. Resta solo da appurare (magari dal Copasir) se le sue fake news arrivino dalla Russia, o dalla Cina, o siano produzione propria.

Scanzi: “Ha vinto Conte, anche se non lo ammetteranno mai”. - Andrea Scanzi

conte


Ovviamente i detrattori a prescindere e i fan dei due cazzari diranno ora che "il governo non ha ottenuto nulla e bla bla". Nella realtà è l'esatto contrario. Se avessimo accettato il Mes, come volevano Renzi (va be') e i giornaloni, avremmo preso (forse) 30 miliardi. In prestito, e i prestiti - con o senza penali - vanno restituiti. Conte ha sempre detto: "Il Mes non va bene, è vecchio e non basta". E' stato di parola. Il Recovery Fund che va a delinearsi, è a metà tra i sogni più spinti dell'Italia e il cinismo carognesco degli Stati del Nord: 750 miliardi. Di questi, la parte più consistente andrebbe all'Italia: 172,7 miliardi. Quasi sei volte il Mes. Non solo: di questi 172,7 miliardi, 81,8 sarebbero a fondo perduto. Quasi tre volte il Mes, e soprattutto a fondo perduto. Il resto sarebbe un prestito di 90,9 miliardi, cioè tre volte il Mes. E' un trionfo? No. C'è motivo per brindare? No, perché il lutto è ancora fresco, la pandemia ancora in atto e i dolori saranno tanti. Ma è innegabilmente una vittoria del governo e soprattutto di chi ha sempre tenuto la barra dritta: Conte, Gualtieri, M5S, larga parte del Pd e Leu.
Conte, su questa sfida, si era giocato tutto. Chi lo odia non lo ammetterà mai, ma ha avuto ragione lui. E a beneficiarne, per fortuna, saranno tutti gli italiani. Capisco che Salvini, destra, renziani e “stampa” asservita soffriranno nel leggerlo, ma ha ottenuto più Conte dall'Europa nelle ultime settimane che i loro statisti (di questa fava) in vent'anni. Così è. Anche se non vi pare.


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'Ndrangheta: appalti pilotati per favorire le cosche.

(Archivio) © ANSA

Decine di arresti in tutta Italia, coinvolti anche 11 funzionari pubblici.

Un cartello criminale composto da imprenditori e funzionari pubblici per pilotare gli appalti e agevolare le cosche della 'Ndrangheta. Lo ha scoperto la Guardia di Finanza che sta eseguendo decine di arresti in diverse regioni italiane. L'indagine, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, ha preso di mira i profili 'imprenditoriali' dei Piromalli, la cosca che opera nella Piana di Gioia Tauro. I finanzieri stanno eseguendo anche sequestri di beni e imprese per oltre 103 milioni. 
I provvedimenti cautelari e i sequestri, nei quali sono impegnati circa 500 finanzieri dei comandi provinciali e dello Scico, sono scattati in Calabria, nelle province di Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia, in Sicilia tra Messina, Palermo, Trapani e Agrigento, in Campania - a Benevento e Avellino - a Milano e Brescia in Lombardia e ad Alessandria, Gorizia, Pisa, Bologna e Roma.
L'operazione, coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e denominata 'Waterfront', è l'epilogo delle indagini sull' ala imprenditoriale dei Piromalli. Dagli accertamenti, infatti, è emersa l'esistenza di un cartello composto da imprenditori e pubblici ufficiali ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d'asta aggravata dall'agevolazione mafiosa, frode nelle pubbliche forniture, corruzione ed altri reati. Sono 11 i funzionari pubblici coinvolti.