venerdì 27 maggio 2016

Francia paralizzata contro il Jobs act: “Non faremo la fine dell’Italia”.



Paese bloccato dalle proteste sindacali. Si sciopera anche nelle centrali nucleari.



27/05/2016 - Quella di giovedì 26 maggio è stata l’ottava giornata consecutiva di mobilitazione in Francia, paralizzata dalle proteste contro la ‘Loi Travail‘, la riforma del lavoro molto simile al nostro Jobs act, parecchio controversa in quanto approvata dall’Assemblea Nazionale senza discussione né voto, grazie a un particolare meccanismo parlamentare. La legge dovrà ora essere discussa al Senato dal prossimo 14 giugno, giorno in cui è già stata fissata una nuova grande protesta.

Oltre che a Parigi, ci sono state manifestazioni a Brest, Rennes, Caen, Bordeaux, Marseille, Le Havre, Lione e in molte altre città. In tutto sono state arrestate 77 persone, 36 nella capitale.

La protesta si è allargata anche alle centrali nucleari, quanto mai strategiche visti i problemi energetici dati dal blocco del carburante. I lavoratori di tutte e diciannove le centrali nucleari presenti in Francia hanno deciso di aderire alla mobilitazione, ma solo dodici reattori su 58 hanno subito tagli di produzione. 
Due centrali termiche sono rimaste invece completamente ferme. Ci sono stati rallentamenti o blocchi in sei raffinerie di petrolio su otto e si sono fermati anche i principali porti del paese e due depositi di petrolio in Corsica. Coinvolti nelle agitazioni anche aviazione civile, ferrovie e trasporti locali.
Nonostante i disagi, i sondaggi dicono che oltre 6 francesi su 10 considerano giustificati gli scioperi, e 7 su 10 vorrebbero che la legge fosse ritirata o modificata.

E proprio in una delle raffinerie bloccate, a Fos-Sur-Mer, l’inviato de La Stampa ha parlato con i lavoratori, che hanno fatto un parallelo proprio col Jobs act italiano: “Non credete a questa menzogna del progresso! Vi siete fatti fregare, voi italiani. Non faremo lo stesso. Questo legge sulla flessibilità del lavoro è un ritorno al passato, vogliono togliere di mezzo il sindacato e disporre dei lavoratori a piacimento. Lo chiamano futuro, ma è una nuova forma di schiavitù. Ci possono licenziare a piacimento. Possono obbligarci a fare quanti straordinari vogliono, pagandoli di meno. Non garantiscono più la stessa assistenza sanitaria ai lavoratori. Ma la cosa più grave è che hanno imposto questa legge in totale disprezzo della democrazia, tagliando fuori il Parlamento”.

Il primo ministro Manuel Valls e il presidente Francois Hollande parlano di una “minoranza che ha preso in ostaggio il paese e i consumatori” e che useranno la forza per sgomberare i blocchi delle raffinerie. Questa mattina Valls, intervistato da BFM-TV, ha parlato di possibili “cambiamenti” o “miglioramenti” di alcune parti delle legge. Ha ribadito però che la riforma non sarà ritirata e dopo una serie di domande su quali potessero essere le modifiche, ha solamente aggiunto: “Vedremo, ma non ci sarà alcun cambiamento nella filosofia del testo”.

Leggi anche:

"Bella ciao" suonata in Place de la Republique a Parigi nelle manifestazioni di Nuit Debout contro la riforma del lavoro.



Un grande popolo riesce a mantenere alto l'onore e l'orgoglio.

https://www.facebook.com/ilcorsaro.altrainformazione/videos/1150264541683275/?pnref=story

STRATEGIA DEL GOLPE GLOBALE. - Manlio Dinucci


Quale colIegamento c’è tra società geograficamente, storicamente e culturalmente distanti, dal Kosovo alla Libia e alla Siria, dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Ucraina al Brasile e al Venezuela? Quello di essere coinvolte nella strategia globale degli Stati uniti, esemplificata dalla «geografia» del Pentagono.
Il mondo intero viene diviso in «aree di responsabilità», ciascuna affidata a uno dei sei «comandi combattenti unificati» degli Stati uniti: il Comando Nord copre il Nordamerica, il Comando Sud il Sudamerica, il Comando Europeo la regione comprendente Europa e Russia, il Comando Africa il continente africano, il Comando Centrale Medioriente e Asia Centrale, il Comando Pacifico la regione Asia/Pacifico.
Ai 6 comandi geografici se ne aggiungono 3 operativi su scala globale: il Comando strategico (responsabile delle forze nucleari), il Comando per le operazioni speciali, il Comando per il trasporto. 
A capo del Comando Europeo c’è un generale o ammiraglio nominato dal presidente degli Stati uniti, che assume automaticamente la carica di Comandante supremo alleato in Europa.
La Nato è quindi inserita nella catena di comando del Pentagono, opera cioè fondamentalmente in funzione della strategia statunitense. Essa consiste nell’eliminare qualsiasi Stato o movimento politico/sociale minacci gli interessi politici, economici e militari degli Stati uniti che, pur essendo ancora la maggiore potenza mondiale, stanno perdendo terreno di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.
Gli strumenti di tale strategia sono molteplici: dalla guerra aperta – vedi gli attacchi aeronavali e terrestri in Iugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia – alle operazioni coperte condotte sia in questi che in altri paesi, ultimamente in Siria e Ucraina. 
Per tali operazioni il Pentagono dispone delle forze speciali, circa 70000 specialisti che «ogni giorno operano in oltre 80 paesi su scala mondiale». 
Dispone inoltre di un esercito ombra di contractors (mercenari): in Afghanistan, documenta Foreign Policy, i mercenari del Pentagono sono circa 29.000, ossia tre per ogni soldato Usa; in Iraq circa 8.000, due per ogni soldato Usa.
Ai mercenari del Pentagono si aggiungono quelli della tentacolare Comunità di intelligence comprendente, oltre la Cia, altre 15 agenzie federali.
I mercenari sono doppiamente utili: possono assassinare e torturare, senza che ciò sia attribuito agli Usa, e quando sono uccisi i loro nomi non compaiono nella lista dei caduti. Inoltre il Pentagono e i servizi segreti dispongono dei gruppi che essi armano e addestrano, tipo quelli islamici usati per attaccare dall’interno la Libia e la Siria, e quelli neonazisti usati per il colpo di stato in Ucraina.
Altro strumento della stessa strategia sono quelle «organizzazioni non-governative» che, dotate di ingenti mezzi, vengono usate dalla Cia e dal Dipartimento di stato per azioni di destabilizzazione interna in nome della «difesa dei diritti dei cittadini».
Nello stesso quadro rientra l’azione del gruppo Bilderberg – che il magistrato Ferdinando Imposimato denuncia come «uno dei responsabili della strategia della tensione e delle stragi» in Italia – e quella della Open Society dell’«investitore e filantropo George Soros», artefice delle «rivoluzioni colorate».
Nel mirino della strategia golpista di Washington vi sono oggi il Brasile, per minare dall’interno i Brics, e il Venezuela per minare l’Alleanza Bolivariana per le Americhe. Per destabiizzare il Venezuela – indica il Comando Sud in un documento venuto alla luce – si deve provocare «uno scenario di tensione che permetta di combinare azioni di strada con l’impiego dosato della violenza armata».

giovedì 26 maggio 2016

LE INSUPERABILI CRITICITÀ DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE RENZI. - Alessandro Pace

LE INSUPERABILI CRITICITÀ DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE RENZI

Il Governo Renzi, con il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, già approvato nella prima delle due deliberazioni richieste per le leggi di revisione costituzionale, si propone di modificare le disposizioni costituzionali contenute nei titoli I, II, III, V, VI della Parte II della Costituzione e nelle disposizioni finali. Ebbene, poiché tali modifiche sono svariate – come si desume dalla stessa intitolazione della legge («Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione») – una volta che tale legge fosse sottoposta a referendum, coercirebbe la libertà di voto degli elettori (art. 48 Cost.) e violerebbe, nel contempo, la proclamazione della sovranità popolare «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 comma 2 Cost.), in quanto, trattandosi di una legge dal contenuto disomogeneo, l’elettore potrebbe esprimere, sull’intero testo, solo un sì o solo un no ancorché le scelte da compiere sono almeno due: la modifica dell’attuale forma di governo (e cioè il rafforzamento del Governo a spese del Parlamento, con un Senato ridotto ad una larva) e la modifica della forma di Stato (essendo rafforzata la posizione dello Stato centrale nei confronti delle Regioni).
Il che evidenzia l’illegittimità costituzionale che caratterizza il d.d.l. cost. AC n. 2613-B, perché viola, come già detto, gli artt. 1 e 48 Cost. Un vizio che non contraddistingueva invece la c.d. riforma della Costituzione proposta dal Governo Letta (d.d.l. cost. n. 813 AS), naufragata strada facendo, il cui art. 4 comma 2 prevedeva appunto che «Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico».
Ciò sta a significare che la scelta del Governo in favore di una legge costituzionale dal contenuto disomogeneo, è stata consapevole. Il Governo ha infatti inteso sfruttare le diffuse critiche, anche tecniche, sul mal funzionamento della riforma costituzionale dell’ordinamento regionale introdotta dalla legge cost. n. 3 del 2001, per indurre gli elettori a votare Sì, con la conseguenza che il voto sarebbe contestualmente favorevole alle modifiche della forma di governo: obiettivo prioritario del Governo Renzi.
Violazione dell’art. 138 della Costituzione
Il 29 dicembre 2015, nella conferenza di fine anno, Matteo Renzi si è formalmente impegnato a dimettersi da Presidente del Consiglio dei ministri qualora prevalesse il No nel referendum confermativo. Nell’impegnarsi a dimettersi in caso di sconfitta, Renzi ha però inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è stata del Governo. Non invece del Parlamento, il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione istituzionale di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, che si pone ad un livello ben più alto della politica quotidiana: un livello al quale anche le opposizioni devono poter avere voce in capitolo.
Scriveva infatti Piero Calamandrei nel 1947: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana»[1].
Un principio – quello dell’estraneità del governo alle revisioni costituzionali – che è funzionale ad un regime parlamentare come il nostro, che è stato rispettato per 47 anni, fino al tentativo di riforma costituzionale Berlusconi (2005), che prevedeva il così detto “premierato assoluto” bocciato dal referendum del 2006; seguito dal tentativo di riforma costituzionale del governo Letta (2013), che pretendeva, con un “crono-programma” alla mano, di derogare alle norme inderogabili dell’art. 138 Cost.; infine dalla riforma costituzionale Renzi. Né può dirsi che questa riforma fosse legittimata da quei due precedenti, perché l’una fu bocciata dal popolo, l’altra naufragò strada facendo.
Che la riforma Renzi, come le due precedenti, costituisca il contenuto di un atto di indirizzo politico di maggioranza in contrasto coi principi testé ricordati, è confermato dai cinque accadimenti che qui di seguito ricorderò. I quali pertanto non costituiscono delle discrepanze procedurali. Essi sono invece perfettamente funzionali all’indirizzo governativo incostituzionalmente impresso al procedimento di revisione costituzionale.
Primo. La presentazione di un disegno di legge costituzionale per la revisione della Costituzione, ancorché non presente nel programma elettorale del PD, era esplicitamente previsto nel programma del Governo Renzi. Esso pertanto costituiva anche formalmente un atto di indirizzo politico di maggioranza.
Secondo. Immediata conseguenza di quella premessa fu la rimozione d’autorità, nel luglio 2014, dalla Commissione Affari costituzionali del Senato in sede referente, di due parlamentari (i senatori Mauro e Mineo), i quali, insieme ad altri 14 senatori, avevano invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Costituzione.
Terzo. In sede di prima lettura del d.d.l. cost. n. 2613 la sen. Finocchiaro assunse le funzioni di relatore di maggioranza e il sen. Calderoli le funzioni di relatore di minoranza. In sede di terza lettura (d.d.l. cost. n. 2613-B), mentre le funzioni di relatore di maggioranza della sen. Finocchiaro le vennero confermate, le funzioni di relatore di minoranza non vennero assegnate, col pretesto della fine del c.d. patto del Nazzareno (B. Caravita), laddove la procedura di revisione costituzionale avrebbe dovuto essere insensibile alle vicende politiche (P. Calamandrei).
Quarto. Nella seduta del 1° ottobre 2015 venne messo in votazione l’emendamento (n. 1.203) a firma dei senatori Cociancich e Luciano Rossi[2], strutturato in modo tale da precludere tutta una serie di votazioni che avrebbero richiesto il voto segreto, con notevoli rischi per il Governo e per la maggioranza. Una specie di super-canguro nel procedimento di revisione costituzionale!
Quinto. Come dirò anche nel prosieguo, il “futuro” art. 57 Cost. presenta un’insanabile contraddittorietà interna, addirittura risibile in un testo solenne come la Costiuzione. Prevede infatti due commi tra loro antitetici. Per uscire da questa contraddizione, si suggerì da più parti, e anche autorevolmente (E.Cheli), di seguire il parere della Giunta del Regolamento della Camera dei deputati, Pres. Napolitano, del 5 maggio 1993, reso nel corso della modifica dell’art. 68 Cost., nel quale era stato correttamente osservato, «in considerazione dell’atipicità del procedimento di revisione costituzionale», che fosse ammissibile l’emendamento soppressivo di un comma già favorevolmente votato dai due rami del Parlamento (caso analogo all’attuale).
Ciò nondimeno la Presidente Finocchiaro, nella seduta del 2 ottobre 2015, senza andare troppo per il sottile, non considerò affatto tale precedente sulla base di un duplice, specioso argomento: 1) che la riaffermazione dell’eleggibilità diretta del Senato avrebbe altresì implicato la titolarità del rapporto fiduciario col Governo; 2) che l’ammissibilità dell’emendamento soppressivo dell’art. 2 comma 2 d.d.l. n. 1429-B sarebbe stato preclusivo dell’intera riforma.
Argomenti entrambi inesatti. Quanto al primo, la sola elettività diretta non implica la titolarità del rapporto fiduciario, Nel sistema parlamentare il rapporto fiduciario lega bensì il Governo a una Camera eletta dal popolo, ma in quanto essa sia titolare dell’indirizzo politico generale. Per contro, nel d.d.l. Renzi-Boschi, il Senato non è titolare dell’indirizzo politico generale. Conseguentemente l’estensione ad esso del rapporto fiduciario col Governo costituirebbe il frutto di una scelta discrezionale del legislatore costituzionale, e non la conseguenza di un principio costituzionale.
Quanto al secondo argomento, l’approvazione dell’emendamento soppressivo del comma 2 avrebbe implicato la sola conseguenza della riconferma dell’elettività diretta del Senato, non il naufragio dell’intera riforma.
Gli accadimenti storico-politici che hanno determinato la curvatura del procedimento di revisione costituzionale a fini di indirizzo politico di maggioranza
Gli accadimenti che hanno di fatto incostituzionalmente determinato l’utilizzo del procedimento di revisione costituzionale a fini di indirizzo politico di maggioranza sono due: da un lato la sent. n. 1 del 2014 con la quale la Corte costituzionale dichiarò l’incostituzionalità del Porcellum sulla base del quale la XVII legislatura era stata costituita; dall’altro l’inosservanza, da parte del Governo e della maggioranza parlamentare, dei limiti temporali che tale sentenza imponeva al legislatore.
Mi spiego meglio. La Corte, pur dichiarando l’incostituzionalità del Porcellum, consentì espressamente alle Camere di continuare ad operare e a legiferare, non però in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie a un principio fondamentale del nostro ordinamento conosciuto come il «principio di continuità dello Stato». La Corte richiamò due esempi di applicazione di tale principio: la prorogatio dei poteri delle Camere, a seguito delle nuove elezioni, finché non vengano convocate le nuove (art. 61 Cost.); la possibilità delle Camere sciolte di essere appositamente convocate per la conversione in legge di decreti legge (art. 77 comma 2 Cost.). Ebbene, in entrambe tali ipotesi, il «principio fondamentale della continuità dello Stato» incontra limiti di tempo assai brevi, non più di tre mesi!
Pertanto, ammesso pure che le nuove elezioni non potessero essere indette nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco, è però evidente l’azzardo istituzionale, da parte del Premier Renzi e dell’allora Presidente Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, e quindi con un Parlamento delegittimato quanto meno politicamente, se non anche giuridicamente, con parlamentari non eletti ma “nominati” grazie al Porcellum, insicuri di essere rieletti e perciò ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro «con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti»[3].
Di questa situazione di fatto, priva di chiarezza istituzionale e politica, l’attuale Presidente del Consiglio ha approfittato, abilmente e spregiudicatamente, con indubbio tempismo e col favore dell’allora Presidente della Repubblica, mettendo immediatamente in cantiere sia la riforma costituzionale sia il c.d. Italicum, la combinazione dei quali conduce alle distorsioni costituzionali ed istituzionali che ho precedentemente elencato.
Nel merito della riforma. L’Italicum come “perno” della riforma costituzionale
È a tutti noto che la ratio della dichiarazione d’incostituzionalità della legge n. 270 del 2005 era stata individuata dalla Corte costituzionale nella «eccessiva divaricazione tra la compressione dell’organo di rappresentanza politica (…) e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto». Avrebbe quindi dovuto essere intuitivo all’allora Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio Renzi che un Parlamento nel quale perdurava la «eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa» (quello eletto per la XVII legislatura repubblicana) non poteva considerarsi legittimato a procedere a revisioni costituzionali, come ribadirò nel prosieguo di questo mio intervento.
Ma non solo le norme del Porcellum sono state sostanzialmente riprodotte nell’Italicum, in forza del quale una lista, in sede di ballottaggio, col 20 o 25 per cento dei voti, potrebbe, grazie al premio di maggioranza, conseguire la maggioranza dei seggi, in contrasto con la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale.
C’è di più. Grazie all’Italicum il rapporto tra legge costituzionale e legge elettorale è stato invertito costituendone il “perno”. È infatti l’Italicum, approvato per primo, ad individuare il vero obiettivo del combinato “legge costituzionale – legge elettorale”, e cioè «verticalizzare il potere e gestirlo senza ostacoli e limiti da parte di nessuno, cittadini compresi» (L. Carlassare).
Le finalità accentratrici della riforma Renzi quanto alla forma di governo e alla forma di Stato
Le finalità accentratrici del disegno istituzionale sotteso alla riforma Renzi sono indiscutibili.
Nei rapporti tra Stato e Regioni di diritto comune (non però nei rapporti con le Regioni di diritto speciale, garantiti da specifiche leggi costituzionali) prevede una netta inversione di tendenza rispetto alla legge cost. n. 3 del 2001. Viene abolita la legislazione concorrente. Sono ricondotte alla competenza esclusiva dello Stato svariate materie in effetti troppo generosamente (o distrattamente) attribuite alla competenza regionale concorrente (ordinamento delle comunicazioni, grandi reti di trasporto, produzione e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario ecc.). Viene tuttavia venga fatta salva la potestà dello Stato di delegarne alle Regioni l’esercizio. Viene altresì introdotta la clausola di supremazia statale (ribattezzata “clausola vampiro”: A. D’Atena) in forza della quale una legge dello Stato può intervenire in materia non riservata allo Stato, «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (futuro art. 117 comma 4). Come acutamente sottolineato, ci si allontana dal modello “solidale” che, con tutte le sue imperfezioni, caratterizzava la riforma del 2001 e ci si avvicina al modello “competitivo” (G. Azzariti). Il che implica una modifica della forma di Stato.
Quanto invece alla forma di governo, la titolarità del rapporto fiduciario col Governo è attribuita alla sola Camera dei deputati. La quale esercita, collettivamente col Senato[4], la funzione di revisione costituzionale e la funzione legislativa in un numero limitato di importanti materie ed esercita in esclusiva la funzione legislativa nelle restanti materie, con intervento eventuale del Senato, talvolta non paritario rafforzato, talaltra non paritario con esame obbligatorio (per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo)[5]. Elegge, praticamente da sola, nel Parlamento in seduta comune, sia il Presidente della Repubblica, sia un terzo dei componenti del CSM, rendendo quindi irrilevante il voto dei 100 senatori (mentre, altrettanto irrazionalmente, elegge solo tre giudici costituzionali).
Come è ammesso dagli stessi sostenitori della riforma, il combinato della riforma Renzi-Boschi e dell’Italicum determina il «rafforzamento della collocazione del Presidente del Consiglio nel circuito istituzionale» (B. Caravita). E ciò per due ragioni. In primo luogo, grazie all’indiscussa primazia che viene riconosciuta al Governo nel procedimento legislativo, essendogli tra l’altro concesso di richiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni, che «un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia definitiva della Camera entro settanta giorni dalla deliberazione».
In secondo luogo, grazie al cumulo, nella stessa persona, delle cariche di Presidente del Consiglio dei ministri e di Segretario nazionale del partito di maggioranza, il che consente al Premier di influire sulle organizzazioni periferiche di partito e quindi sui consigli regionali e, transitivamente, sulle decisioni del Senato. Si pensi all’elezione di due giudici costituzionali di competenza del Senato, con conseguente abrogazione implicita dell’art. 3 l. cost. n. 2 del 1967, che prevedeva che i giudici costituzionali venissero eletti a maggioranza di due terzi o, tutt’al più, di tre quinti dal Parlamento in seduta comune!
Le molte criticità del futuro Senato. Violazione del principio costituzionale dell’elettività diretta del Senato come forma di esercizio della sovranità popolare
I maggiori problemi li suscita però il Senato, quanto alla fonte di legittimazione e alla composizione, se non anche per le attribuzioni.
Il futuro Senato sarebbe costituito da 100 senatori, cinque nominati dal Presidente della Repubblica e 95 eletti dai consigli regionali e dai consigli provinciali di Trento e Bolzano, nella persona di 74 consiglieri regionali e di 21 sindaci di comuni capoluogo: 21 collegi elettorali composti da poche decine di eletta di persone (in genere da 30 a 50 componenti, con le eccezioni del Molise, 20, della Lombardia, 80, e della Sicilia, 70) per un totale complessivo di circa ottocento elettori.
Ciò premesso, l’enunciato costituzionale secondo il quale «Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali…»[6] è stato autorevolmente qualificato come una “bestemmia”, alla luce della teoria della rappresentanza politica. In uno Stato non federale, il rappresentante è infatti il Parlamento e il rappresentato è “tutto il popolo” e non le istituzioni territoriali (M. Dogliani).
Inoltre, essendo i senatori eletti dai consigli regionali e provinciali, ma non “direttamente” dal popolo è stata contestata la legittimità costituzionale del “futuro” art. 57 commi 2 e 5 Cost., il quale, come già ricordato in precedenza[7], da un lato che prevede che i senatori siano eletti dai consigli regionali (comma 2) e dall’altro dispone che l’elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). La si è contestata, in forza del principio della sovranità popolare (L. Carlassare, A. Pace) sulla base della stessa giurisprudenza costituzionale, richiamando, sul punto, due importanti pronunce: la notissima sent. n. 1146 del 1988, nella quale si statuì che i «principi supremi della Costituzione» – tra i quali la Corte ha ripetutamente incluso la proclamazione della sovranità popolare (art. 1 Cost.) – non possono essere contraddetti nemmeno da una legge costituzionale; e la non meno nota sent. n. 1 del 2014 (dichiarativa dell’incostituzionalità del Porcellum), nella quale la Corte, nell’interpretare l’art. 1 comma 2 Cost., ha affermato che «la volontà dei cittadini, espressa attraverso il voto (…), costituisce il principale strumento della volontà popolare» (cons. in dir. § 3) e che, attraverso «la rappresentatività dell’assemblea parlamentare…si esprime la sovranità popolare» (cons. in dir., § 4).
Da parte di parlamentari della maggioranza e di studiosi anche autorevoli (ad es. A. D’Atena) si è invece sostenuto che l’elezione indiretta da parte dei consigli regionali rinverrebbe dei precedenti in diritto comparato. Il che non è esatto né con riferimento al modello francese, né a quello tedesco, né infine a quello austriaco.
In primo luogo non si tratta però di un’elezione indiretta perché i Consigli regionali e i due Consigli provinciali eleggono i senatori jure proprio, e non come “grandi elettori”. Ciò invece accade in Francia, dove i 44.600.000 elettori francesi eleggono specificamente i 150 mila grandi elettori che a loro volta eleggeranno i 340 senatori. I cittadini italiani eleggono i consigli regionali, punto e basta. Non si tratta quindi di un’elezione di secondo grado come quella francese o come quella delle elezioni presidenziali statunitensi (L. Elia).
Né è esatto il paragone col sistema tedesco perché nel Bundesrat sono presenti, a proprio titolo, i Governi dei sedici Länder – preesistenti alla stessa Legge fondamentale tedesca (1949) e addirittura alla stessa Costituzione imperiale del 1871 – che, per il tramite di loro rappresentanti, hanno a disposizione, a seconda dell’importanza del Land, da un minimo di tre ad un massimo di sei voti per ogni deliberazione. Per cui, non si tratta quindi di elezione indiretta.
E nemmeno si potrebbe sostenere che il modello italiano si ispiri al Bundesrat austriaco, i cui membri non sono eletti dai cittadini ma dalle assemblee dei Länder (art. 35 Cost. austriaca). A parte le critiche mosse al sistema austriaco proprio per la carente legittimazione delle assemblee dei Länder (H. Schäffer, R. Bin, F. Palermo), è risolutiva la differenza intercorrente tra la proclamazione della sovranità popolare dell’art. 1 comma 2 della nostra Costituzione secondo quale «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento della volontà popolare», e la proclamazione dell’art. 1 della Cost. austriaca («L’Austria è una Repubblica democratica. Il suo diritto emana sal popolo»), che non impone, nemmeno implicitamente, l’elettività diretta degli organi legislativi.
Ho già accennato come la versione definitiva del “futuro” art. 57 Cost. (di cui all’art. 2 d.d.l. n. 2613-B) preveda due commi tra loro antitetici, uno che prevede che i senatori saranno eletti dai consigli regionali (comma 2), l’altro secondo il quale tale elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). Il che non sfugge però alla seguente alternativa: o l’elezione da parte del Consigli regionali, per quanto riguarda i 74 senatori, sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e sarà quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso viola l’art. 1 Cost. per le ragioni anzidette.
Poiché però la «conformità alle scelte degli elettori» è imposta dal “futuro” art. 57 comma 5 Cost. soltanto per l’elezione dei senatori-consiglieri e non per l’elezione dei senatori-sindaci, ne segue che almeno l’elezione dei senatori-sindaci è priva del lambiccato correttivo previsto dal comma 5, per cui la violazione dell’art. 1 Cost. è comunque, sotto questo profilo, insanabile. Né si può ipotizzare che la legge bicamerale prevista dal comma 6 del “futuro” art. 57 – che dovrebbe «regolare le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica» – possa rendere identico ciò che tutt’al più sarebbe «conforme alle scelte degli elettori».
Il che implica che, una volta entrata in vigore la riforma costituzionale Renzi-Boschi, qualsiasi cittadino – nel corso di un giudizio nel quale si pretenda dalla controparte l’applicazione di una legge approvata sia dalla Camera che dal Senato (c.d. legge bicamerale) – potrebbe eccepirne l’illegittimità costituzionale “derivata” dall’incostituzionalità del “nuovo” art. 57 commi 2 e 5 Cost., per contrasto col citato art. 1 comma 2 Cost.
Irrazionalità della composizione del Senato
Si è già osservato come l’eccessiva differenza numerica dei seggi che compongono la Camera e il Senato è tale da rendere irrilevante la presenza dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune quando si tratti di eleggere il Presidente della Repubblica e i componenti del CSM.
Ebbene, anziché ridurre i componenti di entrambe le Camere – come si era da più parti suggerito facendo scendere la Camera a 400/500 componenti e il Senato a 200 – si è invece diminuito esclusivamente il numero dei senatori.
I cui 100 componenti, continueranno, oltre tutto, a svolgere part-time la funzione di consigliere regionale o di sindaco, con l’ovvia conseguenza, che svolgeranno male sia la funzione di consigliere regionale (o di sindaco), sia quella di senatore, con spreco, e non risparmio, di pubblico denaro come invece sbandierato dal Presidente del Consiglio e dalla ministra delle riforme.
E ciò senza voler ulteriormente considerare che il compito di valutare «le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori».
Altrettanto discutibile è la nomina presidenziale dei cinque senatori. E ciò per due motivi: 1) i cinque senatori, essendo nominati dal Presidente della Repubblica per sette anni – come lo stesso Capo dello Stato -, potrebbero subirne l’influenza; 2) è paradossale che cinque illustre personalità “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” vadano ad esercitare il loro alto magistero culturale in un organo che rappresenta esclusivamente le istituzioni territoriali (“futuro” art. 55 Cost.).
Conclusioni
In definitiva il d.d.l Renzi privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sette tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega, come già detto, l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.
Mi fermo qui, ma potrei continuare ancora a lungo: dall’esclusione del Senato nella deliberazione dello stato di guerra (leggi: l’invio all’estero delle missioni militari) ai difficili raccordi del Senato delle autonomie con lo Stato, con le stesse Regioni (i governatori stanno là e non a Palazzo Madama!) e infine con l’Unione europea (A. Manzella).
[1] P. Calamandrei, Come nasce la nuova Costituzione, ne Il Ponte, 1947, 1ss.
[2] «Al comma 1, capoverso «articolo 55 della Costituzione», sostituire il quinto comma con il seguente:  «5. Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato».
[3] V. il Fatto Quotidiano, 3.1.15, p. 4; Trasformismo in Parlamento in Repubblica.it, 4.1.16; S. Settis, Metamorfosi del deputato, ne L’Espresso, n. 1 del 7.1.16, p. 59; Il puzzle dei cambi di partito ne il Corriere della sera, 7.1.16, p. 12 s.
[4] Revisione della Costituzione e altre leggi costituzionali. Tutela delle minoranze linguistiche. Referendum popolari e altre forme di consultazione. Legge elettorale del Senato. Ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni e città metropolitane: forme associative dei comuni. Legge che stabilisce le norme generali per la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche UE. Ineleggibilità ed incompatibilità dei senatori. Ratifica dei trattati sull’appartenenza dell’Italia all’UE. Ordinamento di Roma capitale. Attribuzione alle Regioni di forme particolari di autonomia. Legge che disciplina la partecipazione delle Regioni alle decisioni dirette alla formazione del diritto europeo e all’attuazione degli accordi internazionali e degli atti dell’UE. Legge che disciplina i casi e le forme in cui la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali di altri Stati. Principi generali per l’attribuzione del patrimonio a comuni, città metropolitane e Regioni. Potere sostitutivo del Governo e casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dalle funzioni in caso di grave dissesto finanziario dell’ente. Principi fondamentali per il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente, degli assessori e consiglieri regionali, nonché per promuovere l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza: durata degli organi elettivi regionali; emolumenti degli organi regionali nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo. Distacco dei comuni da una Regione ed aggregazione ad un’altra.
[5] I procedimenti legislativi previsti dal d.d.l. Renzi-Boschi sarebbero più d’uno, se si segue la ripartizione suggerita da Gaetano Azzariti, in base ai diversi iter di volta in volta seguito: procedimento bicamerale paritario (art. 70 comma 1), monocamerale con intervento eventuale del Senato (art. 70 comma 2), non paritario rafforzato (art. 70 comma 4), non paritario con esame obbligatorio per le leggi di bilancio e rendiconto consuntivo (artt. 70 comma 5 e 81 comma 4), disegni di legge a “data certa” (art. 72 comma 7), conversione dei decreti legge (art. 77 commi 2 e 3), leggi di revisione costituzionale (art. 138). A questi sette distinti procedimenti di formazione può aggiungersi quello “speciale” relativo all’approvazione delle leggi elettorali che prevede la possibilità di un controllo preventivo da parte della Corte costituzionale (art. 73 comma 2) e quello nel quale il Senato può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta, “richiedere” alla Camera di procedere all’esame di un disegno di legge (art. 71).
[6] «Il Senato della Repubblica «rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato» (futuro art. 55 comma 5).
* Relazione del Prof. Alessandro Pace a Cosmopolitica 20/2/2016 Roma (Testo integrale)

Art. 70 della Costituzione. - Giuseppe Pipitone


Vecchia Costituzione Repubblicana, articolo 70: 
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.
**********
Nuova Costituzione Renziana, articolo 70: 
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere 
per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71, 
per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. 
Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. 
Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. 
Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. 
Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all'esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. 
L'esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all'articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all'articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d'intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all'esame della Camera dei deputati.

Finalmente sappiamo che significa!



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martedì 24 maggio 2016

Senato, dieci piccoli debunking. - Alessandro Giglioli

Referendum: Le 10 bugie dei sostenitori del “Sì” alla riforma Renzi-Boschi

1. «Al referendum si vota per abolire il Senato».
Falso. Il Senato, seppur ridotto di poteri e per numero di senatori, continuerà a esistere, nello stesso Palazzo in cui si trova. Sembra ovvio, ma solo pochi giorni fa una tivù nazionale ha mostrato un cartello secondo il quale si sarebbe votato «per abolire il Senato». Lo stesso Renzi oggi a Firenze ha detto testualmente che «non esisteranno più i senatori», un'evidente falsità.
2. «Con la riforma si faranno le leggi più in fretta».
Falso. A parte le materie in cui il Senato mantiene funzione legislativa paritaria ("leggi bicamerali"), negli altri casi il Senato può proporre modifiche per una seconda lettura alla Camera e in molti casi la Camera, per approvare le leggi senza conformarsi al parere del Senato, deve poi riapprovarle a maggioranza assoluta dei suoi componenti (non basta quella dei presenti in aula). In tutto, sono una decina le diverse modalità possibili di approvazione di una legge. Il che porterà non solo a una serie di rimpalli, ma soprattutto a conflitti sulla tipologia a cui appartiene una proposta di  legge, quindi sul suo iter.
3. «Il nuovo Senato abbatterà i costi della politica».
Parzialmente falso e di sicuro molto esagerato. I risparmi consistono nel fatto che i nuovi senatori (in quanto consiglieri regionali o sindaci) non saranno pagati per le loro funzioni senatoriali, ma avranno comunque le spese di trasferta a Roma dalle Regioni di provenienza e probabili forme di rimborso. Il personale di palazzo Madama che non resterà al Senato verrà trasferito. Si calcola ottimisticamente che il risparmio sulle spese oggi a carico di Palazzo Madama sarà di circa il 20 per cento rispetto alle spese attuali. Una riforma che avesse avuto come obiettivo il risparmio sui costi della politica avrebbe potuto dimezzare il numero complessivo dei parlamentari (315 deputati e 150 senatori, totale 450) ottenendo risparmi molto maggiori. Con questa riforma i parlamentari stipendiati restano infatti 630 (i deputati), più i rimborsi e le trasferte a Roma dei 100 senatori.
4. «Il nuovo Senato non sbilancia i contrappesi democratici».
Falso, se combinato con l'Italicum. La legge elettorale per la Camera (Italicum) assegna al partito vincente e al suo leader il controllo di 340 seggi. Data l'assenza di un'altra Camera con funzioni legislative altrettanto forti, ne consegue un accentramento di potere nelle mani dell’esecutivo e del premier. Inoltre nelle elezioni in seduta comune con i senatori (ad esempio per la scelta del Presidente della Repubblica e dei membri non togati del Csm) questo meccanismo consegna al premier un potere molto maggiore. La possibilità che il Quirinale diventi un'espressione più diretta della sola maggioranza rende a sua volta maggiori i poteri del premier anche nell'elezione dei giudici della Consulta: la maggioranza di governo ne esprimerebbe direttamente 3 (tramite la Camera) e altri 5 attraverso il Presidente della Repubblica (se questi fosse espressione della sola maggioranza), più altri 2 se la maggioranza al Senato è la stessa che c'è alla Camera. Quindi su 15 giudici della Consulta un numero tra 8 e 10 (su 15) rischia di essere scelto direttamente o indirettamente dalla maggioranza di governo.
5. «Con il nuovo Senato ci sarà più stabilità».Potenzialmente falso. La maggiore stabilità c'è se al ballottaggio per la Camera vince lo stesso partito che ha già la maggioranza al Senato, il che non è scontato. Ad esempio, se nascesse domani, il  Senato previsto dalla riforma Boschi sarebbe a grande maggioranza Pd (in quanto eletto dai consigli regionali quasi tutti Pd) ma se poi al ballottaggio per la Camera vincesse il Centrodestra o il M5S si creerebbe una conflittualità perenne tra Camera e Senato.
6. «Il nuovo Senato ricalca il modello tedesco».Falso. In Germania i membri del Bundesrat sono vincolati al mandato ricevuto dai governi dei Länder di provenienza. In altre parole, devono votare come deciso dai loro Länder e così ne rispecchiano la volontà, ne sono espressione diretta: in modo da costituire un contrappeso federale e locale al potere centrale. Secondo la riforma Boschi, invece, i senatori non hanno alcun vincolo di mandato rispetto alla regione di provenienza, quindi non ne esprimono le volontà: sono solo espressioni dello loro appartenenze politico-partitiche.
7. «Il nuovo Senato aumenta la rappresentanza locale quindi il federalismo»
Falso. Al contrario, la riforma Boschi toglie alle regioni molti margini legislativi e ne riduce autonomia (salvo le Regioni a Statuto speciale). L'ambiguità del testo e il rimando a leggi ordinarie aumenterà inoltre il contenzioso tra Stato e Regioni.
8. «La Costituzione è uguale da 70 anni, basta!».
Falso. Dal 1948 a oggi la Costituzione è già stata modificata diverse volte anche su questioni importanti: dall'istituzione delle Regioni al pareggio di bilancio, dal Titolo V sulla struttura dello Stato fino all'abolizione completa della pena di morte. Si può discutere se una modifica è o è stata un miglioramento, ma è difficile sostenere che la Costituzione italiana sia inerte e uguale a se stessa da 70 anni.
9. «Se vincono i no Renzi si dimette e sarà il caos».
Falso e ricattatorio. Non è costituzionalmente un referendum su Renzi: nessuno lo obbliga a dimettersi se vincono i no. Quello che sta facendo il premier è quindi un ricatto politico che distorce il voto su una cosa più importante di qualsiasi premier "pro tempore", cioé la Costituzione. I premier passano, la Costituzione li trascende. In ogni caso, anche se Renzi si dimettesse, il presidente Mattarella potrebbe dare un altro incarico per terminare la legislatura, che del resto ha già avuto un altro governo con la stessa maggioranza prima che ci fosse quello di Renzi.

10. «Questo referendum è la scelta tra l'Italia che dice sì al futuro e l'Italia che sa dire solo no»
Falso. Questo referendum è solo la scelta tra chi ritiene che la riforma Boschi sia migliorativa della Carta attuale e chi ritiene che sia peggiorativa. La formuletta mediatica "Italia dei sì contro Italia dei no" è, di nuovo, svilente rispetto alla rilevanza della Costituzione, legge fondamentale del nostro vivere comune che non ha nulla a che fare con la narrazione renziana, con la presunta o reale modernità del premier. Allo stesso modo, questo referendum non ingabbia chi è contrario alla riforma Boschi tra quanti ritengono immodificabile e non migliorabile la Costituzione: semplicemente, chi vota no ritiene che queste modifiche non siano migliorative ma (nel loro complesso e fatto il bilancio) prevalentemente peggiorative.