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domenica 15 agosto 2021

Recovery plan, Governo alla prova delle riforme e della spending review. - Dino Pesole

Illustrazione di Andrea Marson/Il Sole 24 Ore

 

Ora si tratta di adeguare gli obiettivi alla mutata situazione innescata dal Covid. Non più tagli lineari, ma il sostegno a quei settori della spesa ritenuta prioritaria (la sanità è tra questi ma anche l'investimento in formazione e ricerca).

Prima che esplodesse la pandemia, la pausa estiva ha coinciso per anni con il rituale richiamo da parte del ministro dell’Economia ai singoli titolari dei vari dicasteri perché cominciassero a predisporre per la ripresa autunnale il piano di razionalizzazione delle spese di competenza di ciascun ministero.
Inviti che spesso dovevano fare i conti con la naturale resistenza dei responsabili dei singoli dicasteri, poco propensi ad assecondare nuove stagioni all’insegna del rigore e dello stretto controllo dei conti pubblici.

Quest’anno, la lettera firmata nei giorni scorsi dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli e l’invito rivolto dal ministro dell'Economia, Daniele Franco con il decreto ministeriale in cui di fatto si avvia la fase di realizzazione degli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza hanno tutt'altro tenore: l’invito rivolto a tutti i ministeri è prima di tutto ad attrezzarsi per tempo perché l’obiettivo primario è rispettare gli impegni assunti con l’Unione europea.

I primi 25 miliardi e le prossime mosse del Governo.

La ratio che muove la linea d’azione del Governo si articola sostanzialmente su alcuni punti fermi. L’arrivo dei 24,9 miliardi dei fondi europei (sul totale di 191,4 miliardi assegnati all'Italia da qui al 2026) va inteso come una sorta di anticipo. Le relative risorse sono già impegnate e i primi progetti in rampa di lancio sono definiti: 106 progetti che nel Pnrr sono elencati nel dettaglio.
È il ministero dell’Economia a ripartire i fondi tra i vari dicasteri, e sarà lo stesso dicastero guidato da Daniele Franco a monitorare le fasi di attuazione dei progetti. La lettera di Garofoli sposta al tempo stesso il focus sull’altro decisivo fronte, non meno impegnativo, del Recovery Plan: quello delle riforme. Come indicato dalle linee guida di Bruxelles, e come recepito dallo stesso Pnrr, investimenti e riforme devono marciare in parallelo. Sono gli investimenti a garantire il successo delle riforme, e al tempo stesso sono le riforme il motore per far sì che gli investimenti vadano a buon fine.

La sfida dell’autunno e le riforme in cantiere.

Alla ripresa dei lavori, dopo la pausa estiva, è in agenda il varo di riforme strutturali ritenute prioritarie da Bruxelles, e che il Governo dovrà cercare di portare ad approvazione entro l’anno.
In rampa di lancio la riforma della giustizia civile, che dovrà completare il ciclo di interventi avviati con il faticoso varo della riforma del processo penale. Sarà tutt'altro che facile trovare una sintesi tra le diverse e per molti versi antitetiche ricette messe in campo dai partiti che sostengono il Governo.
Compito non meno impegnativo attende il disegno di legge delega che dovrà avviare il cantiere della riforma del fisco. Non sarà tanto il contenuto della legge “cornice” a creare problemi (il ddl delega contiene le linee portanti della riforma), quanto la successiva fase attuativa che sarà affidata ai relativi decreti legislativi.
Anche sul versante delle nuove misure in materia di concorrenza il confronto all’interno della maggioranza si annuncia tutt’altro che semplice, come già emerso nelle fasi iniziali di predisposizione del testo, che non a caso si è deciso di rinviare a settembre.

Non solo risorse in arrivo ma anche attenzione ai conti pubblici.

Tra gli impegni che il Governo ha assunto con Bruxelles e che tra breve torneranno puntuali ad animare il dibattito politico compare una nuova ed aggiornata versione della spending review, in sostanza un programma triennale di riqualificazione della spesa pubblica (con relativo taglio di quella che puntualmente viene definita “spesa improduttiva”) che dovrebbe partire dal 2023.

Diversi sono stati negli ultimi decenni i tentativi (affidati anche ai cosiddetti commissari) per porre sotto controllo la dinamica della spesa corrente. Ora si tratta di adeguare gli obiettivi alla mutata situazione innescata dal Covid. Non più tagli lineari, ma un’operazione a tutto campo che preveda di sostenere quei settori della spesa ritenuta prioritaria (la sanità è tra questi ma anche l'investimento in formazione e ricerca) e al tempo stesso di contenere l'aumento di voci di spesa su cui sarà possibile intervenire.

È il caso delle cosiddette “tax expenditures” (spese fiscali), altro settore su cui da anni si prova a intervenire con scarso successo. L’arrivo delle tranche del Recovery Fund è condizionato al rispetto del cronoprogramma (riforme e investimenti) ma non può essere interpretato come una sorta di “liberi tutti” che apra una stagione all'insegna del deficit spending (spesa in disavanzo). Ne è ben consapevole il ministro dell’Economia, Daniele Franco che ben conosce i meccanismi che alimentano i flussi di spesa nel nostro paese.

Deficit e debito sotto controllo.

La gestione oculata della finanza pubblica non è certo in controtendenza rispetto a una fase che vede il nostro paese come principale beneficiario dei fondi del Next Generation EU. Intanto occorre ricordare che una parte non certo secondaria dei fondi europei, pari a 122,6 miliardi, è rappresentata da prestiti che dunque andranno restituiti, se pur con scadenze non certo perentorie.
In secondo luogo, l’Italia (quale che sia il Governo che sarà chiamato a rappresentarla nei prossimi anni) dovrà comunque garantire un graduale e credibile percorso di riduzione del debito pubblico, che quest’anno lambirà il 160% del Pil.

Lo imporranno le condizioni di finanziamento del debito, quando la politica monetaria della Bce tornerà ad attestarsi su un sentiero di “normalità, e lo imporranno le nuove regole in materia di disciplina di bilancio europea che scatteranno a partire dal 2023, quando cesserà il triennio di sospensione del Patto di stabilità.

E qui torna in campo nuovamente il mix di riforme e investimenti che se attuate e realizzate secondo gli impegni assunti con Bruxelles potranno spingere sul pedale della crescita e dunque garantire la piena sostenibilità del debito pubblico nel medio periodo.
Non sono ammessi dunque ritardi e deviazioni dal percorso concordato. Una constatazione di cui dovrebbero essere consapevoli, al di là della propaganda, tutte le forze politiche. Se il Financial Times cita il nostro Paese come un esempio virtuoso, grazie soprattutto alla notevole credibilità di cui gode il presidente del Consiglio, Mario Draghi, pare evidente che questo patrimonio di rinnovata fiducia non va in alcun modo disperso.

Le prossime scadenze politiche, dalle elezioni amministrative di ottobre all’appuntamento con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica all'inizio del 2022, non devono in sostanza intaccare il patrimonio di credibilità conquistato a fatica negli ultimi mesi.

IlSole24Ore

giovedì 24 giugno 2021

Recovery plan: cosa si aspetta Bruxelles dall’Italia in cambio dei 190 miliardi. - Beda Romano

 

Il NextGenerationEU prevede esborsi sulla base dei risultati ottenuti, non dei progetti di spesa.

È un pacchetto di riforme e investimenti a dir poco impegnativo quello approvato martedì 22 giugno dalla Commissione europea chiamata a dare il suo benestare al piano italiano di rilancio economico. Oltre a una quota di prefinanziamento di 25 miliardi di euro attesa già in luglio, il paese sarà chiamato a una marcia forzata, con una serie di impegni nella seconda parte dell'anno ed esborsi pari a un totale di oltre 20 miliardi di euro in sussidi e prestiti.

Concretamente, l'esecutivo comunitario ha approvato una decisione attuativa che deve essere ora fatta propria dal Consiglio entro un mese, per poi entrare ufficialmente in vigore. Il piano preparato dal governo Draghi e approvato da Bruxelles prevede 190 misure, di cui 58 riforme e 132 investimenti. In tutto è composto da 525 pietre miliari e obiettivi specifici. A differenza della politica di coesione, il NextGenerationEU prevede esborsi sulla base dei risultati ottenuti, non dei progetti di spesa.

Progetto senza precedenti.

Quest'ultimo è un pilastro nella storia comunitaria. Per la prima volta, i Ventisette hanno dato mandato alla Commissione di raccogliere denaro sui mercati (750 miliardi di euro) da distribuire ai paesi membri in modo da rilanciare l'economia dopo la pandemia virale. «Il piano dell’Italia darà un impulso strutturale alla crescita economica e aiuterà a ridurre le differenze sociali e regionali», ha commentato il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis.

Dal nuovo Fondo per la Ripresa, l'Italia ha diritto ad ottenere quasi 70 miliardi di euro in sussidi e oltre 120 miliardi di euro in prestiti. Il 37,5% del denaro sarà speso in ambito ambientale, il 25,1% nella transizione digitale.

Fondi a tappe.

Presentando il pacchetto qui a Bruxelles, funzionari comunitari hanno precisato che il 40% del denaro andrà al Sud Italia, da qui al 2026. La quota di prefinanziamento del 13% del totale tra sussidi e prestiti verrà versata possibilmente già in luglio.Questa quota vale per l'Italia poco meno di 25 miliardi di euro (ossia 9 miliardi di sussidi e 15,9 miliardi di prestiti). Verrà quindi successivamente formalmente allocata pro rata lungo tutto il periodo (2021-2026) entro il quale il Fondo distribuirà denaro. Oltre alla quota di prefinanziamento, nel corso del secondo semestre del 2021 l'Italia dovrebbe ricevere altri 10 miliardi di euro in sussidi e altri 11 miliardi di prestiti sulla base di 51 pietre miliari, ossia progetti o riforme.

Gli investimenti verdi.

In campo ambientale, il piano approvato dalla Commissione europea prevede 12,1 miliardi nell'efficienza energetica degli immobili; 32,1 miliardi nella mobilità sostenibile; 18 miliardi nell'energia rinnovabile; 3,6 miliardi nelle reti intelligenti. Sul fronte dei trasporti, il governo italiano si è impegnato nel modernizzare 38 stazioni ferroviarie, nel costruire 365 chilometri di piste ciclabili e oltre 500 chilometri di rete ferroviaria ad alta velocità.

E quelli nel digitale.

In campo digitale, gli investimenti più importanti sono nella digitalizzazione della pubblica amministrazione (6,1 miliardi di euro), nella rete 5G (6,7 miliardi di euro) e nella modernizzazione della giustizia. Quest'ultima riforma deve essere approvata entro fine anno. Prevede obiettivi temporali per ridurre la durate dei processi, un investimento nella digitalizzazione (pari a 1,0 miliardo di euro) e riforme per rendere il sistema giudiziario più efficiente (2,3 miliardi di euro).

Gli interventi in campo sociale.

Infine, nel campo sociale, il piano approvato da Bruxelles ambisce a investire 15,6 miliardi nella sanità, nella telemedicina e nelle case di riposo. Altri 26 miliardi di euro dovrebbero andare all'istruzione – dagli asili all'università – e nel mercato del lavoro. Infine, 13,2 miliardi di euro dovrebbero essere investiti nella coesione sociale e regionale, in particolare nelle regioni meridionali. L'Italia è tra i paesi dove la disoccupazione è tra le più elevate. Sempre secondo l'esecutivo comunitario, i soli investimenti previsti dal NextGenerationEU dovrebbero contribuire all'aumento del prodotto interno lordo italiano per un totale di 1,5-2,5% entro il 2026. La stima della Commissione europea esclude tuttavia le riforme economiche che potrebbero anch'esse aiutare a rendere più dinamico il paese. Il governo italiano appare essere in generale più ottimista della Commissione in questo frangente.

IlSole24Ore

venerdì 4 giugno 2021

Giustizia & C.: Le affinità elettive Lega-pd. - Wanda Marra

 

Nuova offensiva pseudo-garantista.

Non c’è pace sotto al cielo del Partito democratico. E così, mentre Enrico Letta cerca di mettere in campo una strategia dialogante anche con la Lega di Matteo Salvini, dopo i primi mesi passati ad attaccare all’arma bianca il leader del Carroccio, tocca a Goffredo Bettini fare la mossa che spiazza tutti. In una lettera al Foglio (come aveva già fatto Luigi Di Maio una settimana fa, chiedendo scusa all’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti, dopo l’assoluzione), nel nome del fatto che la giustizia va radicalmente trasformata, si schiera a favore dei referendum dei Radicali e della Lega. Che prevedono la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, la custodia cautelare, l’abrogazione della legge Severino (in modo che non ci sia nessun automatismo per quanto riguarda i termini di incandidabilità, ineleggibilità, decadenza per parlamentari, consiglieri, governatori regionali, sindaci, amministratori locali), l’abolizione della raccolta firme per la lista dei magistrati che vogliano candidarsi al Csm, l’abrogazione della norma sui consigli giudiziari.

Dice Bettini: “Non credo affatto sia giusto che questo tema sia un po’ pelosamente impugnato solo da quella destra populista, come la Lega, che amava esibire il cappio nelle aule parlamentari”. La mossa di uno degli uomini che è stato centrale nell’esperienza del governo giallorosso ha più livelli di lettura. Il primo si può raccontare attraverso le reazioni a questa uscita, all’insaputa di tutti, anche quelli a lui più vicini. Si arrabbia Letta, si arrabbiano parlamentari, membri delle Commissioni Giustizia soprattutto. Perché stanno lavorando sulla riforma Cartabia, che, per inciso, va fatta con la Lega. E dunque, quella di Bettini viene vista come l’azione di uno che non conta più come prima e dunque agita le acque, complica giochi già complessi di loro. Lo dicono tutti tra i dem, da Franco Mirabelli, capogruppo in Commissione Giustizia al Senato a Alfredo Bazoli, capogruppo alla Camera a Anna Rossomando, responsabile Giustizia dem, che le proposte della Cartabia sono più radicali. E soprattutto che arriveranno prima dei referendum. E dunque, quello di Bettini pare un assist alla propaganda di Salvini, al leader di lotta e di governo, che cerca un suo spazio, con Giorgia Meloni che glielo toglie, un giorno dopo l’altro.

“Qual è la vera posizione di Salvini? Quella di chi dice sì alla custodia cautelare o quella di chi voleva far marcire i detenuti in carcere, buttando la chiave?”, si chiedono non a caso al Nazareno.

C’è però un secondo livello di lettura. Ed è quello che alla fine Bettini apre la strada a una revisione di un certo tipo del dibattito sulla giustizia di questi ultimi 20 anni. Andando a toccare non solo il cosiddetto giustizialismo, che non è mai stato nelle corde dei dem, ma anche andando ad abbattere qualche tabù. Come, ad esempio, la revisione della legge Severino, che aveva portato alla incandidabilità di Silvio Berlusconi. D’altra parte, in una giornata densa per le tematiche della giustizia, non si sentono particolari voci di attacco verso i contabili della Lega condannati.

Si legge nella premessa alle proposte sulla giustizia del Pd: “Sotto il profilo della giustizia, la presenza di un presidente del Consiglio e di una ministra della Giustizia dalla preparazione e dalla autorevolezza inattaccabili può consentire al Paese di voltare pagina. Possiamo davvero chiudere per sempre la stagione delle contrapposizioni politiche sulla giustizia, e consegnare all’Italia un sistema più efficiente, che garantisca il rispetto della legalità insieme alla certezza del diritto e dei diritti dei cittadini, anzitutto quello di ottenere giustizia in tempi rapidi”. Eccola qui, scritta nero su bianco, la volontà di Letta di mediare con tutti, anche con la Lega. Inevitabile, d’altronde, visto che le riforme del Pnrr sono necessarie per avere i fondi europei. E poi, se si parla di ritorno della prescrizione, è più facile pensare che si possa fare asse con il Carroccio che con i Cinque Stelle.

Di certo, negli ultimi giorni, qualcosa è cambiato. Salvini ha dato ragione al Pd sulla proroga del blocco dei licenziamenti. Il Nazareno ha consegnato una replica secca al vice segretario, Peppe Provenzano, che evidenziava la giravolta, ma è un fatto che Letta ultimamente abbia ammorbidito i toni. “Dobbiamo fare le riforme con la Lega, a partire da quelle della giustizia e del Fisco”, ha detto e ridetto. Che cosa è successo?

Prima di tutto, c’è stato l’ennesimo confronto con il premier, Mario Draghi. E il segretario del Pd ha voluto smettere di offrire il fianco a chi lo cominciava a dipingere come il picconatore del governo. “Se non ora, quando?”, ha ribadito ieri sera, da Bruno Vespa, a proposito delle riforme. Senza la Lega, le riforme non si fanno. E il Pd parte da una debolezza prima di tutto numerica, nelle truppe parlamentari. Dunque, Letta non può che cercare dei punti di convergenza, una volta che ha visto fallire il tentativo di spingere Salvini a uscire dal governo e dar vita alla maggioranza Ursula. In questa fase magmatica della vita politica italiana, poi, si assiste a una convergenza di fragilità: i partiti contano sempre meno, rispetto alla forza personale del premier e dei suoi tecnici, ai moniti di Sergio Mattarella, persino alle raccomandazioni europee, rispetto a specifici provvedimenti. Così gli estremi, pur rimanendo estremi, si toccano.

Senza contare che nelle Commissioni parlamentari leghisti e dem si parlano di continuo, senza problemi di comunicazione. Dato di realtà che fa dire alla Rossomando: “Salvini si fidi di più dei suoi parlamentari, invece di fare azioni propagandistiche”. Ma in questa confusione di ruolo e di obiettivi, va anche detto che i dem aspettano con ansia di vedere gli emendamenti leghisti alla riforma Cartabia. La scommessa che si possa lavorare insieme la fanno, si aspetta la controprova della realtà. A proposito di rapporti di forza.

IlFQ

giovedì 13 maggio 2021

Acqua sporca. - Marco Travaglio

 

Fa discutere, ma anche ridere, l’ideona dell’Ue di annacquare il vino contro l’abuso di alcol. Ma nessuno si accorge che quella trovata demenziale è alla base della sentenza della Consulta sull’ergastolo “ostativo” e delle cosiddette riforme della Giustizia escogitate dalla Cartabia. Dice la Corte che pure gli ergastolani possono uscire anzitempo dal carcere anche se hanno commesso stragi e collaborano con la giustizia. E allora che ci sta a fare l’ergastolo, che per definizione è “fine pena mai”? E che deve fare un criminale per restare dentro sino alla fine, se non bastano neppure le stragi e il mancato pentimento? Invece di abolirlo, hanno inventato l’ergastolo annacquato. Cioè finto. Stesso discorso per le tre presunte riforme della giustizia. La prima è la pretesa incostituzionale di abolire l’appello, ma solo sulle assoluzioni: le condanne resterebbero appellabili. Come se gli errori giudiziari da correggere non fossero anche le assoluzioni dei colpevoli. Anziché abolire l’appello tout court, si aggiunge un po’ d’acqua e morta lì. La seconda è il Parlamento che decide quali reati le Procure devono perseguire e quali tralasciare: invece di depenalizzare quelli inutili, i politici li tengono nel Codice penale ma decidono di lasciarli impuniti (intanto ne sfornano di nuovi, vedi legge Zan). Un po’ d’acqua per allungare il brodo e il gioco è fatto.

La terza è la prescrizione che, cacciata dalla porta con il dl Bonafede, rientra dalla finestra con questo geniale marchingegno: si fissa per legge la durata massima dei processi e poi, se uno dura anche un giorno di più, la prescrizione torna a galoppare. L’idea di sveltire i processi fissandone la durata per legge è roba da menti malate: un conto è chiamare i giudici a rispondere dei ritardi (dovuti spesso alla loro pigrizia, più spesso a carenze di personale e procedure farraginose, ancor più sovente a manovre dilatorie degli avvocati); un altro è scrivere che i processi devono durare di meno per farli durare di meno. E, se durano di più, premiare con la prescrizione gli imputati che li han fatti durare di più. Così i colpevoli avranno tutta la convenienza a farli durare di più, in barba alla tabella di marcia della ministra. È la blocca-prescrizione diluita con acqua (sporca). Poi, naturalmente, tutti a strillare perché i terroristi Di Marzio e Bergamini non possono più essere estradati dalla Francia perché sono riusciti a restare latitanti quanto basta a far scattare la prescrizione (non del reato, ma della pena). Il bello è che l’estradizione, dopo Bonafede, l’ha chiesta la Cartabia. E i più indignati sono i partiti e i giornali di destra: gli stessi che rivogliono la prescrizione per tutti. Ma quelli l’acqua ce l’hanno al posto del cervello.

IlFQ

venerdì 16 aprile 2021

Assegno unico: tutto quello che c’è da sapere sulla riforma in 5 domande e risposte. - Michela Finizio


La legge delega approvata lo scorso 30 marzo dal Parlamento cancella sei misure già esistenti per le famiglie e le trasforma in un contributo unico per tutti i figli a carico.

I punti chiave.

  • Cos’è l’assegno unico e cosa prevede
  • Come calcolare l’assegno unico e i requisiti
  • Cosa sostituisce l’assegno unico: il nodo delle risorse
  • Qual è il budget per finanziare l’assegno unico?
  • Come e quando richiederlo: i nodi ancora da risolvere

L’assegno unico e universale è la riforma più importante mai approvata delle misure di sostegno per le famiglie. L’obiettivo è mettere ordine alle tante e diverse forme di aiuto approvate nel corso degli anni. A disegnare il nuovo contributo è la legge delega 46/2021, approvata in via definitiva lo scorso 30 marzo dal Parlamento. Ma si tratta solo della cornice del quadro che nei prossimi mesi andrà riempito con uno o più decreti attuativi dal ministero della Famiglia in accordo con le Politiche sociali e il Mef, sentita la conferenza unificata delle Regioni. Ci sono 12 mesi di tempo per approvarli, ma la volontà politica di partire già dal 1° di luglio 2021 con l’erogazione del nuovo assegno potrebbe accelerare i tempi.

1) Cos’è l’assegno unico e cosa prevede?

La legge delega 46/2021 prevede il superamento di ben sei misure esistenti a sostegno delle famiglie, in favore di un assegno unico destinato a tutti (per questo è universale) i figli a carico, dal settimo mese di gravidanza fino al compimento del 21esimo anno. L’assegno potrà essere sotto forma di erogazione mensile oppure un credito d’imposta.L’importo, ancora da definire con i decreti attuativi nei limiti delle risorse disponibili, dovrà essere progressivo in base alla situazione economica del nucleo definita tramite Isee (l’indicatore calcolato dall’Inps in base a diversi parametri, anche patrimoniali), sarà compatibile con altri assegni regionali o locali e con il reddito di cittadinanza. In quest’ultimo caso, però, in fase di attuazione bisognerà definire in che modo dovranno interagire i due contributi, uno di sostegno alle famiglie con figli l’altro di contrasto alla povertà.

2) Come calcolare l’assegno unico e quali sono i requisiti?

In base alle linee guida della legge delega, l’assegno unico sarà quindi così strutturato: una quota fissa per ogni figlio a carico e una quota variabile in base all’Isee del nucleo familiare. Attualmente la definizione di “figlio a carico”, quella finora utilizzata per le detrazioni fiscali, prevede che il ragazzo non debba avere un reddito lordo superiore ai 4mila euro (o di 2.840,51 euro se maggiore di 24 anni). Sono poi previste, per legge, le seguenti maggiorazioni, la cui entità andrà definita in fase attuativa:

- per i figli successivi al secondo (quindi che va a premiare le famiglie numerose);

- per le madri giovani, con meno di 21 anni;

- tra il 30 e il 50 per cento per i figli disabili under 21, graduata in base alla condizione di disabilità (al compimento del 21esimo anno di età, se il figlio disabile è ancora a carico, il nucleo percepirà ancora l’assegno ma senza maggiorazioni).

Inoltre l’assegno unico per i figli maggiorenni tra i 18 e i 21 anni avrà un importo inferiore e, su richiesta, potrà essere erogato direttamente al figlio, purché ancora a carico, iscritto ad un percorso di studio (o tirocinio) oppure disoccupato registrato all’Anpal o volontario del servizio civile. È comunque necessaria la cittadinanza italiana o europea, oppure è necessario essere residenti (o domiciliati) in Italia insieme ai figli da almeno due anni anche se non continuativi e titolari di un contratto di lavoro almeno biennale, e in regola con il permesso di soggiorno.

3) Cosa sostituisce l’assegno unico?

L’entrata in vigore del nuovo assegno unico e universale prevede il superamento e la soppressione di sei misure esistenti, da adottare in sede di esercizio di delega. Le misure attualmente in vigore che verranno meno sono le seguenti.

1)  Le detrazioni fiscali per i figli a carico, che attualmente non raggiungono i soggetti incapienti ai fini Irpef (cioè i redditi inferiori che hanno un’imposta troppo bassa per fruire dello sconto fiscale). Come annunciato resteranno in vigore solamente, in via transitoria, quelle per i figli over 21 anni, scoperti dall’assegno unico. Dalla soppressione di questa misure si otterrà un risparmio di 7,8 miliardi di euro.

2) Gli assegni al nucleo familiare per figli minori, destinati ai soli lavoratori dipendenti (non ne beneficiano i lavoratori autonomi), per i quali ogni anno nel mese di luglio va rinnovata la domanda. Gli importi sono modulati in base al numero dei figli e al reddito familiare imponibile. Non conta l’Isee. Il risparmio da questa misura sarà pari a 4,7 miliardi di euro.

3) Gli assegni al nucleo per le famiglie numerose che viene erogato per 13 mesi a partire dal terzo figlio in caso di Isee inferiore a 8.788,99 euro. Previsto un risparmio pari a 300 milioni di euro.

4) Le tre misure di sostegno alla natalità, tra cui il bonus bebé, il premio alla nascita per le neo-madri e il fondo natalità per le garanzie su prestiti. Il risparmio in questo caso sarà di 1,3 miliardi di euro

4) Qual è il budget per finanziare l’assegno unico?

Dal riordino di queste sei misure si ottiene un risparmio annuo complessivo di 12,9 miliardi, che andrà a finanziare l’assegno unico. Questi fondi si andranno a sommare agli stanziamenti approvati con le ultime leggi di Bilancio, confluiti nel «Fondo per l’assegno universale e i servizi alla famiglia», dove si contano circa 3,5 miliardi per il 2021 e 6,5 miliardi a regime a decorrere dal 2022.

5) Come e quando richiedere l’assegno unico?

In questi giorni gli uffici ministeriali sono al lavoro per capire se la riforma, come annunciato, riuscirà a partire a luglio 2021. Per poter partire quest’anno sono stati stanziati ad hoc 3 miliardi di euro con l’ultima legge di Bilancio e la volontà politica va in questa direzione. Ma i tempi però sono molto stretti e le questioni da definire sono ancora molte e spinose.

Innanzitutto le famiglie beneficiarie sono 7,6 milioni ed è difficile immaginare che tutte riescano a dotarsi dell’Isee entro luglio (su questo i Caf già segnalano di essere in difficoltà: l’indicatore può essere richiesto anche online, in modalità precompilata, ma in questo periodo sono in tanti a richiedere l’Isee corrente attualizzato alla situazione degli ultimi mesi e quest’ultimo lo possono elaborare solo gli operatori).

Inoltre, in base alle prime simulazioni effettuate da Istat e dal gruppo di ricerca Arel, Fondazione E. Gorrieri e Alleanza per l'infanzia, ci si è accorti che è difficile poter garantire 250 euro a figlio e, inoltre, un certo numero di famiglie rischia di prendere meno rispetto a quanto prende oggi in base alle misure esistenti. A tal fine andrebbe inserita una clausola di salvaguardia che tuteli circa 1,35 milioni di nuclei da questo rischio, ma per poterla prevedere mancano le risorse: si stima siano necessari ulteriori circa 800 milioni di euro.

Resta, infine, da definire l’interazione dell’assegno unico con il reddito di cittadinanza, andranno poi aggiornate le piattaforme informatiche dell’Inps al nuovo scopo e bisognerà decidere se i datori di lavoro dovranno continuare a versare il contributo (Cuaf) destinato agli assegni al nucleo familiare oppure se queste risorse (circa 2 miliardi) arriveranno da altrove. Il tutto, poi, dovrà essere inquadrato all’interno dell’annunciata riforma dell’Irpef che impatterà sul fisco familiare. Per tutti questi motivi resta difficile immaginare una partenza a pieno regime nel prossimo mese di luglio e bisognerà continuare a monitorare le fasi dell’attuazione nelle prossime settimane.

IlSole24Ore

domenica 11 aprile 2021

Le Grandi Riforme. - Marco Travaglio


Le prime Grandi Riforme dei Migliori sono quelle dei dizionari della lingua italiana e dei manuali di aritmetica. Mentre denunciavamo la vergogna del condono fiscale in compagnia dei tupamaros di Bankitalia e Corte dei Conti, abbiamo scoperto dai giornaloni che, siccome Draghi ha definito “condono” il suo condono, allora non è un condono (dal che si deduce che, se fai una rapina e la chiami rapina, non è una rapina). Per il rag. Cerasa del Foglio è una “svolta da seguire di Draghi: usare i condoni per denunciare le inefficienze dello Stato” (come usare le rapine per denunciare le inefficienze della polizia). E per il prof. Cottarelli, editorialista di Rep e consulente del governo per interposto Brunetta, “a ben vedere, nella sostanza, si tratta di un’operazione di semplificazione”. Pure le gaffe, quando le fa Draghi, non si chiamano gaffe. Anche quando dà dei salta-fila senza coscienza agli psicologi che si vaccinano per obbedire al suo decreto del 1° aprile (o era un pesce d’aprile?). E quando dà a Erdogan del “dittatore che ci serve”, causando una prevedibilissima crisi diplomatico-commerciale coi turchi che, come lui stesso dice, ci servono: siedono con noi nella Nato; comandano in Libia e così ci ricattano coi migranti; e per giunta hanno notevoli scambi economici con noi (ieri pare che abbiano sospeso una commessa da 70 milioni per 15 elicotteri di Leonardo firmata pochi giorni fa). Ma non è una gaffe: si chiama – spiega Stefano Folli su Rep – “nuova politica europea di Draghi”, “disegno che sta prendendo forma” per “innalzare la nostra proiezione internazionale” e “rischio calcolato”. Calcolato da chi e su cosa, non è dato sapere, specie se i turchi comprassero quegli elicotteri da un paese più diplomatico, con perdita di soldi e lavoro per la nostra partecipata di Stato.

Ma il “cambio di passo” dei Migliori rivoluziona anche l’aritmetica. A furia di “accelerare” con Figliuolo, la nostra campagna vaccinale resta sotto le 300mila dosi medie al giorno, mentre accelerano oltre le 600mila la Germania e oltre le 500mila la Francia, che col famigerato Arcuri erano sotto o al pari di noi. Ma ecco l’ideona: calcolare le dosi non più al giorno, ma a dècade. Così la frenata diventa un’accelerata. Rep: “Vaccini, tutto in 10 giorni: ‘Serve una terapia d’urto’”, “Anziani al sicuro, il governo accelera: 3 milioni di vaccini in 10 giorni”. E quanto fa 3 milioni diviso 10? Sempre 300mila. Ma sembrano di più, come gli scalcagnati carri armati che Mussolini faceva girare più volte davanti agli alleati tedeschi: erano sempre gli stessi, ma sembravano un’invincibile armata. E Figliuolo e Rep non erano ancora nati, sennò avrebbero gridato all’“accelerazione” e alla “terapia d’urto”.

IlFattoQuotidiano

martedì 9 febbraio 2021

Governo Draghi: 8 punti per non dividere. Ma sui nomi vuole mediare poco. - Carlo Di Foggia e Paola Zanca

 

Da calendario, avevano un quarto d’ora a testa. Ma Mario Draghi, al secondo giro di consultazioni con i partiti, ha già imparato a prendere le misure. E dopo dieci minuti, nonostante i tempi già dimezzati, li ha congedati tutti. Gentile, ma fermo: “Ha finito di illustrare il suo programma, poi ha guardato la parete e ha detto: abbiamo solo un minuto. Ma là appeso, non c’era nessun orologio”. Lasciano la Sala della Lupa di Montecitorio un po’ interdetti: il presidente incaricato ha già finito di farli sfogare. Li ha ascoltati al primo giro, ma adesso non è già più tempo. “Ermetico”, lo descrivono. Che tradotto significa che non ha dato ai suoi interlocutori nessuna delle indicazioni che davvero gli interessavano: chi, dove, quando?

Nemmeno un accenno ai tempi per la nascita del nuovo governo. Par di capire, comunque, che non se ne parli prima di venerdì: oggi vede i partiti maggiori, domani le parti sociali e solo giovedì si conoscerà l’esito del voto su Rousseau. Neanche un indizio sulla natura tecnica o politica del governo, anche se ormai il “modello Ciampi”, ovvero il mix tra le due formule, viene dato per assodato anche dal Quirinale. Figurarsi se si è spinto a parlare del “perimetro” della maggioranza, argomento già finito negli archivi d’agenzia. E ai pochi che ieri lo hanno stuzzicato sul tema, raccontano che Draghi abbia risposto con un ragionamento che suona più o meno così: “Io cerco di trovare una mediazione sia sulla sostanza che sulla forma, ma se il problema vero è solo chi ci sta, alzo le mani…”.

Non ha intenzione, insomma di aprire troppe trattative, anche perché – va detto – non c’è nessuno che si sia messo a dettare condizioni. Lui, nel dubbio che qualcuno si svegli, evita di avvicinarsi alle questioni “scivolose” e lascia fuori tutti i cosiddetti temi “divisivi”. Così, ha buttato giù 8 punti sufficientemente vaghi e sufficientemente di buon senso da accontentare l’arco parlamentare che va da Fratoianni a Salvini. Nessuno impegno.

C’è la vocazione “europeista” e l’attenzione all’ambiente che “innerverà” (sic) tutti gli ambiti del programma. Ci sono le riforme evergreen che da 20 anni accompagnano il dibattito pubblico: quella della giustizia civile, del fisco (in teoria già in cantiere con i giallorosa) e della Pubblica amministrazione. C’è il Recovery fund, ovviamente, e c’è il piano vaccinale che deve tirarci fuori dalla pandemia. Parla di scuola e immagina modifiche al calendario per restituire ai ragazzi un po’ del “tempo perduto” quest’anno, nonché nuove assunzioni per evitare di ritrovarsi alla ripresa un’altra volta senza docenti. Questioni che riguardano giugno e settembre: l’impressione diffusa è che sia un “programma emergenziale”, che poi è quello per cui lo ha chiamato il capo dello Stato. Ma risolta l’emergenza, notano con una certa preoccupazione, “il dopo non c’è”.

Qualcosa in più oggi potrebbe arrivare su quel che non ci sarà nel programma. Consapevole dei molti temi divisivi (immigrazione, Mes, giustizia) l’ex Bce potrebbe raccogliere dai partiti le indicazioni sui temi che considerano esplosivi. Molti di questi, va detto, li ha già tolti dal tavolo e così hanno fatto i partiti (Salvini, per dire, non gli chiederà oggi di tornare alla versione originaria dei decreti Sicurezza).

Al netto della vaghezza, Draghi è tornato su alcuni punti economici. In tema di aiuti alle imprese ha spiegato che i ristori vanno bene per tamponare l’emergenza ma servirà un piano di stimoli pubblici per creare lavoro (anche se, per la verità, si troverà a gestire subito i 32 miliardi del decreto Ristori 5, in gran parte già opzionati). L’idea di fondo è che il Recovery rappresenti un embrione di bilancio comune europeo, e su questo bisognerà insistere. Su questo fronte anche dalla Lega potrebbero saltare le ultime resistenze. Oggi la plenaria dell’Europarlamento dovrebbe infatti approvare il regolamento definitivo del piano europeo. Un testo che disegna un’architettura piena di vincoli e controlli sui fondi, e con diversi rischi (chi non rispetta le regole fiscali europee rischia di vedersi bloccati i soldi). Per questo a metà giugno in commissione affari economici la Lega si era astenuta. Ieri filtrava una linea diversa. Ascoltato oggi Draghi, potrebbe arrivare il via libera a Bruxelles.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/09/draghi-8-punti-per-non-dividere-ma-sui-nomi-vuole-mediare-poco/6094809/

mercoledì 27 gennaio 2021

La crisi di governo: come è scoppiata, come se ne esce e perché c’entra ancora la giustizia. - Martina Castigliani, Giuseppe Pipitone

 

Dalla prima minaccia il 7 dicembre al ritiro delle ministre, cronistoria dell'escalation che ha portato allo strappo definitivo. Quali strade si aprono ora per Mattarella e l'esecutivo. E perché per decifrare quello che succede bisogna tenere presenti almeno due nodi: i miliardi in arrivo dall'Europa e le riforme per punire chi vuole appropriarsene indebitamente.

In principio fu una minaccia, pronunciata a inizio dicembre, abbandonando un vertice di maggioranza notturno. Sembrava uno spauracchio per cambiare giusto un po’ gli equilibri, era l’inizio di un’escalation. Sono partiti così quasi due mesi di ricatti quotidiani, interviste h24 a edicole ed emittenti unificate, e persino un intervento gridato in Senato con un leader della maggioranza che ricatta la sua stessa maggioranza. Più che impronte digitali la crisi del governo Conte 2 porta una firma chiara ed evidente. Una soltanto: quella di Matteo Renzi. Il leader di Italia viva ha voluto e ottenuto che la maggioranza saltasse in aria in un momento cruciale per il Paese: il cuore della seconda ondata della pandemia, l’inizio della campagna di vaccinazione contro il Covid, la consegna del Recovery plan a Bruxelles. Così, mentre nel suo discorso di fine anno Sergio Mattarella cercava di indicare il percorso della responsabilità e inaugurava “il tempo dei costruttori“, l’ex premier ha tirato dritto per la sua strada, ignorando ogni tentativo di mediazione, con un unico grande obiettivo: far saltare il banco.

Una mossa da giocatore d’azzardo prestato alla politica che gli italiani, lo dicono i sondaggi, hanno fin da subito ritenuto “incomprensibile” nei modi, nelle ragioni e soprattutto nei tempi. O peggio, il 73% ritiene che Renzi abbia rotto “per interessi personali”. Lo spregiudicato copione del leader di Rignano sull’Arno era abbastanza prevedibile: prima è uscito dalla maggioranza ritirando le sue ministre, poi subito dopo si è offerto per tentare d’iniziare un nuovo dialogo. Una mossa da palazzo di Prima Repubblica compiuta in uno dei momento più delicati della recente storia italiana. Se di governi saltati e legislature interrotte sono pieni gli annali, infatti, nessuno si sarebbe aspettato di vedere scene simili mentre il Paese conta centinaia di morti ogni giorno. “Sgomento” è la parola che è trapelata dal Quirinale nelle ore più calde. Una volta aperta la breccia però, a venire giù è stata tutta l’impalcatura che un anno e mezzo fa era stata montata tra incertezze e diffidenze reciproche. Evocata col pretesto della cabina di regia del Recovery, nutrita con una serie di recriminazioni varie – dalla delega ai servizi al Mes – non è un caso che la crisi sia deflagrata definitivamente non quando Conte si è presentato alla Camere per la fiducia, ma quando in agenda c’era la relazione sulla Giustizia di Alfonso Bonafede. Soldi e riforme: è per questo che è caduto il governo. Cosa succede ora è la domanda che da giorni si fanno tutti: la strada per un Conte ter è molto stretta e rischia di finire in uno scivolo che conduce direttamente al voto anticipato.

Come ci siamo entrati – Comunque la si guardi, la crisi del Conte 2 ha le sembianze della crisi più di “palazzo” possibile. Distante dagli umori e dai bisogni degli elettori, indecifrabile per i più. Volendo ignorare quelli che erano i primi segnali di un anno fa, con i piedi puntati proprio sulla Giustizia (e per la precisione sulla prescrizione), il giorno in cui inizia lo strappo è il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio e vigilia dell’Immacolata. Mentre il Paese si prepara suo malgrado a sacrificare gran parte delle abitudini natalizie a causa del virus, Italia viva abbandona il vertice sul Recovery plan convocato prima del consiglio dei ministri. I renziani non vanno a Palazzo Chigi, mentre il loro leader decide di parlare ai giornali per lanciare la minaccia zero: era pronto a ritirare le ministre senza modifiche al Recovery. Che tipo di modifiche? In sintesi: la spartizione dei fondi e la governance, cioè la gestione dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa. Entrambi i temi, si scoprirà poi, erano stati già discussi prima in Parlamento e poi in una lunga serie di vertici di maggioranza: presenti, ovviamente, ministri e capigruppo di Italia viva. Per Renzi, però, quei temi già affrontati diventano all’improvviso il motivo dirimente per mettere a rischio la maggioranza. Il ricatto lo esplicita in Aula il 9 dicembre: il Recovery plan non va più bene, prima non dicevano sul serio, e va ridiscusso da capo. Iniziano lunghissime mediazioni, ma per l’ex presidente del consiglio non bastano mai. Il 28 dicembre presenta il suo contropiano e lo chiama Ciao. Sono trenta pagine di critiche e tredici di proposte (le abbiamo contate qui): attacca personalmente il premier, l’esecutivo, la maggioranza. Nonostante i toni nel governo si cerca fino all’ultimo di ricucire. Conte, nella conferenza stampa di fine anno, dice per la prima volta un concetto banale e scontato: “Se mancano i numeri andrà in Aula”. Ma “non sfido nessuno”. E intanto invoca una sintesi sul piano. I renziani capiscono l’opposto: “Il premier ci ha sfidati”, dicono a ogni tg, talk show e quotidiano che li intervista.

Il clima è sempre più teso, mentre le preoccupazioni degli italiani sono rivolte soltanto al secondo inverno trascorso in piena emergenza sanitaria. Nel discorso di fine anno il presidente della Repubblica chiede distensione, chiama in causa il senso di responsabilità necessario per affrontare tempi di grave crisi. Mattarella dice che questo è tempo di “costruttori” e che “non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte”: ai renziani fischiano le orecchie. Per un attimo sembra possibile che tutti lo ascoltino, ma non è così. Il governo continua a lavorare sul testo del Recovery, Conte fa vari giri di consultazioni e cerca di estenderli a più rappresentanti dei partiti possibile: una delle accuse fatte dai renziani era che non volesse condividere le decisioni, il premier cerca di rimediare. L’11 gennaio il Colle telefona a Renzi: non è accettabile che si rallenti un piano da 200 miliardi per risollevare l’Italia. L’ex premier, almeno di fronte a Mattarella, non se la sente di insistere e assicura che i suoi non voteranno contro. Sembra quasi che la crisi stai rientrando. Ecco allora che il 12 gennaio esce la nuova bozza del Recovery plan: ci sono più soldi alla sanità, agricoltura, infrastrutture e turismo. Cambiamenti chiesti anche da Italia viva. E invece niente: per i renziani non è ancora sufficiente. Il resto è cronaca di un lento precipitare: le ministre renziane si astengono in Consiglio dei ministri, Conte sale al Colle e poi tenta una mediazione definitiva annunciando un patto di legislatura davanti alle telecamere. Ma Renzi ha già deciso, chissà da quando: va in conferenza stampa con Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto e, monopolizzando la scena per oltre un’ora, spiega che loro si chiamano fuori. E’ la mossa che parlamentarizza la crisi. Nei fatti è il tasto del telecomando che fa saltare in aria la maggioranza.

Come si può uscire – Se entrare nella crisi è stato facile, uscirne si preannuncia molto più complesso. Oggi iniziano le consultazioni del presidente della Repubblica: proseguiranno fino a venerdì. Pd, M5s e Leu ribadiranno il sostegno a un nuovo governo Conte. I leader del centrodestra, invece, hanno già fatto sapere che saliranno insieme al Colle: vuol dire che Forza Italia manterrà ufficialmente la stessa posizione di Lega e Fratelli d’Italia, cioè quella per il ritorno alle urne. Ago della bilancia saranno quindi i piccoli partiti: tra Conte e il voto cosa sceglierà Italia viva? E le componenti del gruppo Misto? E nasceranno nuove componenti composte magari da senatori di Forza Italia che temono il ritorno alle urne? E tutti i parlamentari d’Italia viva saranno d’accordo con le decisioni prese dal loro leader? Quando questi interrogativi saranno sciolti, Mattarella avrà essenzialmente tre strade. La prima: se ci fossero i margini di manovra potrebbe conferire un nuovo incarico a Conte per varare un esecutivo con una maggioranza più larga dell’attuale. Da capire se grazie all’arrivo di quei 10/15 senatori responsabili o dopo un riavvicinamento con Italia viva. Al momento sembra favorita la prima ipotesi, anche se i cosiddetti “costruttori” faticano fino a questo momento a palesarsi. Su ritorno di Renzi in maggioranza, invece, pesano interrogativi legati soprattutto alla sua affidabilità: anche se Italia viva non dovesse porre veti su un nuovo incarico a Conte, i 5 stelle e una parte del Pd non sembrano fidarsi della lealtà dell’ex segretario del Pd, vero killer del Conte 2. Mancando i voti dei responsabili ed essendo escluso il ritorno dei renziani in maggioranza, tramonterebbe invece l’ipotesi di una permanenza a palazzo Chigi dell’attuale inquilino.

A quel punto si aprirebbero altri scenari: dal cambio di premier con una coalizione allargata a Italia viva (ma i 5 stelle dovrebbero essere d’accordo), a una eventuale nuova maggioranza di governo. Si discute di un esecutivo sostenuto dalla cosiddetta “maggioranza Ursula“, di uno di larghe intese o di unità nazionale. Tutte formule alchemiche che Mattarella dovrà vagliare solo dopo un giro completo di consultazioni. Se dunque non dovesse affidare un nuovo incarico a Conte, potrebbe optare per un mandato esplorativo a un personaggio diverso dall’attuale presidente del consiglio. Se invece non dovesse esserci la possibilità di risolvere la crisi il capo dello Stato sarà costretto a imboccare la strada che porta alle inevitabili elezioni anticipate. In quest’ultimo caso Mattarella dovrà decidere se mandare gli italiani alle urne a strettissimo giro, sciogliendo subito le Camere (le elezioni vanno fissate entro 70 giorni). Oppure se temporeggiare per aspettare che cali l’impatto dell’epidemia: e quindi nominare un “governo elettorale” senza maggioranza che traghetti il Paese verso il voto, che sarebbe presumibilmente fissato la prima domenica di giugno. A fine luglio, infatti, comincia il semestre bianco, ovvero i sei mesi che precedono l’elezione del nuovo capo dello Stato e durante i quali non possono essere sciolte le Camere. Proprio il nodo elezione del Quirinale è centrale in queste ore: il ritorno al voto con il Rosatellumstando agli ultimi sondaggi, consegnerebbe la vittoria nelle mani del centrodestra. E quindi poi avrebbe il centrodestra i numeri per eleggere il nuovo capo dello Stato.

Perché il governo è caduto sulla Giustizia – Come era già accaduto col precedente esecutivo – quello sostenuto da Lega e M5s – anche questa volta Conte ha cominciato ad avere problemi non appena il capitolo giustizia è entrato nell’agenda dei lavori parlamentari. Nell’estate del 2019 Matteo Salvini decise di rompere l’alleanza con i 5 stelle per scongiurare – tra le altre cose – l’odiata riforma che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Contenuta nel ddl Spazzacorrotti, la legge è poi entrata in vigore nel gennaio del 2020, ma ha animato feroci guerre intestine anche durante il governo Conte 2. Molti retroscena suggeriscono come Renzi avrebbe voluto fare cadere il governo già nell’inverno scorso proprio per boicottare la riforma di Bonafede. E infatti più volte Italia viva aveva votato col centrodestra in commissione. Alla fine, dopo una serie di lunghissimi vertici notturni, la maggioranza aveva trovato la quadra con il cosiddetto “lodo Conte“: una mediazione che inseriva due meccanismi diversi della prescrizione a seconda che gli imputati siano stati condannati o assolti alla fine del processo di primo grado. Quella norma è arrivata insieme a tutta la riforma del processo penale sul tavolo della commissione nell’agosto scorso. A dicembre sarebbe scaduto il termine per produrre emendamenti ma i renziani, spalleggiati dall’opposizione, hanno chiesto più tempo: il nuovo termine è stato fissato per il primo giorno di febbraio. Nel frattempo, però, è caduto il governo.

Sette giorni dopo aver incassato la fiducia alle Camere, infatti, la maggioranza rischiava seriamente di andare sotto – almeno al Senato – sulla relazione Bonafede. È per questo che Conte si è dimesso: per evitare di essere sfiduciato in Parlamento. Come ogni anno il guardasigilli avrebbe dovuto comunicare alle Camere quanto fatto nel 2020, quando al governo c’era pure Italia viva. E quindi la riforma sul processo penale e penale, quella della prescrizione col “lodo Conte” e quella su Csm: tutte leggi attualmente bloccate in commissione. Il guardasigilli, però, avrebbe anche riassunto le linee guida per il 2021. Vuol dire essenzialmente quanto è contenuto nel Recovery plan, che stanzia quasi 3 miliardi di euro proprio per la giustizia. Soldi che serviranno soprattutto – 2,3 miliardi – per assumere magistrati, cancellieri, dipendenti che fanno parte del personale tecnico. In totale si tratta di 16mila persone che avranno come obiettivo quello di eliminare l’arretrato che grava sui giudici, velocizzando i processi. Soldi e giustizia, miliardi e riforme per punire chi vuole appropriarsene indebitamente: è su questo che è caduto il governo. Di nuovo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/01/27/la-crisi-di-governo-come-e-scoppiata-come-se-ne-esce-e-perche-centra-ancora-la-giustizia/6078671/

sabato 23 gennaio 2021

Ue: piano ad aprile, riforme e task force per controllare. - Salvatore Cannavò

 

Le nuove “istruzioni” sconfessano le critiche di Renzi e stampa. L’Europa vuole “soggetti specifici” per garantire sui fondi.

Dietro la “bufala” dei ritardi italiani sul Recovery fund si gioca una partita molto più seria e delicata che riguarda il tipo di “riforme” che l’Italia è chiamata a realizzare e le garanzie che l’Europa richiede per sborsare prestiti e sovvenzioni. Lo si legge chiaramente nelle nuove Linee guida (Guidance to member States Recovery and Resilience plans) che la Commissione europea ha licenziato ieri.

Ritardi immaginari. Quanto ai ritardi, il testo non lascia spazio a equivoci: il termine per presentare i piani nazionali di Ripresa e resilienza è fissato al 30 aprile. Solo il prossimo 9 febbraio, poi, tra l’altro, è prevista l’approvazione definitiva da parte del Parlamento europeo del Regolamento sulla governance del Recovery e Resilience Facility, il cuore del Next Generation Eu. Il regolamento è stato approvato dalla commissione Bilancio del Parlamento europeo lo scorso 12 gennaio e ora si attende il voto finale dell’aula e la deliberazione del Consiglio.

Il problema dei ritardi, tra l’altro, sta da un’altra parte e non riguarda l’Italia. Essendo parte integrante del Bilancio europeo e ricorrendo allo strumento delle “risorse proprie”, perché la Commissione possa raccogliere i fondi necessari serve la ratifica dei 27 Paesi della Ue. Ma solo Croazia, Cipro e, guarda un po’, Italia, l’hanno realizzata. La Germania ce l’ha in calendario il 9 aprile, la Spagna ancora non ha fissato una data.

Riforme necessarie Le Linee guida diffuse ieri, invece, lasciano intendere che la Commissione ha a cuore soprattutto i piani di riforma. In tal modo si mantiene la presa sugli Stati nazionali che, in cambio delle cospicue risorse, devono garantire riforme come, ad esempio, “quella delle pensioni, del mercato del lavoro” e in generale quelle “essenziali per garantire l’attuazione efficiente ed efficace degli investimenti” e in grado di garantire un uso improprio dei finanziamenti. Quindi “strategie anti-corruzione, anti-frode e anti-riciclaggio, amministrazione pubblica efficace, efficacia dei sistemi giudiziari e Stato di diritto”. L’indicazione delle riforme è generalizzata, vale per tutti: rispetto alla precedente formulazione, infatti, dalle Linee guida è scomparsa la frase “in alcuni casi” ed è stato aggiunto un paragrafo che impone di segnalare le riforme nel Facility plan.

Controlli specifici Le Linee guida sanciscono ancora che ogni Paese deve individuare degli specific actors, dei soggetti specifici responsabili di controlli “sufficientemente robusti per proteggere gli interessi dell’Unione” ed evitare “frodi, corruzione e conflitti di interessi”. I dispositivi di controllo saranno valutati e se considerati “insufficienti” bloccheranno l’erogazione dei fondi. I “soggetti specifici”, devono avere “capacità amministrative” e “poteri legali”. La preoccupazione del governo di definire una struttura ad hoc non era quindi un vezzo autoritario del premier Giuseppe Conte, ma rispondeva a una precisa richiesta dell’Ue. Così come la centralità che nella prima bozza, pesantemente attaccata da Matteo Renzi, aveva il capitolo Giustizia, rispondeva a una chiara priorità.

Ritardi effettivi In realtà il ritardo è stato provocato proprio da Renzi, che dal 7 dicembre ha messo in mora ogni progresso. Ieri il presidente del Consiglio ha dato seguito a quanto annunciato in Parlamento convocando i sindacati per discutere della bozza e poi anche le associazioni degli agricoltori. Un primo giro di tavolo in cui ogni associazione mette l’accento sulle proprie priorità. Oltre ai confronti sociali, però, l’attenzione è rivolta al Parlamento. Le audizioni potrebbero iniziare venerdì prossimo, 29 gennaio, e concludersi all’inizio della prima settimana di febbraio per poi passare alle relazioni da approvare in aula intorno a metà febbraio e forse anche più in là. A quel punto il Piano sarà inviato alla Commissione. Crisi di governo permettendo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/23/ue-piano-ad-aprile-riforme-e-task-force-per-controllare/6075696/