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sabato 8 maggio 2021

Recovery, ritorna la task force dei trecento. - Salvatore Cannavò

 

Le sorprese della politica sono infinite. Come quella di trovare nel documento esteso del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr, il Recovery plan), di circa 2.500 pagine, che il governo ha inviato al Parlamento, una delle pietre dello scandalo utilizzate per far cadere il governo Conte.

Ricordate la vicenda della task force da 300 funzionari indicata in una delle primissime bozze del Pnrr, quando ancora il progetto era meno che ufficiale? Coloro che avevano deciso la fine dell’esecutivo giallorosa presero bene la mira e spararono decisi. Tutta Italia Viva, una parte del Pd, il centrodestra, giornali di varia estrazione, tutti si lanciarono contro quello che veniva presentato come un attacco alla democrazia.

Matteo Salvini: “Una task force da 300 persone, siamo matti?”. L’allora ministra Teresa Bellanova: “Se il premier vuole andare avanti deve ritirare la norma sulla task force. Non siamo una Repubblica fondata sui Dpcm”. L’immancabile professor Sabino Cassese: “Troppi poteri a una sola task force incomprensibile. È una soluzione rococò, denota sfiducia nello Stato”.

Il fuoco incrociato. Il ministro agli Affari europei, Vincenzo Amendola, si sbracciava cercando in buona fede di rassicurare: “L’idea di una governance è nelle linee guida della Ue a pagina 33”, insomma ce lo chiede Bruxelles. Niente, quelli andavano diritti, spalleggiati dai quotidiani amici. Il Sole 24 Ore: “Incredibile ma vero. Sei super manager e 300 tecnici per i fondi Ue”. Sebastiano Messina su Repubblica: “Più o meno gli stessi poteri che avevano i quadrumviri nell’ottobre del 1922: i quadrumviri di Mussolini alla marcia su Roma”.

La task force da 300 funzionari viene eliminata dai documenti preparatori e nel testo del 12 gennaio, l’ultimo redatto dal governo Conte, non c’è più. Così come viene tolta la “cabina di regia” immaginata da quell’esecutivo che prevedeva un trittico formato da Palazzo Chigi, Mef e Sviluppo economico.

La struttura risorta. Ieri al Parlamento sono arrivate le 2.500 pagine del documento complessivo, composto da allegati tecnici, tabelle di marcia, piani finanziari, suddivisione degli investimenti anno per anno – con l’obbligo di chiudere tutto al 31 agosto 2026 – insomma un apparato tecnico imponente. E cosa si trova a pagina 15 dell’allegato tecnico Implementation, monitoring, control and audit of the National Recovery Plan? La task force di 300 funzionari.

“Per quanto riguarda le risorse umane – si legge – è prevista un’azione straordinaria di rafforzamento del personale a beneficio della Pubblica amministrazione attraverso un piano di assunzione di personale esperto, a tempo determinato, specificamente destinato a pubbliche amministrazioni che hanno la responsabilità della implementazione/realizzazione delle iniziative e dei progetti del Pnrr”. Tra queste assunzioni, finalizzate a rendere più rapidi i progetti, ci sono 1.000 nuove assunzioni di “esperti” per il ministero guidato da Renato Brunetta, ci sono poi 2.800 assunzioni – il bando è stato già pubblicato il 6 aprile scorso – per le otto regioni del Mezzogiorno,

“Inoltre, per le strutture centrali di controllo presso il ministero dell’Economia e delle Finanze” è prevista “l’assunzione di un totale di trecento dipendenti a tempo determinato con possibilità di scorrimento in graduatoria, che rimarrà efficace per l’intera durata dell’attuazione del Pnrr”.

Eccoli i 300 che facevano scandalo e costituivano un attacco alla Repubblica, un orpello “rococò”. Semplicemente, come si evince dagli allegati del Pnrr, erano già richiesti dalle regole e dalle linee guida europee cui l’Italia si stava conformando.

L’entità-Cyber. Così come era legata a quelle indicazioni anche la Fondazione per la cybersecurity che Matteo Renzi ha scagliato a mo’ di clava contro Conte, accusandolo di voler mettere le mani sui Servizi segreti. La struttura di sicurezza, invece, è ancora là e il testo non lascia dubbi sulla sua genesi: “Le autorità nazionali competenti, in linea con le strategie dell’Ue, favoriranno l’identificazione di una nuova entità (corsivo nostro, ndr) di cyber sicurezza nazionale, attualmente oggetto di dibattito politico”.

La struttura si chiama ora “entità” – come veniva indicato Israele dai Paesi che non volevano riconoscerlo come Stato – e soprattutto il testo ammette che è in corso un “dibattito politico” sulla sua composizione e controllo.

L’ultima cabina. Il problema si ripropone per l’ultimo tassello della governance complessiva presentata all’Unione europea, cioè la “Cabina di regia” collocata a Palazzo Chigi e che supervisiona l’intero Piano. Nel documento presentato ieri viene specificato che “la struttura, la composizione, le modalità operative e il collegamento con le divisioni della Presidenza del Consiglio dei ministri saranno definiti con un apposito provvedimento adottato dopo la presentazione del presente Piano alla Commissione europea, che sarà adeguatamente rafforzato a tal fine”. Delle strutture e forze che ne dovranno fare parte si fa riferimento solo a “rappresentanti designati dalle Amministrazioni coinvolte, rappresentanti designati dalla Conferenza Unificata e dai rappresentanti delle realtà economiche e sociali di riferimento”. Dalle cronache semi-ufficiali sappiamo che il provvedimento non viene emanato perché le forze politiche non hanno un accordo su chi e come dovrà rappresentarle.

Il Pnrr è una grande occasione per il Paese, ma anche per chi lo gestisce.

Le manovre, le ipocrisie, le falsità che finora lo hanno accompagnato si spiegano facilmente.

IlFQ

sabato 23 gennaio 2021

Ue: piano ad aprile, riforme e task force per controllare. - Salvatore Cannavò

 

Le nuove “istruzioni” sconfessano le critiche di Renzi e stampa. L’Europa vuole “soggetti specifici” per garantire sui fondi.

Dietro la “bufala” dei ritardi italiani sul Recovery fund si gioca una partita molto più seria e delicata che riguarda il tipo di “riforme” che l’Italia è chiamata a realizzare e le garanzie che l’Europa richiede per sborsare prestiti e sovvenzioni. Lo si legge chiaramente nelle nuove Linee guida (Guidance to member States Recovery and Resilience plans) che la Commissione europea ha licenziato ieri.

Ritardi immaginari. Quanto ai ritardi, il testo non lascia spazio a equivoci: il termine per presentare i piani nazionali di Ripresa e resilienza è fissato al 30 aprile. Solo il prossimo 9 febbraio, poi, tra l’altro, è prevista l’approvazione definitiva da parte del Parlamento europeo del Regolamento sulla governance del Recovery e Resilience Facility, il cuore del Next Generation Eu. Il regolamento è stato approvato dalla commissione Bilancio del Parlamento europeo lo scorso 12 gennaio e ora si attende il voto finale dell’aula e la deliberazione del Consiglio.

Il problema dei ritardi, tra l’altro, sta da un’altra parte e non riguarda l’Italia. Essendo parte integrante del Bilancio europeo e ricorrendo allo strumento delle “risorse proprie”, perché la Commissione possa raccogliere i fondi necessari serve la ratifica dei 27 Paesi della Ue. Ma solo Croazia, Cipro e, guarda un po’, Italia, l’hanno realizzata. La Germania ce l’ha in calendario il 9 aprile, la Spagna ancora non ha fissato una data.

Riforme necessarie Le Linee guida diffuse ieri, invece, lasciano intendere che la Commissione ha a cuore soprattutto i piani di riforma. In tal modo si mantiene la presa sugli Stati nazionali che, in cambio delle cospicue risorse, devono garantire riforme come, ad esempio, “quella delle pensioni, del mercato del lavoro” e in generale quelle “essenziali per garantire l’attuazione efficiente ed efficace degli investimenti” e in grado di garantire un uso improprio dei finanziamenti. Quindi “strategie anti-corruzione, anti-frode e anti-riciclaggio, amministrazione pubblica efficace, efficacia dei sistemi giudiziari e Stato di diritto”. L’indicazione delle riforme è generalizzata, vale per tutti: rispetto alla precedente formulazione, infatti, dalle Linee guida è scomparsa la frase “in alcuni casi” ed è stato aggiunto un paragrafo che impone di segnalare le riforme nel Facility plan.

Controlli specifici Le Linee guida sanciscono ancora che ogni Paese deve individuare degli specific actors, dei soggetti specifici responsabili di controlli “sufficientemente robusti per proteggere gli interessi dell’Unione” ed evitare “frodi, corruzione e conflitti di interessi”. I dispositivi di controllo saranno valutati e se considerati “insufficienti” bloccheranno l’erogazione dei fondi. I “soggetti specifici”, devono avere “capacità amministrative” e “poteri legali”. La preoccupazione del governo di definire una struttura ad hoc non era quindi un vezzo autoritario del premier Giuseppe Conte, ma rispondeva a una precisa richiesta dell’Ue. Così come la centralità che nella prima bozza, pesantemente attaccata da Matteo Renzi, aveva il capitolo Giustizia, rispondeva a una chiara priorità.

Ritardi effettivi In realtà il ritardo è stato provocato proprio da Renzi, che dal 7 dicembre ha messo in mora ogni progresso. Ieri il presidente del Consiglio ha dato seguito a quanto annunciato in Parlamento convocando i sindacati per discutere della bozza e poi anche le associazioni degli agricoltori. Un primo giro di tavolo in cui ogni associazione mette l’accento sulle proprie priorità. Oltre ai confronti sociali, però, l’attenzione è rivolta al Parlamento. Le audizioni potrebbero iniziare venerdì prossimo, 29 gennaio, e concludersi all’inizio della prima settimana di febbraio per poi passare alle relazioni da approvare in aula intorno a metà febbraio e forse anche più in là. A quel punto il Piano sarà inviato alla Commissione. Crisi di governo permettendo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/01/23/ue-piano-ad-aprile-riforme-e-task-force-per-controllare/6075696/

mercoledì 23 dicembre 2020

Italia Viva alza bandiera bianca. Ma spaccia la resa per vittoria. Bellanova esulta: la task force sul Recovery Plan non c’è più. Invece ci sarà perché prevista dall’Unione europea. - Raffaella Malito

 

Matteo Renzi sembra uno di quei bambini che prima fanno i capricci e poi, quando si convincono che è ora di farla finita, devono trovare il modo di “rientrare nei ranghi” senza perdere la faccia. Dunque se, da una parte, abbandona i toni aggressivi e gli ultimatum all’indirizzo di Giuseppe Conte, dall’altra ci tiene a mantenere viva la tensione. Ecco allora che, al termine dell’incontro a Palazzo Chigi col premier, finalizzato a ridefinire il Recovery plan, la delegazione di Iv si lascia andare a nuovi segnali distensivi ma nello stesso tempo tira un po’ la corda, riproponendo la questione dell’attivazione del Mes.

“Il problema di questo Paese non è se Bellanova o Bonetti si dimettano ma dare risposte ai cittadini. La task force nel testo del Recovery non c’è più, dunque avevamo ragione. Ora discutiamo nel merito delle questioni. Oggi si è fatto un passo avanti”, dichiara il capo delegazione Teresa Bellanova. Eppure come un disco rotto continua a risuonare la richiesta di attivazione del Mes: “Se nel documento che ci è stato consegnato continuano a esserci solo 9 miliardi per la sanità, perché non si riflette sulla possibilità di utilizzare i 37 miliardi del Mes, che hanno minori condizionalità rispetto a quelle del Recovery?”, chiede Bellanova, rilanciando la richiesta sul Salva Stati avanzata dal suo leader anche ieri nella consueta newsletter.

A Iv sul Mes risponde Leu: “La strumentalità a volte è commovente, qui il problema non è di accaparramento dei soldi ma di rafforzare i progetti che intrecciano la sanità con gli altri” pilastri del piano, “il green soprattutto”, dice la capogruppo al Senato, Loredana De Petris, che era nella delegazione di Leu che ha incontrato il premier dopo Iv. “Serve mettere in campo una strategia di lungo respiro che tenga insieme green, salute e infrastrutture sociali e questo significa anche un riequilibrio delle risorse”, spiega De Petris. Per Federico Fornaro (Leu) “è fondamentale che questa massa di investimenti abbia la cornice di una riforma del lavoro. Servono una nuova legge sulla rappresentanza e ammortizzatori sociali per rendere più stabile il lavoro, combattere la precarietà e aumentare i salari”.

Il premier, il giorno prima a Pd e M5S, ha spiegato che sulla governance ci sarà una riflessione seria e condivisa, che non sarà una struttura invasiva ma ha tenuto il punto: ce la chiede l’Europa. Il ministro per gli Affari Ue, Enzo Amendola, ha ribadito il concetto: “A pagina 33 la Commissione Ue chiede che ci siano strutture per il monitoraggio, per aiutare le pubbliche amministrazioni. La Commissione chiede che ogni Paese si organizzi con una struttura, che non sostituirà i ministeri, ma aiuterà la Pa a fare un lavoro positivo”. E ancora: “Avevamo 600 progetti, ora ne abbiamo 52 e saranno razionalizzati e resi coerenti”.

La delegazione di Iv ha preso qualche giorno di tempo per esaminare la documentazione illustrata nel corso dell’incontro. Già lunedì faranno pervenire un loro contributo di sintesi così come faranno le altre forze politiche. Subito dopo partiranno i tavoli di confronto. Amendola conferma quanto già detto da Conte sulla volontà di voler parlamentarizzare il processo: “Dopo la sessione di bilancio, ci saranno altri incontri al Mef. Presenteremo poi una proposta al Parlamento e successivamente ne discuteremo anche con gli enti locali e gli attori sociali. L’Italia è uno dei pochi paesi in Europa che ha deciso di lavorare sul Recovery con il Parlamento. Vogliamo condividere tutti i passaggi”. Obiettivo: “Ci auguriamo che per metà febbraio si possano già presentare i piani nazionali”.

Rimane tra gli alleati lo stupore per i comportamenti del leader di Rignano: “Noi avevamo capito che volesse lavorare con noi per fare un patto di legislatura e invece ci siamo ritrovati con la possibilità di interruzione della legislatura”, dice Andrea Orlando del Pd che non si stanca di ribadire: “Non vediamo la possibilità di altre maggioranze, riteniamo che non ci siano altre formule praticabili come governi tecnici che non hanno portato benissimo”. Tagliente il ministro Francesco Boccia: “Si minacciano ultimatum che diventano penultimatum con liturgie che allontanano i cittadini dalla politica”.

Rimane sullo sfondo l’ipotesi di un rimpasto da varare a gennaio dopo la sessione di bilancio. Un’uscita di emergenza che, secondo alcuni, potrebbe definitivamente ricomporre la situazione saziando la fame di potere dei renziani. Nel mirino la delega ai Servizi segreti che il premier ha voluto mantenere nelle sue mani. Se Conte si decidesse a mollarla, quella potrebbe essere la prima pedina che avvierebbe il riassetto dell’attuale squadra di governo.

https://www.lanotiziagiornale.it/italia-viva-alza-bandiera-bianca-ma-spaccia-la-resa-per-vittoria-recovery-plan/

giovedì 24 agosto 2017

Così cambierà l’Euribor, il tasso-guida dei mutui. - Maximilian Cellino e Marco Ferrando

Guido Ravoet (Imagoeconomica)
Guido Ravoet (Imagoeconomica)

Affidabile, più volatile ma non troppo, agganciato il più possibile alla realtà e non alle supposizioni di un manipolo di banchieri. Non è facile trovare un indice che soddisfi i tre requisiti, ma all’European Money Market Institute (Emmi) ce la stanno mettendo tutta per offrire ai mercati entro fine anno un nuovo Euribor: da tempo si ritiene inappropriato un tasso, com’era anche il Libor travolto dagli scandali, frutto di una consultazione quotidiana tra un gruppo ormai ridotto a 20 banche, e non a caso le norme europee sui benchmark prevedono che quello attualmente in uso venga pensionato entro fine 2019.
Ma serviranno almeno un paio d’anni di tempo per modificare migliaia di pagine di contratti e centinaia di algoritmi, dal momento che oggi al tasso nelle sue varie scadenze sono agganciati 180mila miliardi di euro (compresi mille miliardi di mutui): di qui l’accelerata della task force istituita a Bruxelles presso l’Emmi, l’ente che governa le sorti dell’Euribor dagli albori, dove il segretario generale, Guido Ravoet conferma che «l’obiettivo che ci siamo dati è quello di avere una versione definitiva del nuovo schema entro la fine del 2017».
Dopo aver sancito tre mesi fa (si veda Il Sole 24 Ore del 10 maggio scorso) il fallimento della sperimentazione di un possibile nuovo indice basato sulle sole transazioni di mercato, troppo sottili per arginarne la volatilità, il gruppo di lavoro si è messo all’opera pancia a terra per studiare una nuova soluzione ibrida, che consenta di «basarsi sulle transazioni quando appropriate e disponibili, e nel caso in cui non lo siano consenta di usare altri dati», dice ancora Ravoet. Da giugno, secondo quanto risulta, il gruppo di lavoro si è riunito una volta ogni due settimane, con due incontri a Bruxelles, uno a Parigi, un altro a Londra e un altro ancora a Milano, più una serie di conference call: la settimana prossima riprenderanno i lavori e per i più ottimisti già alla fine di settembre o al massimo all’inizio di ottobre si potrebbe materializzare qualche passo in avanti.
«Puntiamo ad avere la nuova metodologia pienamente in vigore entro la fine del 2019», aggiunge il segretario generale dell’Emmi. Ma il 2020 è dietro la porta, e la strada ancora lunga: fissato il nuovo indice ci sarà da sperimentarlo, poi da avviare una consultazione, ottenere il via libera dalle varie authority competenti e quindi dare il tempo alle banche di prepararsi a una rivoluzione dal punto di vista formale, ma anche sostanziale.
La riforma dell’Euribor «è una specie di ordigno», dice un banchiere interpellato da Il Sole. Una bomba che non è detto faccia danni (l’auspicio è proprio questo), ma che in ogni caso è destinata a rivoluzionare il mercato dei mutui retail e corporate, quello dei derivati nonché le norme di funzionamento delle tesorerie delle banche, che viaggiano a ruota. Il tema, in pratica, è delicatissimo e qui si fonda la necessità di uscire dalla logica per certi aspetti autoreferenziale delle “telefonate” (cioè le rilevazioni mattutine sui tassi applicati dalle singole banche), per affidarsi ai prezzi reali, cioè alle transazioni, soldi prestati o impiegati, effettivamente condotte sul mercato. «Il problema è che con l’inondazione di liquidità proveniente dalla Bce in questo momento il mercato è diventato molto sottile», spiega un funzionario di tesoreria di una media banca italiana: pochi scambi, molta volatilità. E in più un panel ormai ristretto a 20 sole banche (nel 2012 erano 44) non aiuta: anche perché 9 di esse sono europeriferiche e i tassi applicati - e segnalati ogni mattina alle 11 - inevitabilmente risentono di chi presta a chi.
Così, se una maggior volatilità rispetto a oggi sembra inevitabile, altre questioni restano aperte. «Un panel allargato sarebbe senz’altro un segnale del commitment dell’intera comunità bancaria nel processo di riforma, dal momento che ogni istituto ne fa uso», si fa notare dall’Emmi. Ma, come già accaduto in passato a più riprese, c’è chi non disdegnerebbe l’intervento diretto della Bce, se non altro vista la mole di dati quotidianamente raccolta a Francoforte. Sul punto Ravoet non si esprime puntualmente, ma ci va vicino: «Emmi giudica positivamente qualunque iniziativa da parte delle istituzioni che possa aiutare il processo di riforma», dichiara a Il Sole. Certo è che l’Emmi governa anche l’Eonia, l’indice calcolato sulle operazioni overnight (a brevissima scadenza), per il quale Bce secondo diversi osservatori potrebbe avere una qualche forma di preferenza vista - appunto - la base transazionale.
Dunque per l’Euribor, con la valanga di attivi collegati, siamo all’ultima chiamata. Se seguirà le sorti del Libor una riforma potrebbe non essere garanzia di sopravvivenza: giusto a fine luglio, il responsabile della britannica Fca, la Financial conduct authority, Andrew Bailey, ha dichiarato che la revisione non è stata soddisfacente, dunque il parametro dovrà essere pensionato entro il 2021. Con buona pace dei 350 trilioni di prodotti finanziari che si porta dietro.