giovedì 25 ottobre 2012

Trattativa Stato-mafia, Mancino chiede il giudizio del tribunale dei ministri.


Trattativa Stato-mafia, Mancino chiede il giudizio del tribunale dei ministri


L'ex ministro dell'Interno chiede lo stralcio "per mancanza di connessione con quelle degli altri imputati" e di far valere la sua posizione di componente del governo all'epoca dei fatti. Il gup deciderà probabilmente nella prima udienza preliminare del 29 ottobre.

Dopo la richiesta di stralcio della sua posizione per mancanza di “connessione” con quelle degli altri imputati, l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, attraverso i suoi legali, ha depositato al gup Piergiorio Morosini, davanti al quale si terrà l’udienza preliminare del procedimento sulla trattativa Stato-mafia, una istanza con cui si chiede di trasmettere gli atti al tribunale dei ministri.
Secondo l’ex politico Dc, imputato del reato di falsa testimonianza, il gup dovrebbe dichiararsi incompetente a decidere e inviare il fascicolo al tribunale dei ministri, competente in quanto all’epoca della presunta trattativa Mancino era ministro dell’Interno. Sulla richiesta, probabilmente, il gup si pronuncerà il 29 ottobre, data in cui avrà inizio l’udienza sulla trattativa. Nel procedimento sono coinvolti, oltre a Mancino, i vertici del Ros di quegli anni: il generale Mario Mori, l’ex comandante Antonio Subranni e l’ex capitano Giuseppe De Donno che nel 1992 avrebbero avviato il dialogo con Cosa nostra tramite Vito Ciancimino. E ancora i capimafia Bernardo ProvenzanoTotò RiinaLuca BagarellaGiovanni Brusca e Antonino Cinà e Massimo Ciancimino, figlio di don Vito. Nella lista anche l’ex ministro dc Calogero Mannino e il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. L’uno, accusato di avere dato input alla trattativa perché temeva di essere ucciso, l’altro perché si sarebbe proposto come intermediario con i clan dopo l’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima.
Le accuse per quelli che vengono ritenuti i principali protagonisti del patto, che parte delle istituzioni avrebbero stretto con Cosa nostra per fare cessare le stragi, sono diverse: minaccia a corpo politico dello Stato per i boss, i carabinieri, Dell’Utri e Mannino. Concorso in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro per Ciancimino jr e falsa testimonianza per Mancino.

mercoledì 24 ottobre 2012

Truffa, indagata la segretaria di Bersani: “Pagata dalla Regione, lavorava per il Pd”. - Emiliano Liuzzi e Nicola Lillo



La donna si dimise dall'incarico solo il 28 gennaio 2010, ma per due anni percepì regolare stipendio inquadrata come dirigente. Il Pd: indagine vecchia. In realtà la donna ha ricevuto l'avviso di garanzia e l'avviso di interrogatorio soltanto da pochi giorni.

Quella arrivata oggi è una tegola per il segretario del Pd. Zoia Veronesi, storica segretaria di Pier Luigi Bersani, è indagata dalla procura di Bologna per truffa aggravata ai danni della Regione Emilia Romagna. Secondo gli inquirenti Veronesi, lavorò al fianco di Bersani a Roma, prendendo comunque lo stipendio dalla Regione in un arco di tempo di un anno e mezzo.
Il pubblico ministero che conduce le indagini,Giuseppe Di Giorgio, ha inviato un invito a rendere interrogatorio, che si terrà nei prossimi giorni. La donna, che era dipendente della Regione fino al 28 gennaio 2010, era stata distaccata con un provvedimento della stessa Regione a Roma, dove doveva intrattenere rapporti con le “istituzioni centrali e con il Parlamento”. Ma la guardia di finanza ha appurato che non esiste traccia della sua prestazione lavorativa a favore della Regione in quel periodo, tra il 2008 e il 2009. Avrebbe dunque lavorato, a detta dei pm, per altri a spese della Regione. Un ruolo che era giudicato determinante, ma in realtà Veronesi non venne mai sostituita per ricoprire quell’incarico.
 Il 28 gennaio 2010 Veronesi si dimette. Scrive l’Ansa il 6 maggio di quell’anno: “La procura di Bologna sta indagando sulle questioni denunciate negli esposti presentati dal deputato e coordinatore provinciale Pdl Enzo Raisi il 19 marzo scorso e riguardanti l’ufficio della presidenza della Regione Emilia Romagna e quello dell’assessorato alle attività  produttive. Il reato ipotizzato dal pm Giuseppe Di Giorgio, titolare dell’inchiesta, e’ abuso di ufficio. In un caso c’e’ un indagato, anche se l’iscrizione sul registro degli indagati rappresenta un atto dovuto. In particolare, Raisi, venivano segnalate presunte anomalie o irregolarita’ sull’incarico assegnato all’ex segretaria di Pier Luigi Bersani Zoia Veronesi, come dirigente professional per il raccordo con le istituzioni centrali e il Parlamento, ruolo che, secondo Raisi all’epoca e secondo i magistrati oggi, le avrebbe permesso di continuare a lavorare per Bersani.
Il legale di Veronesi, l’avvocato Paolo Trombetti, ha spiegato che “il pm ci ha invitato a rendere un interrogatorio, cosa che faremo senz’altro perché abbiamo interesse a chiarire che non c’è stata alcuna irregolarità da parte di chicchessia, tanto più dalla signora Veronesi”. “Respingiamo – continua Trombetti – l’accusa di truffa, non c’è alcuna ombra. Chiariremo tutto. È una vicenda in cui nulla le può essere rimproverato”. Oggi Veronesi non è più una dipendente della Regione, ma lavora tra Roma e Bologna alle dipendenze del Partito democratico. E sicuramente è stipendiata dalla federazione di Roma, perché il suo nome non figura tra quelli dei funzionari stipendiati del Pd di Bologna.
L’inchiesta che vede coinvolta la segretaria di Bersani è nata nel 2010 da un esposto (su cinque presentati sulla mala gestione della Regione Emilia Romagna) del deputato di Futuro e Libertà, Enzo Raisi e del consigliere comunale di Bologna Michele Facci (Pdl). Veronesi, quando furono presentati gli esposti, interruppe il suo rapporto con la Regione e venne assunta a Roma dal Partito Democratico.
Zoia Veronesi è l’assistente personale del segretario del Pd, lo affianca dal 1993. Iniziò a collaborare con Bersani, infatti, quando divenne presidente della Regione Emilia Romagna, nei primi anni novanta. Da allora Veronesi lo ha seguito in ogni nuovo incarico, da parlamentare, a ministro dello Sviluppo Economico fino a oggi da segretario politico.
Dal giugno del 2008 al gennaio 2010 venne inquadrata in una nuova posizione dirigenziale per tenere il “raccordo con le istituzioni centrali e con il Parlamento”. Una posizione istituita dalla Regione (a firma del capo di gabinetto, Bruno Solaroli) il 27 maggio 2008, poco dopo la caduta del governo Prodi.
Quello che Raisi si domanda è se fu solo “una coincidenza il fatto che la Regione abbia istituito una nuova posizione dirigenziale nel maggio 2008, cioè subito dopo la formazione e il cambio del nuovo governo nazionale per permettere alla signora Veronesi di rimanere a Roma, anche dopo il venire meno dell’incarico al ministero?”. Zoia Veronesi, dopo la presentazione dell’esposto e l’inchiesta della magistratura, si è poi dimessa dalla Regione il 28 gennaio 2010 e dall’aprile successivo ha accettato di lavorare di nuovo con Bersani diventato segretario del Pd.
Enzo Raisi ha spiegato che “nel 2010 feci cinque esposti sulla mala gestione della Regione. Uno di questi riguardava la Veronesi. Avevo avuto dei documenti e delle carte dove si configuravano dei reati a suo carico. Ho verificato la loro veridicità, presentandoli alla magistratura”. Inoltre il coordinatore regionale di Fli in Emilia Romagna ha aggiunto al fattoquotidiano.it che per quella nuova posizione dirigenziale “questa signora fu nominata dirigente senza una laurea”
Nel Partito Democratico si mostrano sereni. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha accolto con “assoluta serenità” la notizia dell’indagine nei confronti della sua storica segretaria. Mentre da Largo del Nazareno dicono che “a onor del vero, per il partito, Zoia, ha fatto per molto tempo del volontariato”. Ed è questa la posizione assunta dalla difesa di Veronesi. L’avvocato Trombetti ha infatti spiegato che Veronesi “lavorava per la Regione a Roma e in quel periodo ha fatto solo attività volontaria per Bersani, fuori dall’orario di lavoro, tenendo la sua agenda”.
Il procuratore aggiunto Valter Giovannini ha spiegato che “le indagini allo stato sono circoscritte alla signora Veronesi. Ovviamente sono stati acquisiti ed esaminati tutti i documenti sull’iter burocratico relativo al distacco a Roma”.
Il Pd, in una nota, fa sapere che si tratta di un’indagine vecchia, e forse non casualmente emersa oggi alla vigilia delle primarie. In realtà qualcosa è accadiuto in questi giorni: Veronesi, infatti, dovrà essere interrogata e i magistrati, pochi giorni fa, le hanno recapitato l’avviso di garanzia: prima non sapeva di essere indagata se non per vie ufficiose.

Diffamazione, emendamento Pdl vieta di parlare male della Casta.


Lucio Malan

L'onorevole Lucio Malan, impegnato a votare al posto di un collega.


Dal senatore Malan una norma per inasprire le sanzioni per chi offenda "corpo politico, giudiziario o amministrativo" con attribuzioni di "spese folli, inefficienze non sussistenti o paragoni falsi".


Non bastavano le maxi multe, non bastava la norma per imbavagliare gli editori, ora nel disegno di legge Salva Sallusti che riforma il reato di diffamazione spunta un emendamento firmato dal Pdl Lucio Malan che punta a tutelare ‘la casta’ politica e istituzionale dalla pubblicazione di articoli che rivelino spese folli, come quelle, ad esempio, per i festini dei consiglieri regionali del Lazio o mega stipendi di chi riveste un ruolo pubblico ma che non sono esattamente conteggiabili perché magari frutto di cumuli. 
E’ quanto in sostanza prevede l’emendamento che a breve verrà depositato in aula al Senato sull’offesa a un corpo politico o amministrativo. In base alla proposta del senatore Malan – già noto alle cronache della Casta per essere stato pizzicato a votare per colleghi assenti, per una espulsione dal Senato dopo il lancio del regolamento contro l’allora presidente Marini, per avere contrattualizzato moglie e nipote nel suo staff –  chi riporterà notizie ritenute offensive, anche solo perché si parla di inefficienza di una pubblica amministrazione, ci sarà un aumento delle pene. Nel testo si legge che le pene per diffamazione a mezzo stampa sono aumentate “se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio. Costituisce in ogni caso offesa a tali soggetti, l’attribuzione di specifiche gravi inefficienze non sussistenti, di gravi eccessi non reali di spese, di emolumenti presentati come eccessivi e non realmente erogati, di paragoni falsi con altre analoghe istituzioni o procedure, e ogni altra attribuzione di fatti non reali, i quali suscitino il discredito nei confronti di detti soggetti”.
Il testo è lo stesso dell’emendamento che lo stesso Malan aveva già presentato in commissione Giustizia. Quel che cambia rispetto al testo della commissione è che il senatore aveva proposto anche di quantificare l’aumento della pena in “cinque volte” quella prevista. Ora la quantificazione è sparita. Malan spiega: “E’ giusta la trasparenza. Ma quando la trasparenza si trasforma in menzogna deve essere chiaro che questa è la diffamazione di un organo politico o amministrativo”.

Finmeccanica, la tangente per la maxi-commessa (saltata) e il ruolo di Berlusconi.


Finmeccanica, la tangente per la maxi-commessa (saltata) e il ruolo di Berlusconi


Tra i protagonisti dell'inchiesta entra anche un altro personaggio Pdl. E' il senatore Esteban Caselli, originario dell’Argentina ed eletto nella circoscrizione estero, introdotto all’allora direttore commerciale della holding della Difesa, Paolo Pozzessere proprio dal Cavaliere. Il politico voleva, come altri, soldi da Finmeccanica. Il ruolo di Scajola e Nicolucci in una commessa da 5 miliardi (mai andata in porto) e una provvigione dell'11%.

Affari, politica e il sospetto della più grande tentativo di corruzione (fallito) della storia: 550 milioni di euro di tangente da ripartire, secondo la gola profonda Lorenzo Borgogni, ex responsabile delle comunicazioni di Finmeccanica, tra l’ex ministro Claudio Scajola, l’onorevole Pdl Massimo Nicolucci e l’allora ministro della Difesa brasiliano Jobin. L’inchiesta Finmeccanica - con l’arresto di Paolo Pozzessere, ex direttore commerciale e attuale senior advisor per i rapporti con la Russia, gli avvisi di garanzia all’ex ministro Pdl Claudio Scajola, al deputato Massimo Nicolucci e al presidente degli industriali napoletani Paolo Graziano - ieri è deflagrata aprendo nuovi scenari. Anche quello di pressioni su Silvio Berlusconi da parte dell’ex direttore dell’Avanti Valter Lavitola, in carcere da mesi per i finanziamenti all’editoria e gli appalti per le carceri modulari a Panama. Ma non solo: il Cavaliere, stando alle carte, avrebbe raccomandato un senatore Pdl per un ulteriore affare in Indonesia. Il politico poi avrebbe poi chiesto “provvigioni” a Finmeccanica come compenso dell’intermediazione. Insomma, in questa vicenda, che per le cifre fa impallidire la storica maxi-tangente Enimont l’ex presidente del Consiglio sembra sponsorizzare potenziali corrotti.
I nuovi sviluppi dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto di Napoli Francesco Greco e dai pm Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock portano anche in BrasilePanama, Russia. Un sistema di corruzione internazionale che potrebbe avere precedenti solo guardando indietro di 20 anni. Gli inquirenti hanno messo nel mirino due importati affari, che tuttavia non sono andati in porto. Si parla di commesse da 180 milioni di euro per la fornitura di elicotteri, cartografia del territorio e sistema di vigilanza costiera, sempre a Panama: 18 milioni di euro la mega mazzetta che avrebbe dovuto intascare il presidente panamense Ricardo Martinelli) , vicenda che il gip definisce “raccapricciante”. E di un contratto per la fornitura di navi da guerra alla Marina militare brasiliana, un business da ben cinque miliardi di euro. 
Berlusconi, Lavitola e l’ex dg convocato a Palazzo Grazioli. Lo stretto rapporto tra l’ex premier e il faccendiere Valter Lavitola è lo sfondo invece su cui si muove la vicenda dell’appalto Fincantieri-Finmeccanica per navi al Brasile. Giuseppe Bono, dg di Finmeccanica dal 1997 al 2000 e ad Fincantieri dal 2002, ascoltato a Napoli il 26 settembre scorso racconta dell’accordo stipulato da Fincantieri e il governo brasiliano per una fornitura di navi per un valore di 5 miliardi di euro, ripartiti al 60% per la sua azienda e al 40% per Finmeccanica e società del gruppo fornitrici di sistemi di controllo e combattimento. Dopo la stipula dell’accordo “Lavitola – dichiara agli inquirenti – venne in Fincantieri e sostanzialmente mi disse esplicitamente che riteneva di meritare un compenso per l’attività svolta ….io non ritenevo che l’azienda dovesse alcunché al Lavitola, perché non aveva ricevuto alcun incarico in tal senso…. Fui convocato telefonicamente da Berlusconi a Palazzo Grazioli … Lavitola mi aveva preannunciato questa telefonata. Andai con l’avvocato Iannucci…In quell’occasione Berlusconi mi disse, alla presenza di Lavitola, di tenere presente che Lavitola era il suo fiduciario per il Brasile; ebbi la netta impressione che Berlusconi era pressato da Lavitola”. Il top manager aggiunge che quell’incontro si svolse tra febbraio e marzo 2011 e poi non ebbe più occasione di incontrare Lavitola per le vicende brasiliane. Per gli inquirenti l’inchiesta vede ancora una volta giocare un ruolo attivo dell’ex direttore dell’Avanti . Nei confronti del giornalista il gip ha respinto la richiesta di un nuovo arresto, essendo già detenuto con accuse simili, mentre ha ordinato il carcere, per concorso in corruzione internazionale.  
Scajola “canale privilegiato”. E’ Lorenzo Borgogni, ex responsabile comunicazioni esterne di Finmeccanica, a mettere nei guai l’ex ministro e ha rivelare il sistema. In un verbale del novembre dell’anno scorso racconta: “Pozzessere mi disse che Graziano era parte attiva, oltre a Fincantieri e Finmeccanica, nell’affare delle fregate e mi disse chiaramente di aver capito il motivo per il quale Fincantieri – nostra partner nell’affare – era molto più avanti di noi, e cioè di Finmeccanica; in poche parole Pozzessere mi disse che il dott. Bono di Fincantieri e Graziano gli avevano chiaramente detto di aver trovato un canale tra l’Italia e il Brasile tale da agevolarli nei rapporti con l’allora ministro della Difesa brasiliano Jobin, canale trovato da Graziano. Subito dopo tale colloquio, che avvenne nel 2009, io chiamai immediatamente, chiesi di incontrare e incontrai il mio amico Graziano, che conoscevo da tempo, appunto per chiedergli quale fosse il suo canale e se c’era la possibilità che anche noi di Finmeccanica potessimo beneficiare di tale canale privilegiato”. “In quell’occasione, siamo tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, Graziano mi disse – prosegue Borgogni – che il canale privilegiato tra Fincantieri e il governo brasiliano era rappresentato dall’onorevole Claudio Scajola e dal parlamentare napoletano, della corrente di Scajola, on.Nicolucci, e ciò perché Scajola era molto legato al ministro della Difesa brasiliano Jobin; preciso che, anche se all’epoca Scajola era ministro dello Sviluppo economico, in realtà il suo dicastero non aveva nulla a che vedere con l’affare della fornitura delle fregate nel quale era invece semmai coinvolto il ministero della Difesa. In tale occasione il mio amico Graziano scese nei dettagli e mi spiegò che lui aveva creato il contatto tra l’on. Nicolucci di Napoli e il dott. Bono di Fincantieri e che l’on. Nicolucci era praticamente un emissario dell’on. Scajola il quale appunto aveva il contatto con il ministro brasiliano Jobin. Dunque Scajola, contattato attraverso Nicolucci, si era impegnato ad intervenire su Jobin appunto per favorire Fincantieri”.
La tangente dell’11 per cento. Sempre nello stesso verbale Borgogni spiega il meccanismo: “Ancora successivamente Pozzessere mi disse di aver appreso da Bono, o comunque da Fincantieri, che in cambio delle agevolazioni era stato pattuito un ritorno che avrebbe dovuto pagare la stessa Fincantieri quale contratto di agenzia dell’ammontare dell’11 per cento dell’affare complessivo, pari quest’ultimo, per la sola parte di Fincantieri, a 2,5 miliardi di euro”. La “cifra di ritorno percentuale, secondo quanto riferitomi da Pozzessere, doveva essere parzialmente destinata tra Scajola e Nicolucci da una parte e Jobin dall’altra. In una fase immediatamente successiva appresi sia da Pozzessere sia dall’ad Guarguaglini, evidentemente messo a parte da Pozzessere, che era stata chiesta anche a noi di Finmeccanica la stessa percentuale di ritorno dell’11 per cento della nostra parte di affare, pari anch’essa a 2,5 miliardi di euro; a tal riguardo Guarguaglini mi disse di aver detto a Pozzessere che la percentuale massima di ritorno che lui era disposto a pagare era quella del 3 per cento. Come ho detto tale percentuale doveva essere pagata sia da Fincantieri sia da Finmeccanica tramite la stipula di un contratto di agenzia in Brasile in capo ad un agente evidentemente indicato dal ministro Jobin. Non so se Finmeccanica o qualche società del gruppo ha già stipulato un contratto di agenzia, credo che Fincantieri l’abbia sicuramente stipulato, almeno così mi è stato detto”.
Il senatore Caselli “raccomandato” da Silvio per l’affare indonesiano. Tra i protagonisti dell’inchiesta entra anche un altro personaggio Pdl. E’ il senatore Esteban Caselli, originario dell’Argentina ed eletto nella circoscrizione estero, ripartizione America Meridionale, introdotto all’allora direttore commerciale della holding della Difesa, Paolo Pozzessere proprio da Berlusconi. Il politico voleva, come altri, ‘provvigioni’ da Finmeccanica. Il ruolo di Caselli, che per gli inquirenti napoletani potrebbe essere entrato anche nell’affare sfumato con l’Indonesia. Pozzessere racconta tutto agli inquirenti l’11 novembre 2011: “Nel marzo-aprile 2011 mi trovavo al circolo degli Esteri a Roma… quando ho ricevuto una telefonata dal presidente Berlusconi il quale mi chiese se Finmeccanica (o meglio Alenia e Agusta) erano interessate a vendere aerei e elicotteri al Governo dell’Indonesia: a tale domanda io risposi affermativamente e lui mi disse che c’era un suo amico, il senatore Esteban Caselli, che poteva esserci utile, nel senso che Caselli conosceva una persona che poteva esserci utile per la trattativa in Indonesia”.
Quella telefonata tra il manager e Berlusconi – che legge passi di una lettera in cui l’amico di Caselli afferma di essere “in grado di garantire la vendita libera da interferenze, in un’atmosfera di reciproca fiducia con il committente indonesiano” –  è agli atti dell’inchiesta. “Dopo qualche giorno – continua Pozzessere davanti ai pm – mi chiamò il senatore Caselli e mi disse che mi avrebbe presentato tale Tsatsiky, che era l’uomo che poteva aiutarci nella trattativa”. Caselli fissò quindi un appuntamento con Tsatsiky nell’ufficio di Pozzessere per il 27 giugno, ma poi lo disdisi dicendo al manager di Finmeccanica che Tsatsiky “non gli aveva fornito sufficienti credenziali”. Le cose in realtà sarebbero andate diversamente, a sentire Pozzessere. Che racconta: “Dopo un po’di tempo un mio collega responsabile di Finmeccanica a Londra, Alberto De Benedictis, mi disse di aver incontrato Tsatsiky il quale gli aveva detto che il senatore Caselli gli aveva chiesto dei soldi per farlo incontrare con me e per avere un mandato di agenzia da Finmeccanica, o meglio da Alenia”. La cosa lasciò “molto perplesso” Pozzessere il quale, “non avendo voglia” di informare personalmente dell’accaduto Berlusconi, incaricò Valter Lavitola, “che è un uomo di Berlusconi … dicendogli che ero molto seccato”. Tempo dopo, ricostruisce sempre il manager di Finmeccanica, il senatore Caselli andò a trovarlo nel suo ufficio “per tutt’altra vicenda”. In quell’occasione i due non parlarono “dei fatti precedenti”, ma il parlamentare – dice ai pm Pozzessere – “mi propose la vendita di un elicottero al ministero dell’Interno e io gli dissi di mettersi in contato con Agusta e cioè la società del gruppo che si occupa di elicotteri; a tal riguardo gli diedi il nominativo della persona di Agusta. Nella medesima circostanza il Caselli mi chiese quale sarebbe stata la provvigione e io gli risposi freddamente che lui era un Senatore della Repubblica e che, semmai, in presenza di presupposti commerciali, la provvigione per un mediatore/agente esperto del settore e per un affare di quel tipo, pari a 4,5 milioni di euro, poteva andare dal 5% al 10%. Ritengo che anche tale vicenda non è andata in porto”.
L’elicottero di Putin. Uno dei filoni porta l’attenzione degli inquirenti in Russia, dove il dirigente arrestato ieri svolgeva per la holding il ruolo di “senior advisor” e dove lo stesso ex direttore commerciale di Finmeccanica intendeva, secondo i magistrati, trasferirsi nel timore di restare coinvolto nella vicenda giudiziaria. In una intercettazione telefonica tra Marco Acca, responsabile vendite del settore militare di AgustaWestland e l’amministratore delegato Bruno Spagnolini. Quest’ultimo, in particolare, raccomanda all’interlocutore, in una conversazione del 16 aprile scorso a proposito di elicotteri (l’inchiesta in origine si concentrava su una mazzetta da 12 milioni di euro per una fornitura di elicotteri all’India, ndr): “Quando parlate di di, se dovete dire che ci volano vari Capi di Stato così, non menzionate Putin perché… Siccome me l’ha detto il...Presidente cioè cioè e loro gliel’avevano fatto vedere…Lei può dire ci volano una miriade di Capi di Stato…ma senza che nessuno dica Putin o che ne so…”.  Il gip di Napoli Dario Gallo, nell’ordinanza ricorda che si fa riferimento a elicotteri Agusta e alla loro vendita in favore di vari capi di Stato stranieri. “Lo stesso Spagnolini – scive il gip – aggiunge che ciò è voluto dal presidente (evidente il riferimento a Orsi Giuseppe, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica)”. Dal momento che lo stesso Orsi aveva già parlato dell’acquisto di un elicottero da parte di Putin in un’intervista, questo “cambio di atteggiamento – spiega il giudice – è secondo i pm da ravvisare nell’esigenza di tenere riservati gli affari di Finmeccanica con Putin e la Russia in generale”.

Satira feroce.



https://www.facebook.com/photo.php?fbid=4275856549012&set=a.2597820559161.132169.1664167021&type=1&theater

Grandi rischi, la scienza non c’entra. I sismologi “condannati” dalla politica. - Mario Portanova


Grandi rischi, la scienza non c’entra. I sismologi “condannati” dalla politica


Dopo la sentenza dell'Aquila, il mondo della ricerca si mobilita in favore degli esperti della Commissione: "Sentenza ingiusta, i terremoti non si possono prevedere". Ma l'accusa è esattamente opposta: aver fatto filtrare alla popolazione messaggi tranquillizzanti. In "un'operazione mediatica" per "tranquillizzare la gente" voluta dal capo della Protezione civile Bertolaso.

C’è persino chi tira in ballo Giordano Bruno e Galileo Galilei per commentare la sentenza contro i membri della Commissione grandi rischi per l’ormai famosa riunione indetta pochi giorni prima del terremoto in Abruzzo. Lo fa il presidente della Toscana Enrico Rossi, che parla di una sentenza che “lascia sconcertati”, perché la scienza “non si processa in tribunale”. E agli esperti condannati a sei anni di reclusione arriva la solidarietà della comunità scientifica internazionale, in difesa dei colleghi colpevoli “di non aver previsto il terremoto”. Accusa che giustamente appare assurda alla stragrande maggioranza dei sismologi, tutti concordi nel dire che allo stato attuale delle conoscenze fissare sul calendario la data anche approssimativa di un sisma è semplicemente impossibile.
Peccato che le cose non stiano affatto così, e probabilmente chi ha diffuso appelli per la libertà della ricerca non ha letto le carte dell’inchiesta. A partire dalla memoria del pm dell’Aquila Fabio Picuti, depositata il 13 luglio 2010 e quindi ben nota, dove si legge: “L’intento non è quello di muovere agli imputati un giudizio di rimprovero per non aver previsto la scossa distruttiva del 6 aprile 2009 o per non aver lanciato allarmi di forti scosse imminenti o per non aver ordinato l’evacuazione della città”. Proprio perché, è lo stesso sostituto procuratore a scriverlo, “la scienza non dispone attualmente di conoscenze e strumenti per la previsione deterministica dei terremoti”. A inguaiare gli esperti capitanati dal presidente dell’Ingv Enzo Boschi non è stato il presunto oscurantismo dei giudici, ma l’esigenza tutta politica di “rassicurare” gli abitanti del capoluogo abruzzese, allarmati da una lunga sequenza di scosse e dai primi danneggiamenti di edifici, a partire da una scuola.
LE TESTIMONIANZE: “MORTE PERCHE’ RASSICURATE DA QUELLA RIUNIONE”. L’accusa è opposta a quella evocata negli appelli a difesa degli imputati: da quella riunione sono filtrati messaggi tranquillizzanti, tesi a escludere una scossa devastante. Agli atti dell’inchiesta ci sono le testimonianze che raccontano come la vulgata mediatica di quella riunione abbia convinto molte future vittime a metter da parte ogni preoccupazione. “Placentino Ilaria, deceduta nel crollo dell’abitazione di Via Cola dell’Amatrice n.17, e Rambaldi Ilaria, deceduta nel crollo dell’abitazione di Via Campo di Fossa n.6/B”, secondo le testimonianze dei parenti, “erano studentesse universitarie fuori sede che all’indomani del 31 marzo 2009 avevano scelto di rimanere a L’Aquila e di restare in casa la notte tra il 5 e il 6 aprile facendo affidamento sulle conclusioni della riunione della Commissione grandi rischi”. 
La Commissione grandi rischi si riunisce a L’Aquila (scelta irrituale, dirà poi Boschi, visto che di solito gli incontri avvenivano a Roma) alle 18,30 del 30 marzo 2009, una settimana prima del terremoto notturno che avrebbe provocato più di 300 morti, devastando la città e diversi centri della provincia. Oltre al presidente dell’Ingv arrivano diversi pezzi grossi della Protezione civile e della sismologia nazionale, tra i quali Franco Barberi, presidente vicario della Commissione grandi rischi, Gian Michele Calvi, presidente dell’Eucentre di Pavia, anche loro condannati per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose.
LA TELEFONATA DI BERTOLASO: “DEVONO DIRE CHE LA SCOSSA NON CI SARA’”. La ragione di quel vertice lo racconta Guido Bertolaso, allora capo della Protezione civile, dipartimento della presidenza del consiglio, con Palazzo Chigi occupato al tempo da Silvio Berlusconi: “Ti chiamerà De Bernardinis, il mio vice, al quale ho detto di fare una riunione lì all’Aquila domani su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni, eccetera”, spiega Bertolaso a Daniela Stati, assessore regionale abruzzese alla Protezione civile, in una telefonata intercettata per un’altra inchiesta (quella sugli appalti del G8). Si tratta soprattutto di rintuzzare gli allarmi lanciati da Giampaolo Giuliani, un ricercatore che si diceva in grado di prevedere ulteriori scosse sulla base dell’analisi del gas radon, metodo noto ai sismologi, ma giudicato inaffidabile. “Io non vengo, ma vengono Zamberletti, Barberi, Boschi, quindi i luminari del terremoto d’Italia”, continuava Bertolaso. “Li faccio venire all’Aquila o da te o in prefettura, decidete voi, a me non frega niente, di modo che è più un’operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti diranno: è una situazione normale, sono fenomeni che si verificano, meglio che ci siano 100 scosse di 4 scala Richter piuttosto che il silenzio perché 100 scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa, quella che fa male”. Quindi la conclusione: “Parla con De Bernardinis e decidete dove fare questa riunione domani, che non è perché siamo spaventati e preoccupati, ma è perché vogliamo tranquillizzare la gente“.
L’operazione mediatica per “tranquillizzare la gente” ha successo. Sono presenti amministratori locali, a partire dal sindaco Massimo Cialente, e molti giornalisti attendono fuori dalla porta. “La mattina del primo aprile incontrai in Piazza palazzo il sindaco”, spiega ai pm l’allora presidente della Provincia Stefania Pezzopane. “Mi confermò che secondo la Commissione la situazione era sotto controllo e che sostanzialmente non c’erano pericoli imminenti. Tant’è vero che già dal primo aprile decidemmo di riaprire le scuole che erano state chiuse precauzionalmente un paio di giorni”. Tra le tante dichiarazioni rasserenanti rilasciate dopo la riunione, i magistrati ricordano in particolare quella di Bernardo De Bernardinis, vicecapo settore tecnico operativo della Protezione Civile. Intervistato da Tv Uno, parla di “una situazione favorevole“, dato lo “scarico di energia continuo”. 
BOSCHI E IL VERBALE POSTDATATO. Il risultato della riunione del 30 marzo è riassunto in uno stringato verbale, nel quale Boschi definisce “improbabile una scossa come quella del 1703″, pur rimarcando che “non si può escludere”. Dal testo si deduce che i massimi sismologi italiani si riuniscono a L’Aquila per dirsi  quel che per loro ovvio, e cioè che i terremoti non si possono prevedere. Ma l’imprinting di Bertolaso ottiene il suo effetto, se all’opinione pubblica passa un messaggio rasserenante. Ma c’è di più. Il 16 settembre Boschi denuncerà in una lettera che quel verbale è stato redatto e firmato non la sera dell’incontro, ma in una nuova riunione convocata a L’Aquila il 6 aprile, subito dopo il sisma. E’ Mauro Dolce, capo dell’Ufficio rischio sismico della Protezione civile, anche lui condannato al processo, a mostrargli “un testo che riporta in maniera confusa cose dette nella riunione del 31 marzo”. Qualcuno, continua Boschi, “corregge il testo alla meno peggio e Dolce ce lo fa firmare per ‘ragioni interne’”. In quel momento il presidente dell’Ingv apprende anche che il 30 marzo e il primo aprile “dalla Protezione civile sono stati diramati due comunicati (recanti anche il mio nome) ‘tranquillizzanti’ di cui non sapevo niente”. 
I successivi gradi di giudizio diranno se i condannati in primo grado sono davvero colpevoli di quei reati e se i sei anni di reclusione sono proporzionati ai fatti attribuiti a ciascuno. Ma a trascinarli in tribunale è stato il pasticcio politico-mediatico di quella riunione, non certo il presunto attacco alla libertà scientifica da più parti evocato. E’ la dolorosa consapevolezza espressa dopo la sentenza da Giustino Parisse, il caporedattore del Centro che alle 3.32 del 6 aprile 2009 ha perso due figli: “Sono io la causa prima della morte di Domenico e Maria Paola e non me lo perdonerò mai”, scrive sul suo blog. “Certo fra le tante colpe che ho c’è anche quella di essermi fidato della commissione Grandi rischi credendo a una scienza che in quella riunione del 31 marzo del 2009 rinunciò a essere scienza”.

Monza, traffico di sangue infetto in ospedale: indagato primario. - di Olga Fassina


Monza, traffico di sangue infetto in ospedale: indagato primario

I reati contestati vanno dal peculato (se si accertasse il prelievo in eccesso) alla falsificazione di cartelle cliniche, ma si valuta anche l’ipotesi della truffa. Tutto è partito da una denuncia ai Carabinieri di Seregno che ha poi portato i Nas di Milano ad effettuare due blitz nel nosocomio brianzolo.

Sacche di sangue infetto dei malati di Hiv che partivano dall’ospedale di Monza e venivano trasportate in motorino a Milano. E ancora prelievi di plasma in quantità superiore a quanto previsto dai protocolli per ottenere rimborsi più corposi dalla Regione. Sono questi alcuni degli elementi che la Procura di Monza ha contestato ad Andrea Gori, primario di Malattie infettive al San Gerardo di Monza e fratello del più noto Giorgio Gori, imprenditore e produttore tv. Il luminare, molto conosciuto soprattutto perché sta sperimentando il primo vaccino contro l’Hiv, è stato travolto dalla bufera che si è abbattuta sul reparto che dirige e che ha visto in tutto nove persone ricevere inviti a comparire in Procura firmati dai sostituti procuratori di Monza Salvatore Bellomo e Caterina Trentini.
I reati contestati vanno dal peculato (se si accertasse il prelievo in eccesso) alla falsificazione di cartelle cliniche, ma si valuta anche l’ipotesi della truffa. Tutto è partito da una denuncia ai Carabinieri di Seregno che ha poi portato i Nas di Milano ad effettuare due blitz nel nosocomio brianzolo. Il primo, sei mesi fa, aveva portato anche ad alcune indagini interne da parte della direzione ospedaliera. “Avevamo eseguito delle verifiche, Gori sta seguendo una trentina di sperimentazioni, ma tutto era risultato regolare e mi sembrerebbe strano che un medico della sua levatura vada a rischiare e per che cosa? – ha spiegato il direttore del San Gerardo Francesco Beretta – I protocolli hanno iter molto precisi e rigorosi per l’approvazione, ma se qualcuno preleva sangue in eccesso, di quello la direzione non riesce ad accorgersi”.
Giovedì mattina gli uomini del Nucleo anti sofisticazioni sono tornati in azione. Non solo in ospedale, ma anche nell’automobile e nell’abitazione di Gori a Lecco, dove hanno rovistato anche nel frigorifero per cercare eventuali provette di sangue. Poi, hanno sequestrato un faldone di documenti e fotocopie, tra cui tutte le sperimentazioni che sta seguendo Gori, oltre ad aver scaricato decine di file dai computer. Sotto la lente degli inquirenti sono finiti i prelievi effettuati dal reparto di Malattie infettive che sembrerebbero troppo numerosi rispetto a quanto previsto dai protocolli medici che stabiliscono regole ferree durante le sperimentazioni. Dove finisse poi questo sangue prelevato non è ancora stato chiarito ed è proprio quello che stanno cercando di verificare gli inquirenti. Probabilmente veniva spostato con motorini verso Milano, ma per quale destinazione non è chiaro. “La questione mi sembra molto confusa”, ha ribadito il direttore dell’ospedale, mentre Gori si è limitato a commentare quanto successo con poche parole: “Nessun illecito”. L’infettivologo ha poi confermato quanto detto al direttore Beretta che ha incontrato il personale coinvolto dall’inchiesta rassicurandolo che non sarebbe stato sospeso.