giovedì 23 settembre 2021

Giovani in fuga dalle professioni verso il posto fisso: perché calano gli abilitati. - Antonello Cherchi e Valeria Uva

 

Diminuiscono i giovani che superano gli esami di Stato e anche i praticanti in alcune categorie sono in flessione. Pesano l’allungamento dei tempi per l’impiego dopo la laurea e le difficoltà di carriera.

È allarme giovani per le professioni. Gli ultimi dati degli esami di abilitazione che aprono le porte degli Albi professionali sono preoccupanti: i laureati che si sono iscritti e hanno superato l’esame di Stato sono diminuiti del 15,5% negli ultimi dieci anni, dal 2010 al 2019. In termini assoluti, guardando ai dati del ministero dell’Università e della ricerca su chi ha superato le prove (quelli dei candidati non sono disponibili), in quest’arco di tempo si sono “persi” 7mila accessi al mondo professionale: erano 45.177 gli abilitati del 2010 (di cui il 55% donne), mentre quelli del 2019 sono 38.172, con un incremento di tre punti percentuali per la componente femminile.

Commercialisti dimezzati.

Certo entrando nel dettaglio delle singole categorie la realtà è molto più composita: accanto a professioni dimezzate, come i commercialisti (-64%) e gli ingegneri dell’informazione (-76%), ci sono anche categorie che non arretrano, ma al contrario registrano un significativo progresso. È cosi per gli ingegneri civili e ambientali (+ 22% ) e per i medici (+25%) e per un’altra manciata di professioni i cui sbalzi da record sono dovuti anche ai numeri comunque molto bassi (paesaggisti e tecnologi alimentari tra questi). Assenti, in questa fotografia, solo i consulenti del lavoro, perché i dati sulle abilitazioni solo disponibili solo a livello territoriale.

Il calo dei nuovi ingressi nelle professioni ordinistiche riflette anche la sfiducia dei giovani verso il percorso universitario breve, ovvero la sola laurea triennale. Vistosi segni meno compaiono, infatti, accanto ai profili junior. Così ad esempio per gli architetti (-70% nel decennio, tanto che all’ultimo esame sono passati in meno di cento) e per tutte le specializzazioni dell’ingegneria, mentre per i geometri (-41% dal 2015) proprio l’avvio del percorso di laurea triennale accanto al diploma potrebbe aver allungato i tempi delle abilitazioni ed essere tra le cause del calo.

Il segno meno però è un primo segnale allarmante per tutti. Anche perché nel breve termine non si vede inversione di tendenza: il calo demografico, infatti, comporterà comunque una riduzione della platea dei laureati e di conseguenza di chi si avvicinerà alla libera professione.

Gli Albi resistono.

Il problema è concentrato soprattutto sui giovani. Come ha dimostrato anche «Il barometro delle professioni», l’inchiesta in più puntate del Sole 24 ore del Lunedì appena conclusa. Quasi tutte le categorie analizzate hanno visto crescere - anche se in alcuni casi in misura minima, come per i commercialisti - gli iscritti nel periodo 2010-2020: così è stato per avvocati, notai, ingegneri e architetti. Fanno eccezione i consulenti del lavoro, passati dai 26.788 del 2010 ai 25.279 del 2020 (-5,6%). Anche negli Albi in crescita scarseggiano, però, le «vocazioni»: praticanti dimezzati, ad esempio, per commercialisti e notai.

A scoraggiare i neolaureati a intraprendere il lavoro autonomo sono i percorsi ancora lunghi di accesso, che dopo la crisi economica si sono ulteriormente appesantiti. Secondo Almalaurea, ai laureati di secondo livello nel 2015 per trovare lavoro è servito in media quasi un anno, contro i 9,8 mesi del 2012 (laureati 2007). Con tempi raddoppiati per gli architetti e punte di 23 mesi di attesa per gli avvocati (si veda il grafico a fianco).

Pesa poi la gavetta dei primi anni. La distanza tra i redditi medi dichiarati alle Casse da tutti gli iscritti e quelli dei giovani under 35 (rilevata dal «Barometro»)  è a volte un fossato. Al primo posto gli avvocati: i 16.480 euro di media degli under 35 sono distanti due volte e mezza dai 40mila della media di categoria. Situazione analoga per i commercialisti: 2,3 volte più basso della media il reddito dei giovani.

Ma i giovani non sono l’unico anello debole. Come rileva il Censis, la differenza di reddito fra uomini e donne è di circa 15mila euro, rispettivamente 122% e 78% sul valore medio.

C’è poi la diversa condizione reddituale fra un professionista del Nord e uno del Mezzogiorno: la differenza in questo caso supera i 14mila euro a sfavore del secondo. Divari che si innestano su una situazione di arretramento complessivo dei redditi (si veda l’intervista).

Il fenomeno cancellazioni.

Gli Ordini cominciano a fare i conti anche con l’aumento degli abbandoni, fenomeno che ridimensiona la crescita degli iscritti agli Albi. Per esempio, se si prende in considerazione una delle categorie più affollate come quella degli avvocati, dal 2012 al 2019 è raddoppiata la quota di coloro che hanno lasciato la Cassa di previdenza (circa 6mila professionisti). Fenomeno che, secondo Cassa forense, è destinato a crescere per effetto delle chance di impiego nella pubblica amministrazione offerte dal Pnrr (si veda Il Sole 24 Ore del 26 luglio).

Un percorso quello verso il classico “posto fisso” che è già tracciato per gli ingegneri, grazie alla fortissima domanda di mercato: dei 27mila laureati del 2018, solo 7.900 hanno scelto di abilitarsi e, di questi, solo la metà (3.570) ha deciso di iscriversi all’Albo. Questi ultimi sono soprattutto i progettisti, per i quali l’abilitazione è obbligatoria, mentre gli altri ingegneri (soprattutto quelli gestionali e informatici) sembrano preferire il lavoro dipendente e fare, pertanto, a meno dell’Albo.

Una tendenza che le opportunità offerte dal Pnrr potranno amplificare. E non solo per gli ingegneri.

Illustrazione di Giorgio De Marini

Il Sole 24 Ore

Dalle coperture alle tensioni politiche, perché la riforma del fisco resta in salita. - Dino Pesole

 

Per essere incisiva nel sostegno alla crescita la riforma fiscale dovrebbe prevedere interventi a regime certamente non inferiori a 20-30 miliardi.

Nel Documento di economia e finanza di metà aprile il Governo aveva fissato l’asticella del deficit per il 2021 a -11,8%, con il debito a un passo dalla fatidica soglia del 160% del Pil (159,8%). L’intero quadro delle variabili di finanza pubblica si basava su una crescita stimata per l’anno in corso al 4,5% (4,1% nella proiezione tendenziale, vale a dire senza considerare l’impatto delle misure messe in campo per sostenere la ripresa).

Ora, con la Nota di aggiornamento del Def (la Nadef) che dovrebbe essere approvata entro il 27 settembre, il deficit si avvicinerà a quota 10% del Pil, con il debito che potrebbe scendere nei dintorni del 156-157%. Il tutto grazie a una crescita che si attesterà attorno al 6%. A conti fatti, se si guarda al deficit, si tratta di circa 2 punti di Pil in meno, dunque una buona base di partenza per la predisposizione della prossima manovra di bilancio. Meno deficit equivale a un margine di manovra certamente rilevante anche per gli spazi che potranno aprirsi nel bilancio per finanziare le misure in cantiere. Ne potrà trarre beneficio anche la riforma fiscale?

Per la riforma fiscale servono coperture strutturali.

Da questo punto di vista, occorre ricordare che la riforma fiscale, la cui approvazione sotto la forma di un disegno di legge delega dovrebbe essere imminente, non rientrando nel pacchetto di interventi contenuto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza non potrà beneficiare dei relativi fondi per il suo finanziamento. E non potrebbe che essere così, se si considera che i 191,4 miliardi del Netx Generation Eu si articolano in prestiti e sussidi il cui orizzonte temporale andrà a esaurirsi nel 2026, ultimo anno di vigenza del piano europeo nella sua attuale formulazione. La riforma fiscale, al contrario, dovrà necessariamente avere un carattere strutturale, e dunque permanente.

Il nodo delle coperture.

Le coperture dovranno seguire la stessa logica. Le cifre al momento sono ancora incerte, dipenderà dall’ampiezza degli interventi che verranno inseriti nel ddl delega e nella legge di Bilancio. Certamente non si potrà ricorrere direttamente all’arma del minor deficit: finanziare anche se solo in parte una riforma di tale rilevanza in deficit difficilmente sarebbe ammesso a livello europeo. Si potrà certamente utilizzare lo spazio di bilancio implicitamente “liberato” dal minor deficit, fermo restando che il set di coperture non potrà che consistere in un pari intervento sul versante della spesa corrente.
Risparmi dunque, da ritagliare all’interno degli oltre 870 miliardi della spesa pubblica, compresa la partita degli eventuali tagli alle agevolazioni fiscali, che sono anch’esse conteggiate nella categoria delle spese pur trasformandosi di fatto in un aumento dell’imposizione a danno delle categorie che si deciderà di “colpire”.

Un percorso a tappe.

Per ambire ad essere effettivamente incisiva nel sostegno alla domanda interna e dunque alla crescita, la riforma fiscale dovrebbe prevedere interventi a regime certamente non inferiori a 20-30 miliardi. Se si guarda alla mole delle misure da finanziare con la prossima legge di Bilancio e con le altre riforme in cantiere (dalla concorrenza alla giustizia), pare oggettivamente non percorribile la strada di un finanziamento della riforma di questa portata. Da qui l’intenzione del Governo di procedere a tappe. Il disegno di legge delega conterrà i principi generali del complessivo disegno di riordino della fiscalità (dall’Irpef all’Irap e all’Iva). Poi spetterà ai singoli decreti legislativi, che dovrebbero vedere la luce nel corso del prossimo anno, fissare il contenuto specifico sulle diverse categorie di imposta. Il costo dovrebbe di conseguenza essere spalmato in più esercizi finanziari.

Verso un primo intervento sul cuneo fiscale.

In contemporanea, con la legge di Bilancio che sarà presentata in Parlamento entro il 20 ottobre, si potrebbe dar vita a un primo intervento sul cuneo fiscale. Anche in questo caso è decisivo il calcolo delle risorse effettivamente disponibili: si parte da una dotazione di 2,3 miliardi, che potrebbe crescere grazie appunto agli effetti della maggiore crescita sui conti pubblici, mentre i risparmi conseguiti finora dal finanziamento dei diversi decreti emergenziali varati negli ultimi mesi dovrebbero essere quasi interamente destinati a contenere il costo della bolletta petrolifera, per evitare il paventato incremento fino al 40% per effetto del combinato disposto dell'aumento del greggio e delle materie prime.

Le ambizioni della “grande riforma”.

Anche per l’ultima, vera “grande riforma” del fisco, quella del 1973 si utilizzò lo strumento della legge delega. E anche in quel caso il disegno di riordino del prelievo prese le mosse dai lavori di una commissione, allora presieduta da Cesare Cosciani (questa volta il riferimento è alle conclusioni della commissione parlamentare presieduta da Luigi Marattin). Se questo è il precedente, la domanda che è lecito porsi è se sussistano ora le condizioni politiche per dar vita a una nuova, importante riforma che agisca sia sul versante del prelievo, sia su quello delle semplificazioni e dello sfoltimento dell’abnorme numero delle attuali “tax expenditures”. Gli imminenti appuntamenti elettorali di autunno, e quello molto rilevante con l’elezione del presidente della Repubblica all’inizio del prossimo anno, inducono a ritenere che al momento tali condizioni difficilmente potranno determinarsi. Troppe e decisamente rilevanti sono le differenze tra le ricette messe in campo dalle forze politiche che sostengono il Governo.

La variabile politica

Quindi oltre alla componente altrettanto decisiva delle coperture, il vero interrogativo riguarda la variabile politica, assai complessa da districare. Anche il ricorso a contestuali tagli di spesa da mettere in campo per finanziare la riforma si annuncia a dir poco complesso. Non a caso, la strada maestra sarebbe di avviare una riforma di tale portata all'inizio della legislatura, mentre ora i decreti legislativi dovrebbero vedere la luce nell’anno che precede le prossime elezioni politiche del 2023 (ammesso che non si vada a elezioni anticipate nel 2022). È una stagione in cui normalmente i partiti sono poco propensi a utilizzare l’arma dei tagli, per evidenti motivi di consenso elettorale. La strada tracciata dal ministro dell’Economia, Daniele Franco lo scorso 21 luglio in Parlamento («Se si intende ridurre in modo strutturale il peso del fisco bisogna agire per contenere la spesa pubblica sul Pil») appare dunque decisamente in salita.

(Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore)

IlSole24Ore

L’indagato Renzi scimmiotta B.. - wa. ma.

 

Riforma Cartabia - Il sì del senato: il leader Iv ne approfitta per attaccare i pm.

Cravatta verde Lega, accanto a lui Francesco Bonifazi, appoggiato (e non seduto) sullo scranno in posa plastica, Matteo Renzi – intervenendo in Senato per annunciare il sì di Italia Viva alla riforma Cartabia – pronuncia quello che aveva annunciato nella Enews come “un intervento difficile, uno dei più difficili” della mia carriera. L’aula del Senato lo ascolta tra il distratto e il perplesso, in quello che sembra una sorta di déjà-vu di altri attacchi contro la magistratura, in momenti decisamente più importanti della sua carriera politica. Eppure, a sentirlo parlare, lui che di indagini a suo carico ne ha già tre, tra le righe si intravedono più obiettivi. Il primo, come sospettano alcuni senatori, è di difesa preventiva: se stesse per arrivargli un altro avviso di garanzia, l’ex premier ha già pronta la motivazione politica. Il secondo è di posizionamento: la riforma Cartabia è “un ottimo primo passo” che “ci toglie dalla riforma Bonafede”. Ma lui si colloca idealmente a destra: “C’è stata una parte di quest’Assemblea e di quella della Camera, in particolar modo a sinistra, che ha immaginato di trarre vantaggio dalle vicende giudiziarie che riguardavano un’altra parte della politica, quella che stava nell’emiciclo di destra. C’è una responsabilità politica della sinistra nell’aver cercato di strumentalizzare questo e della destra nell’aver risposto con leggi ad personam”.

Il posizionamento include tirare dalla sua Di Maio che “ha detto parole chiare sull’uso barbaro e incivile, da parte dei 5Stelle nel 2016, della questione giudiziaria”, in contrapposizione a Bonafede. Mentre parla di “trent’anni di lunga guerra tra magistratura e politica”, Renzi cita la “profezia” di Massimo Bordin, allora direttore di Radio Radicale, sui magistrati che sarebbero arrivati ad arrestarsi tra loro. Non manca il passaggio sul fatto che due dei personaggi del pool di Mani Pulite, “gli unici due rimasti, oggi siano alle carte bollate tra di loro”. Il riferimento è allo scontro tra Francesco Greco e Piercamillo Davigo. Poi passa all’attacco del sistema delle correnti della magistratura e parla del punto “più basso” del Csm. Abbozza pure un’autocritica, ma che fosse Luca Lotti, insieme a Luca Palamara e Cosimo Ferri, a orientare le nomine dei magistrati è un dato più che acquisito. A proposito di responsabilità. Non evita di annunciare la necessità di riformare il Csm, regno delle correnti. Tanto da arrivare a un paragone “epocale”: “La correntocrazia dentro la magistratura del 2021 è come la partitocrazia nella politica del 1991”. Si arriverà a una legge di riforma del Csm, con il resto della maggioranza? Da valutare, spiegano da Iv. Infine, il passaggio che suona personale: “Quando le correnti dicono di voler stringere un cordone sanitario intorno al senatore X o Y, non si deve preoccupare quel senatore, ma il Senato”.

ILFQ

La voce del padrone. - Marco Travaglio

 

Da quando han cominciato a votare contro le élite politiche, finanziarie ed editoriali, gli elettori godono di pessima fama. Sono populisti, giustizialisti, poco riformisti, scarsamente moderati, insufficientemente europeisti, non abbastanza atlantisti e affetti da una preoccupante cultura anti-impresa. I padroni del vapore e i loro pennivendoli li avevano avvertiti: votate come vi diciamo noi, cioè i soliti B. o Renzi, che poi fa lo stesso. Ma quelli niente: non ne han voluto sapere. E sono stati puniti: il solito banchiere al governo. Eravate contro l’establishment e gli inciuci? E noi vi piazziamo la quintessenza dell’establishment sostenuto da un inciucione. Così imparate. Ora però abbiamo un problema: prima o poi si vota, al più tardi nel 2023. E quei rompicoglioni degli elettori hanno financo la pretesa di decidere da chi farsi governare. Con l’aggravante, sondaggi alla mano, di non essere guariti dalla grave patologia chiamata democrazia. Infatti i politici più popolari sono Conte e la Meloni. Come si fa? Semplice: si decide nelle segrete stanze chi deve governare gli italiani, così quelli si adeguano e votano bene oppure se ne stanno a casa e lasciano votare chi vota bene. Lo spiegava ieri, nel 40° anniversario de La voce del padrone di Franco Battiato, il sincero democratico Stefano Folli su Repubblica (un ossimoro: dovrebbe chiamarsi almeno Monarchia): siccome Conte riporta su il M5S nei sondaggi e riempie le piazze, “assistiamo al rapido tramonto di Conte”, un “declino veloce e forse inarrestabile” (l’ha deciso lui).

Quindi “il centrosinistra deve chiedere a Draghi di proseguire la sua opera a Palazzo Chigi”. E – tenetevi forte – “dovrebbe farlo il centrodestra non meno del centrosinistra”. Destra e sinistra con lo stesso premier. Qualcuno domanderà: ma gli elettori che ci stanno a fare? E in quale Paese, a parte Cuba, la Russia e qualche repubblichetta delle banane, tutti i partiti indicano lo stesso capo del governo? Beata ingenuità: è proprio questo che sognano lorsignori e i loro manutengoli a mezzo stampa. Anzi, non si limitano a sognarlo: lo confessano nero su bianco. Sentite il seguito del piano Folli, che delizia: “Offrire una base politica a Draghi, magari senza bisogno che egli si candidi formalmente alle elezioni”. Ecco, Draghi “formalmente” non si candida, se no poi la gente capisce: si candidano tutti gli altri per poi re-issare SuperMario sul trono regale. I programmi, le idee, le diverse visioni dell’Italia e del mondo, naturalmente la sovranità popolare, cioè la Politica e la Democrazia, possiamo scordarcele: “Tra un anno (cioè subito prima delle elezioni, ndr) occorrerà fare delle scelte in vista del dopo”. Prima si decide, poi si vota: non è meraviglioso?

ILFQ

Trattativa, la lettera di Mangano alla moglie: “Parlò di Berlusconi”. - Saul Caia

 

Oggi è il giorno del giudizio: nel primo pomeriggio, i giudici della Corte di assise di appello di Palermo emetteranno la sentenza di secondo grado del processo Trattativa Stato-mafia. Nel frattempo emergono nuove circostanze: come i telegrammi inviati dal boss Vittorio Mangano nel 1996 mentre era detenuto. E in uno di questi “è presente un riferimento” a Silvio Berlusconi. È quanto risulta dagli ultimi atti depositato dall’accusa a processo. Per capirne la portata però bisogna rimettere in fila i pezzi, partendo proprio da ciò che emerso durante il dibattimento. Ma procediamo con ordine.

Con l’accusa di minaccia a corpo politico o amministrativo dello Stato, sono finiti imputati: il co-fondatore di Forza Italia ed ex senatore, Marcello Dell’Utri e gli ufficiali dell’Arma Mario Mori e Antonio Subranni (condannati tutti a 12 anni in primo grado), l’ex colonnello Giuseppe De Donno (8 anni) e i boss Nino Cinà (12 anni) e Leoluca Bagarella (28 anni). Avrebbero turbato l’azione dello Stato, dal 1992 al 1994, veicolando la minaccia di Cosa Nostra attuata con le stragi e gli attentati.

Dell’Utri il ruolo di “mediatore”.

La Procura generale di Palermo contesta a Dell’Utri un ruolo di ‘mediatore’ tra Stato e mafia, nel periodo successivo alla vittoria di Forza Italia del 1994. Nella sentenza di primo grado, infatti, è spiegato che Dell’Utri avrebbe incontrato Vittorio Mangano due volte, nel 1994, per parlare delle modifiche legislative alle norme sugli arresti dei boss che Cosa Nostra chiedeva al neonato governo Berlusconi. Dell’Utri – secondo le accuse – percepì i messaggi di Mangano come minacce e le riferì al presidente del Consiglio, che venne “a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste”.

Mangano però, oltre a essere il boss di Porta Nuova, era stato anche lo “stalliere” della villa San Martino di Arcore, residenza della famiglia Berlusconi, tra il 1973 e il 1975, per poi finire in arresto nell’aprile 1995 dopo alcuni anni di latitanza, con l’accusa di omicidio.

Nella requisitoria del sostituto procuratore generale Giuseppe Fici vengono citate le dichiarazioni rese in aula il 19 settembre 2019 dal collaboratore di giustizia Francesco Squillaci, uomo d’onore della famiglia Ercolano-Santapaola. “Cosa Nostra diede il messaggio di votare Forza Italia, perché Berlusconi, letteralmente, poteva aggiustare la giustizia in Italia – dice Fici –, Squillaci indica nel decreto Biondi (Alfredo, ndr) del ’94, il cosiddetto salva-ladri, il primo segnale in questa direzione. Riferisce inoltre che nel 1995 il padre (Giuseppe, ndr), come ebbe a dirgli, fu detenuto insieme a Vittorio Mangano e che costui in quel periodo scriveva spesso telegrammi a Berlusconi, circostanza questa riscontrata in atti, Mangano disse a suo padre che Berlusconi era la persona giusta che poteva aiutare la mafia”.

La difesa dell’ex senatore Tesi senza riscontri.

Per Francesco Centonze, avvocato dell’ex senatore, la tesi non avrebbe riscontri: “Alcuni collaboratori dicono che c’è stata un’indicazione della mafia a votare Forza Italia, ma nessun riferimento a Dell’Utri. Non c’è nulla sul presunto incontro tra Vittorio Mangano e il senatore”. Poi in aula, durante le controrepliche, il pg Fici afferma: “C’è una relazione di servizio della direzione del carcere di Porto Azzurro, dove si fa riferimento alla documentazione che è stata tenuta, ma non anche i telegrammi bloccati all’indirizzo di Berlusconi. Non vi è traccia di questi telegrammi, vi è traccia di documentazione a un onorevole di Forza Italia e alla moglie in cui in uno di questi si fa riferimento a Berlusconi, ma nient’altro”.

I telegrammi di cui parla il pg sono quelli inviati da Mangano nel 1996 durante la detenzione nel carcere di Pisa. Uno risale al 26 febbraio 1996. In questo caso – come scritto nella nota della casa circondariale di Porto Azzurro – Mangano ha “richiesto di inviare una lettera ESPRESSO alla propria moglie”, Marianna Imbrociano. Questo telegramma è l’“unico manoscritto ove è presente un riferimento all’onorevole Silvio Berlusconi”. Il contenuto di quella lettera è sconosciuto: non sappiamo che riferimenti abbia fatto Mangano su Berlusconi e perché li abbia indirizzati alla consorte. Questo telegramma, come altri due, non è agli atti. C’è solo la richiesta formulata dalla procura generale al ministero di Giustizia e al Dap, e la conseguente risposta degli uffici del comando della polizia penitenziaria di Porto Azzurro.

Prima del telegramma del 26 febbraio, Mangano ne ha inviati altri due. Risalgono al 22 febbraio 1996: “Il primo indirizzato – si legge negli atti depositati dall’accusa – all’onorevole Pietro Di Muccio (all’epoca facente parte di Forza Italia), e il secondo indirizzato alla moglie, dei quali si sconosce l’eventuale inoltro”. Questi altri due telegrammi dunque non sono indirizzati a Berlusconi, come diceva Squillaci, e inoltre – come invece scritto nel documento della casa circondariale – non presentano “nessun riferimento” all’ex premier.

L’onorevole forzista.
La visita in carcere nel 1995.

Pietro Di Muccio (completamente estraneo al processo) è stato vicepresidente vicario del gruppo Forza Italia e anche componente della Commissione Affari costituzionali. Perché Mangano abbia scritto proprio a Di Muccio non lo sappiamo, e non sappiamo nemmeno il contenuto del messaggio, visto che non è presente agli atti. È certo, però, che l’1 novembre 1995, quattro mesi prima del telegramma, il deputato forzista, insieme al collega di partito Giorgio Stracquadanio, si recò nel carcere di Pianosa, dove era detenuto Mangano. A Radio Radicale (18 febbraio 1996), Stracquadanio spiega come andarono le cose: “Siamo andati nell’isola, abbiamo visitato tutta la struttura penitenziaria, abbiamo parlato con tutti i detenuti di tutte le sezioni, e abbiamo ricevuto notizie sul loro stato di salute e sulla loro condizione di detenzione. Nessun’altra domanda è stata fatta”. L’episodio è citato anche nella relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere legata alla richiesta del Tribunale di Palermo che nel marzo 1999 aveva chiesto l’arresto di Dell’Utri. “Sulla vicenda del trasferimento di Mangano Vittorio dal carcere di Pianosa – si legge nella relazione – il gip riferisce che l’11 novembre 1995 il deputato Pietro Di Muccio di Forza Italia, in visita a Pianosa, colloquiò con il Mangano e che il direttore di Pianosa, dottor Pier Paolo D’Andria, ha prima negato (‘non ha avuto colloqui’) e poi con altri fax precisato che il medesimo ‘ha avuto contatto’ con il detenuto”.

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Trattativa Stato-mafia, l’Appello atteso nel pomeriggio. Bis delle condanne, assoluzioni, una sentenza “mista”: le opzioni dei giudici. - Giuseppe Pipitone

 

Dopo tre giorni di camera di consiglio, la corte d'Assise d'Appello di Palermo emetterà la sentenza di secondo grado per Mori, De Donno, Subranni, Dell'Utri, Cinà e Bagarella. Essenzialmente le ipotesi sono tre. La prima è quella chiesta dalla pubblica accusa, cioè la conferma delle condanne di primo grado. Poi c'è l'opzione delle assoluzioni, chiesta dalle difese. Infine decisioni diverse per i due segmenti della vicenda ricostruita in quasi 10 anni di processi.

Il quesito fondamentale non è se una trattativa ci fu. A questa domanda hanno già risposto, peraltro affermativamente, magistrati di altri processi. Il reato di trattativa, però, non esiste. Neanche quando a negoziare con Cosa nostra sono uomini dello Stato. Per questo motivo la domanda fondamentale alla quale dovranno rispondere i giudici della corte d’Assise d’Appello di Palermo è un’altra: tre alti ufficiali dei carabinieri e lo storico braccio destro di Silvio Berlusconi agirono in combutta con i mafiosi, diventando di fatto i portatori delle minacce dei bossMario MoriAntonio Subranni e Giuseppe De Donno prima, Marcello Dell’Utri poi, furono la “cinghia di trasmissione” del ricatto di Cosa nostra fino al cuore dello Stato, negli anni delle bombe e delle stragi?

La sentenza attesa a partire dalle 15 – Il presidente Angelo Pellino, il giudice a latere Vittorio Anania e i sei giudici popolari ci stanno riflettendo da tre giorni. Nella tarda mattinata del 20 settembre sono entrati in camera di consiglio e ne usciranno nel pomeriggio di oggi, quando compariranno all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo per emettere la sentenza del processo d’Appello sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e le istituzioni. Dall’inizio delle indagini sono trascorsi dodici anni, nove dalla prima udienza preliminare, mentre il 20 aprile del 2018, la corte d’Assise aveva condannato quasi tutti gli imputati per violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mori e Subranni, stessa pena per Dell’Utri e per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina che fece da “postino” al papello, le richieste del capo dei capi per fare cessare le stragiOtto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017.

Una sentenza, tre ipotesi – Ora, a quasi due anni e mezzo dall’inizio del processo d’Appello, tocca ai giudici di secondo grado esprimersi. Davanti hanno essenzialmente tre strade, tutte molto complicate. La prima è quella chiesta dalla pubblica accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera: confermare in blocco tutte le condanne del primo grado. In questo caso i giudici dovrebbero basarsi sulle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza della corte d’Assise. Che, però, vanno giudicate alla luce delle varie altre prove prodotte, sia dall’accusa che dalla difesa, durante l’Appello. Il processo di secondo grado, infatti, ha visto riaprire l’istruttoria dibattimentale su richiesta della stessa pubblica accusa. Sono stati approfonditi alcuni temi, rimasti sullo sfondo della sentenza di primo grado, come il ruolo della Falange Armata, l’oscura sigla che rivendicava stragi e attentati in tutta Italia nei primi anni ’90. Nel frattempo è diventata definitiva l’assoluzione di Calogero Mannino. Secondo la ricostruzione della procura di Palermo, poi sposata dalla procura generale e pure dai giudici del primo grado, l’ex ministro della Dc è l’uomo che nella primavera del 1992 ha dato l’input ai carabinieri del Ros di aprire la trattativa con Cosa nostra. Timoroso di finire vittima della furia vendicatrice di Riina, imbufalito coi “vecchi” referenti politici incapaci di cancellare le condanne del Maxi processo, Mannino avrebbe chiesto a Subranni di aprire un canale con la piovra. A quel punto i carabinieri “agganciano” Vito Ciancimino: sarebbe praticamente il prequel della Trattativa.

Il bis delle condanne e l’assoluzione di Mannino – I condizionali, a questo punto, sono obbligatori. Dopo aver scelto di farsi processare col rito abbreviato, infatti, l’ex esponente della Dc è stato assolto in primo e secondo grado, con conferma della Cassazione. Nell’aprile del 2018, quando erano arrivate le condanne nel processo celebrato col rito ordinario, l’assoluzione di Mannino era solo di primo grado. La corte d’Assise di Palermo cercò di dribblare quella sentenza con queste parole: “Subranni ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”. Ora che si attende la sentenza di Appello, però, l’assoluzione di Mannino è stata confermata in via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri con Ciancimino, si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Seguendo questa ricostruzione i giudici definiscono la tesi dell’accusa “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

Il ruolo dei carabinieri – Per cercare di confutare queste critiche, i sostituti pg Fici e Barbera hanno depositato agli atti del processo d’Appello una complessa e dettagliata memoria. La sentenza passata in giudicato su Mannino, però, potrebbe chiaramente avere un’influenza nelle scelte della corte d’Assise. È proprio appellandosi a quella sentenza che le difese di Mori, Subranni e De Donno hanno chiesto l’assoluzione dei loro imputati: se non c’è nessuno che ha chiesto di trattare con Cosa nostra, è il ragionamento, perché alcuni alti ufficiali dei carabinieri avrebbero dovuto farsi portatori dei desiderata dei mafiosi? A che pro? Ecco perché i giudici potrebbero riformare parzialmente la sentenza di primo grado, assolvendo gli imputati per la prima parte della trattativa, cioè i tre carabinieri, che in questa situazione vedono saldati i loro destini processuali. È molto difficile, insomma, che Mori, De Donno e Subranni possano essere destinatari di sentenze diverse. Basilio Milio, legale di Mori, ha persino invocato il ne bis in idem, visto che il suo cliente è stato già assolto in via definitiva per il mancato arresto di Provenzano nel 1995: in quel caso, però, il reato era favoreggiamento aggravato. E infatti i giudici del processo di primo grado avevano poi condannato il generale del Ros, nonostante l’avvocato si fosse già allora appellato al divieto di processare due volte una persona per lo stesso reato.

Assolti e condannati: due segmenti di Trattativa – Un’eventuale assoluzione di Mori, De Donno e Mannino, però, non avrebbe per forza effetti sul protagonista di quello che è praticamente il secondo segmendo della trattativa, cioè Marcello Dell’Utri. I giudici potrebbero decidere di assolvere i carabinieri e condannare il fondatore di Forza Italia, o viceversa. Per la pubblica accusa è l’ex senatore l’uomo che tra il 1993 e il 1994 diventa il nuovo interlocutore di Cosa nostra, veicolando la pressione dei boss nei confronti del primo governo di Silvio Berlusconi. Dell’Utri è già stato condannato in via definitiva per concorso esterno, reato commesso fino al 1992: per il periodo successivo è stato assolto. Nel 2018, però, la corte d’Assise lo ha condannato per un reato diverso e cioè la violenza o minaccia ad un Corpo politico dello Stato. In pratica, secondo i giudici del primo grado, con la nascita di Forza Italia il ruolo di intermediario tra Arcore e Cosa nostra svolto da Dell’Utri “rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″. Nelle motivazioni del primo grado si considera provato che l’ex senatore ha riferito a Vittorio Mangano, l’ex stalliere di villa San Martino, “una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazine da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. La norma in questione era una modifica minima e molto tecnica – inserita nel decreto Biondi, meglio noto come “salvaladri” – di cui all’epoca non si accorsero né i giornali e neanche i ministri competenti, che aveva come obiettivo quello di modificare la custodia cautelare per i mafiosi. Di queste modifiche, sempre secondo la sentenza di primo grado, Dell’Utri informò in “anteprima” Mangano, che la riferì a sua volta ad altri mafiosi. Che cosa voleva dire tutto ciò? Per la corte d’Assise che le richieste di Cosa nostra arrivarono a Palazzo Chigi: “Anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione – scrivono – e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”.

Dell’Utri “cinghia di trasmissione” e il ruolo di B. – Una ricostruzione che, ovviamente, la difesa di Dell’Utri contesta duramente. “Dell’Utri ha trasmesso la minaccia a Silvio Berlusconi, ponendosi dalla parte della mafia e tentando di estorcere qualcosa allo stesso Presidente del Consiglio?”, è la domanda retorica che si è posto l’avvocato Francesco Centonze. Rispondendosi: “Perché la percezione della minaccia deve per forza di cose essersi tradotta in una coartazione. La minaccia era stragista e come tale doveva essere trasmessa e recepita dalla controparte, ma per la difesa non ci sono prove della sua trasmissione da Dell’Utri a Berlusconi”. Proprio per sgomberare il campo da ogni equivoco, l’avvocato di Dell’Utri aveva citato come teste l’ex presidente del consiglio. Avrebbe dovuto testimoniare a favore del suo storico braccio destro, negando di aver ricevuto alcun tipo di pressione proveniente da Cosa nostra. Una testimonianza importantissima, che pure la Corte d’Assise d’Appello definì come “decisiva” per le sorti processuali di Dell’Utri. E invece Berlusconi ha preferito rendere noto di essere ancora sotto inchiesta a Firenze per le stragi del 1993 in modo da appellarsi alla facoltà di non rispondere prevista per gli indagati di reato connesso. Miranda Ratti, consorte di Dell’Utri, non la prese bene: “E’ meglio che non dico quello che penso”.

ILFQ

mercoledì 22 settembre 2021

Bonetti ministra del tengo famiglia. Il posto ai renziani non si nega mai. Da Peradotto alla Manzione, staff zeppo di italovivi. Al costo di 600mila euro l’anno pagati dalla collettività. - Stefano Iannaccone

 

Un seguito di oltre venti collaboratori e consulenti per una spesa complessiva di circa 600mila euro. Ovviamente a carico di Palazzo Chigi. Insomma, la famiglia costa caro, specie se di mezzo c’è Elena Bonetti, ministra di Italia viva, per le Pari opportunità e la Famiglia, appunto.

AVANTI, C’è POSTO! Certo, non è il dipartimento o il ministero più costoso, ma è significativo il numero di renziani doc ricollocati nello staff con diversi ruoli. Spicca il nome del fedelissimo di Renzi, Mattia Peradotto, che nel 2020 ha firmato come tesoriere il bilancio di Italia viva, ed è stato ingaggiato come segretario particolare della ministra. La cifra complessiva è di 75mila euro all’anno, tra trattamento economico fondamentale e indennità. Inizialmente la retribuzione era più bassa di tremila euro, poi da marzo è arrivato il ritocco al rialzo.

La sua fede renziana è più che comprovata: dal 2016 al 2018 è stato al fianco di Francesco Bonifazi, tesoriere del Partito democratico durante la gestione Renzi. Immancabile, al fianco di Bonetti, la presenza di Antonella Manzione. Il suo nome è salito alla ribalta della cronaca quando nel 2014 da “dirigente comandante Polizia Municipale del Comune di Firenze”, come si legge dal suo curriculum, è balzata al vertice del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi (Dagl) di Palazzo Chigi con la benedizione di Renzi.

Nel 2017 è poi entrata nel Consiglio di Stato. Ma alla consulenza politica non si dice mai di no. Perciò, dopo essere stata consigliera giuridica (a titolo gratuito) di Teresa Bellanova al ministero delle Politiche agricole, ecco sul tavolo l’incarico di “consigliere giuridico preposto al Settore legislativo” al dipartimento della Bonetti. Questa volta per 33mila euro all’anno. Ileana Chatia Piazzoni, ex deputata, non ha conquistato un seggio in Parlamento, ma ha ottenuto una consulenza di consolazione: è a capo della Segreteria tecnica della ministra. Compenso? 50mila euro annui.

Non è lo stesso di una parlamentare, ma bisogna accontentarsi. Il capo di gabinetto, per 53mila euro, è invece un componente dell’Avvocatura dello Stato, Massimo Santoro, già capo dell’ufficio legislativo al Mef, con Pier Carlo Padoan ministro del governo Renzi. A sussurrare alla ministra ci sono (seppure per una cifra meno cospicua, 7.500 euro) i docenti Mauro Magatti, sociologo e autore di editoriali per il Corriere della Sera, e Alessandro Rosina, economista e opinionista de La Repubblica.

COMUNICAZIONE A GO GO. Da buona renziana, Bonetti è molto attenta alla comunicazione. Per questo ha assunto, come social media manager, Nicolae Galea, compagno di Alessio Di Giorgi, il grande capo della comunicazione social di Italia viva. Proprio Di Giorgi, di recente ha attaccato Giuseppe Conte sul profilo dell’ex presidente del Consiglio, confermandosi – per l’ennesima volta – un guardiano digitale di Renzi. Per Galea, intanto, sono previsti 45mila euro di emolumento accessorio. La figura al vertice dell’ufficio stampa è affidata a Roberta Leone, dipendente della Cei, con qualche trascorso in testate del mondo cattolico.

Un’altra giornalista dello staff bonettiano è poi Beatrice Rutiloni, chiamata al dipartimento in qualità di esperta, per 45mila euro all’anno, alla voce retribuzione di posizione variabile. In passato ha scritto per Democratica e unita.tv, progetti editoriali del Pd voluti da Renzi, già capo ufficio stampa di Italia viva al Senato. Per poi occuparsi di famiglia con la ministra.

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