venerdì 28 gennaio 2022

Ho visto cose… - Marco Travaglio

 

Ho visto cose che voi umani… avete visto tutti, salvo i fortunati che non guardano la tv e i giornaloni.

Ho visto il presidente del Consiglio fare le consultazioni per scegliersi il presidente della Repubblica e minacciare, tramite indiscrezioni mai smentite alla stampa amica, di prendere cappello e andarsene se non fosse eletto lui o chi piace a lui.

Ho visto Salvini rientrare al Papeete (gli porta buono) e lanciare per aria tre candidati all’ora come frisbee e scordarseli subito dopo mentre ne lancia altri (tra cui Cassese che lo dipingeva come un troglodita “fuori dalla legalità costituzionale”), confondendo il kingmaker con King Kong.

Ho visto il centrodestra candidare a capi dello Stato Berlusconi, Pera, Moratti e Nordio e poi smettere per non soffocare dal ridere, su consiglio del prof. Zangrillo.

Ho visto il terrore negli occhi dei forzisti alla sola idea che la forzista Casellati prenda voti, certamente non da loro.

Ho visto grandi elettori a forma di poltrona votare Mattarella per dire che va bene tutto tranne Draghi e grandi giornalisti a forma di lingua che li spacciavano per fan di Draghi in incognito.

Ho visto Di Maio lanciare l’ultimo sombrero sulla Belloni al grido di “lei è mia sorella”, dopo aver fatto trapelare parentele strettissime con tutti i quirinabili su piazza (una sessantina) e senza spiegare come possa un avellinese di 35 anni avere una sorella romana di 63, cosa mai vista prima se non nella famiglia Mubarak. E comunque Draghi è suo nipote.

Ho visto Letta e Renzi insieme (bella battuta già questa) inventare candidati inesistenti, Frattini e Casellati, per fingere di stopparli con la sola forza del pensiero.

Ho visto bocciare Frattini per l’unica cosa che non ha, le idee: “Non è atlantista”, infatti da ministro degli Esteri disertava i vertici europei per starsene su un atollo delle Maldive, sull’oceano sbagliato. Dunque è indianista.

Ho visto due giovani vedove di SuperMario – il rag. Cerasa e Feltri jr. – strillare e flagellarsi come prefiche per il “Draghicidio” e “l’omicidio politico alla baby gang” sol perché qualcuno minaccia di lasciare il premier a fare il premier, malgrado lo scarso rendimento fin qui dimostrato.

Ho visto il sessantaseienne Casini postare su Instagram una sua foto di diciannovenne già democristiano e rivendicare la sua “passione per la politica”, come se questo potesse giovargli.

Ho visto le migliori firme del Paese manifestare sincero stupore per avere scoperto all’improvviso che quell’affabile compagnone di Draghi, pur così empatico, non è amatissimo dai parlamentari, almeno da quelli italiani.

Non ho ancora visto il nuovo presidente della Repubblica, ma questo è un dettaglio.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/28/ho-visto-cose-3/6471327/

giovedì 27 gennaio 2022

Maria Elisabetta Alberti Casellati, la corsa a perdifiato per apparire quirinabile. Chi è la storica pretoriana di Berlusconi: dalla marcia sul tribunale alla spola con i voli blu fino alla battaglia per il suo vitalizio. - Diego Petrini

 

Se c'è qualcuno che prima di questi giorni ha creduto alla sua candidatura a capo dello Stato è lei. Tra incidenti diplomatici e incidenti veri e propri, negli ultimi 3 anni la presidente del Senato (eletta per un testacoda della Storia) ha fatto di tutto per far dimenticare le cose che ha detto e fatto nella sua "vita precedente". Ma non sempre ci è riuscita.

Una volta si guardò allo specchio e in traslucido forse le comparve Pertini. Infuriava la seconda ondata del virus, il governo contava centinaia di morti e doveva decidere di togliere alla gente – dopo i cinema, le cene fuori, le scuole – perfino il Natale. Eppure Maria Elisabetta Alberti Casellati, diventata presidente del Senato per una testacoda della Storia grazie ai voti dei 5 Stelle, scelse quel momento per assaltare il governo: insieme agli auguri di Natale impacchettò una sequela di accuse sui “troppi errori” nella lotta al virus: “E’ incomprensibile – scandì – che gli italiani non sappiano ancora come comportarsi per il Natale” e per esempio se “potere portare un augurio ad un genitore anziano, solo e magari anche malato”. In effetti era il problema di tanti: non tanto il dilemma su come organizzare la tavola, sistemare i segnaposti e contare i bicchieri per il vino, piuttosto quello di spostarsi da una città all’altra, magari con un treno o un aereo, da prenotare all’ultimo momento, spesso a prezzi da rivolta di piazza.

Un problema che la presidente durante i mesi della pandemia non aveva mai avuto: dal registro del Falcon 900 dell’Aeronautica a disposizione della seconda carica dello Stato emerse, col riverbero dei giornali tra cui il Fatto, che da maggio 2020 ad aprile 2021 Casellati usò il suo aereo blu 124 volte, cioè con la media di uno ogni tre giorni. Tre volte su 4 il tragitto era stato Roma-Venezia o all’inverso, cioè per andare o tornare da casa. In altre occasioni la meta era stata la Sardegna: no, non di dicembre, ma in pieno agosto. Lo staff della presidente spiegò che la presidente per motivi di salute (si disse alla schiena) non può sottoporsi a lunghi viaggi in auto. Lei stessa si sfogò durante una visita a Milano con gli incolpevoli Beppe Sala e Attilio Fontana: “Tutto per andare a lavorare: non c’erano treni, non c’erano aerei, questo nessuno lo dice”. Per far andare a lavorare Casellati in quegli 11 mesi l’ammontare dell’esborso pubblico è stato, secondo un calcolo di Angelo Bonelli, di un milione di euro.

Più spesso sullo specchio di Casellati è apparso invece Mattarella. Anche con imbarazzanti incidenti diplomatici come quando la presidente del Senato portò con sé in Libano la ministra Elisabetta Trenta quando invece di solito chi guida la Difesa accompagna solo il capo dello Stato. E anche con incidenti veri e propri, s’intende in macchina. Sulla strada per Vo’, in provincia di Padova, dov’era in programma la visita del presidente della Repubblica per l’inaugurazione dell’anno scolastico. Il convoglio di Casellati era in ritardo e c’era il problema che il protocollo dice che solo il capo dello Stato può essere l’ultimo a presentarsi sul luogo della cerimonia. Il corteo senatoriale tentò il sorpasso sulla diligenza quirinalizia e finì a sportellate, e non è una metafora, fu proprio una specie di autoscontro. La scorta di Casellati finì contro la scorta di Mattarella, cioè quella che precedeva il veicolo in cui si trovava il presidente. L’interruzione delle corse clandestine presidenziali fu definitiva quando sulla corsia opposta spuntò anche un pensionato con la Panda che attraversava la campagna padovana. Risultato finale: brutto quarto d’ora di confronto tra le due scorte e il pensionato in un fossato fuori strada.

Quella di questi quattro anni di Maria Elisabetta Alberti Casellati è stata sempre una corsa a perdifiato per far dimenticare ciò che ha fatto, ha detto, è stata prima dell’elezione al vertice del Senato, un lavoro matto e disperatissimo per apparire congrua al ruolo, questo di ora e – vedi mai – quello un gradino superiore. C’è qualcuno che ha sempre creduto al triplo salto con avvitamento che avrebbe portato Casellati alla presidenza della Repubblica, molto prima che se ne cominciasse a parlare in questi giorni. E quel qualcuno è lei.

Ora per forza di cose è molto difficile, tre anni e mezzo dopo la sua elezione a presidente del Senato, non ricorrere all’autoimprestito di ciò che ilfattoquotidiano.it già raccontò della storia personale della prima donna presidente del Senato, eletta – con un gioco di parole sbalorditivo, di cui il M5s dopo tutto questo tempo non si è mai pentito – a capo di una delle Camere del Parlamento che doveva essere quello della “legislatura del cambiamento”, iniziata con il governo spaccatutto – morto dopo 13 mesi – e (quasi) finita a discutere se il presidente della Repubblica lo deve fare Pierferdinando Casini, stipendiato dal Parlamento dal 1983, o appunto Casellati, la “berlusconiana più berlusconiana di tutte”, da definizione di Guido Quaranta.

Avvocata, specializzata in diritto canonico, matrimonialista, docente universitaria, fondatrice di Forza Italia, padovana, vicina a Niccolò Ghedini, più volte sottosegretaria. Altera, rigida e quindi fedele, fino alle estreme conseguenze: compresa quella di diventare la carta di Silvio Berlusconi – al quale ha votato tutta la sua vita politica – per cassare un po’ della vecchia biografia. Non più il capo di governo che si rinchiude nella cantinetta con le vallette, ma il leader di partito che ha portato una donna alla carica più elevata, la seconda dello Stato. Le toghe rosse, il colpo di Stato, la persecuzione giudiziaria, la democrazia in pericolo, la giustizia a orologeria, la “dittatura mediatica”: Maria Elisabetta Alberti Casellati ha sempre rispettato tutto il pentagramma di Forza Italia, è stata, anzi, tra i corifei che negli ultimi dieci anni, vent’anni, hanno difeso con tutto l’armamentario il capo assoluto davanti a qualsiasi intemperia.

Con le parole: nel 2011 Dagospia raccontava che in tre anni la Casellati, allora sottosegretaria alla Giustizia, aveva cambiato 26 addetti stampa, alcuni scartati e altri fuggiti perché non riuscivano a stare dietro “all’ansia da prestazione mediatica”. Una pratica – il tiro a volo con i collaboratori – che in questi dieci anni, dopo il tramonto al rallenti di Berlusconi e la sua ascesa allo scranno più alto di Palazzo Madama, Casellati non ha mai abbandonato, come ha raccontato di nuovo pochi mesi fa Salvatore Merlo sul Foglio. Ma ha protetto il suo capo anche con le sue opere: fu sostenitrice e qualcuno dice collaboratrice fattiva del ddl sul processo breve – governo Berlusconi IV, ministro Alfano – che avrebbe cancellato una montagna di processi e tra questi, per coincidenza, quelli su Mills e Mediaset. Un po’ dopo, all’inizio dell’altra legislatura del cambiamento, cinque anni fa, fu tra i 150 parlamentari del Popolo delle Libertà che marciarono sul tribunale di Milano contro la celebrazione del processo Ruby. “Quando Berlusconi ha incontrato Mubarak prima di questo episodio – andò a dire in tv – pare che sia venuto fuori da alcune testimonianze che proprio nell’incontro Mubarak aveva parlato di questa sua nipote, ed era un incontro ufficiale”.

Insieme ad altre colleghe senatrici si vestì completamente di nero nella seduta del Senato del 27 novembre 2013: era in calendario il voto per la decadenza di Berlusconi da senatore, cioè il giorno del “lutto per la democrazia” spiegarono. Per lei Berlusconi, anche dopo la sentenza in Cassazione, era innocente “e gli italiani lo sanno”. Gli altri, quelli che votavano a favore della decadenza, erano un “plotone di esecuzione“. Berlusconi non sbaglia mai: Cruciani la intervistò durante una vecchia edizione della Zanzara e lei rispose di non aver mai sentito l’ex premier raccontare una sola barzelletta oscena, cioè la terza o quarta cosa per cui Berlusconi è famoso. “Ma come, non sa quella della mela?”, che Berlusconi aveva raccontato durante una riunione a Palazzo Grazioli e la cui trasposizione in video era finita su cento siti. Lei spinse il solito tasto play: “Ciò che si fa in privato…” eccetera.

Una donna che pensa alle donne, provò a convincere nel suo discorso di insediamento. La sua storia dice che è favorevole alla riapertura delle case chiuse, che firmò una proposta di leggere per abolire la legge 194 sull’aborto, che disse che il via libera alla pillola abortiva Ru486 “strizza l’occhio alla cultura della morte”. Una volta Berlusconi disse che cancellare gli stupri dall’elenco dei reati era una missione impossibile ”anche in uno Stato poliziesco” e che l’unica sarebbe stata mettere un soldato accanto “a ogni bella ragazza”. Molte si indignarono, lei no: piuttosto “l’emergenza sicurezza in Italia è figlia del lassismo del centrosinistra”. Di sicuro pensò alle donne di famiglia, però: quando lavorò al ministero della Salute, scelse proprio la figlia Ludovica come capo della sua segreteria, una storia che è stata raccontata più volte e che le Casellati hanno cercato di scrollarsi di dosso in questi (parecchi) anni.

Nell’altra vita piantò anche un casino perché aveva da ridire “sugli altissimi meriti sociali” per i quali il presidente Giorgio Napolitano nominò senatori a vita la scienziata Elena Cattaneo, l’architetto Renzo Piano, il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia e il direttore d’orchestra Claudio Abbado, acclamato in tutti i teatri del mondo. Per una madre di direttore d’orchestra (Alvise Casellati) non capire i meriti di Abbado potrebbe portare qualche problema magari non al Quirinale, ma di sicuro in famiglia.

Nella seconda vita, quella più austera del vertice delle istituzioni, il ruolo e le ambizioni malcelate le hanno imposto una posizione subito sotto al pelo dell’acqua e un po’ di smussatura delle sue uscite pubbliche: tutte le Prime alla Scala, molti concerti nell’emiciclo di Palazzo Madama (struggente il suo trasporto per Amedeo Minghi all’acme di Trottolino-amoroso, dudu-dadadà), corone d’alloro, tricolori, galà, ricevimenti in ambasciate, istituti italiani di cultura, associazioni di solidarietà. Nei suoi tour (compiuti anche via terra) ha ricevuto una invidiabile collezione di premi. Ci si limita qui per comodità alla lista verbalizzata da Wikipedia: premio Calabria nel mondo, premio Excellent 2019, Aquila di San Venceslao, Testimone del volontariato Italia, Aquila d’Oro 2019.

Casellati non disdegna anche altri riconoscimenti, più di sostanza. Il vitalizio, per dire. Come raccontò sul Fatto Ilaria Proietti, quando nel 2014 fu eletta al Csm l’amministrazione del Senato sospese l’assegno mensile perché pareva cosa giusta che una ex senatrice che sta al Consiglio superiore della magistratura non aggiunga anche la pensione da parlamentare. A lei questa cosa non è piaciuta e ha fatto partire la mitraglietta delle carte bollate per recuperare i tre anni di arretrati. Alla fine gli organi di giustizia interna del Senato, quando lei già era diventata presidente di quella Camera, le ha dato ragione. La cifra è sempre rimasta un mistero, ma si calcola che corrisponda a circa 200mila euro.

Gli avvocati non bastano, invece, quando c’è da presiedere l’Aula, che non è un lavoro per tutti perché necessita di nervi saldi, prontezza e qualche dose di ironia. Invece da lassù per Casellati sembra tutto un po’ più difficile. Gettò tutto il suo aplomb nel cestino – eufemismo – perché i commessi del Senato non riuscivano a fermare un leghista che faceva video con il cellulare. “Siete qui come pupazzi, per Dio!” strillò a microfono aperto, invocando l’Onnipotente da buona cattolica ma anche da buona veneta. Un’altra volta invece il Pd chiese di discutere della vicenda dei presunti fondi russi alla Lega sulla quale indagava la magistratura (e tuttora lo sta facendo), ma la presidente dichiarò inammissibili le tre interrogazioni, tanto da non pubblicarle nemmeno. “Il Senato non può essere il luogo del dibattito che riguarda pettegolezzi giornalistici” tirò via Casellati. Tutti gli sforzi per cambiare per effetto del ruolo che ricopre si sono infranti spesso in certe “irritualità“, come quando ha votato – cosa che da prassi un presidente non fa – sul caso Gregoretti, ovviamente insieme al resto del centrodestra. Quando vede Salvini lo scivolone è sempre dietro l’angolo. “Prego presidente” lo apostrofò in Aula nonostante Salvini non sia presidente di niente, tra i pochi in Italia.

Il leader della Lega se la prese di più quando lo invitò a concludere il suo intervento sulla (non) fiducia al governo Conte 2: “Senatore Casini concluda per cortesia”. Tutti i senatori della Lega reagirono come se fossero stati presi a male parole. Lei rise molto, lui un po’ ma volle precisare: “No, Casini no! Casini no!”. L’interessato non rispose. Poco prima aveva detto: “Mi rivolgo ai colleghi dei 5 Stelle: chi l’avrebbe detto che avremmo condiviso assieme questa esperienza? La prima volta che ci siamo visti ci guardavamo in cagnesco e adesso votiamo insieme“.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/01/26/maria-elisabetta-alberti-casellati-la-corsa-a-perdifiato-per-apparire-quirinabile-chi-e-la-storica-pretoriana-di-berlusconi-dalla-marcia-sul-tribunale-alla-spola-con-i-voli-blu-fino-alla-battaglia/6469383/

mercoledì 26 gennaio 2022

Michele Ainis: “Se Draghi va al Quirinale si rischia un cortocircuito”. - Silvia Truzzi

 

IL COSTITUZIONALISTA - “Nel vuoto delle norme, il premier non dovrebbe scegliersi il successore”.

C’è la politica. E poi ci sono le regole, dentro cui la politica si dovrebbe muovere, anche se pare che il perimetro delle manovre sia più quello delle eccezioni. I partiti sembrano arresi agli scatoloni del presidente Mattarella, e dunque si ragiona – al di là delle rose più o meno sfiorite – attorno al nome di Mario Draghi. Ipotesi che pone problemi di “igiene costituzionale”. Su Repubblica Michele Ainis, costituzionalista di Roma Tre, ne ha analizzato uno, che riguarda la successione a Palazzo Chigi.

Professore, secondo una legge del 1988, in caso di impedimento temporaneo del presidente del Consiglio la supplenza spetta, in mancanza di diversa disposizione da parte del premier, al ministro più anziano. È il momento di Brunetta? O deciderà Draghi?

La stanza dei bottoni deve sempre avere una guida. La legge disciplina l’impedimento temporaneo, ma se Draghi si dimette perché eletto – non può assumere entrambe le cariche contemporaneamente – sarebbe un impedimento definitivo. Possiamo applicare per analogia la regola che lei ha citato. Ma qui tutto non torna. Per ragioni sistemiche: il presidente del Consiglio non può revocare i ministri e quindi non può nemmeno designare il suo successore come premier. Si introduce un elemento di personalizzazione del potere che ci fa rimbalzare all’antica Roma, quando l’imperatore sceglieva il suo successore. C’è una lacuna enorme.

Le consultazioni le farebbe Mattarella?

Anche qui c’è un problema. La Costituzione prevede l’ipotesi di proroga o supplenza del presidente della Repubblica. La proroga è prevista nel caso in cui le Camere siano sciolte e la supplenza in caso di impedimento temporaneo o permanente. Io penso che sia preferibile la proroga, perché non vedo l’impedimento personale del presidente.

Però anche la proroga è tipizzata: si può estendere per analogia?

È vero. In ogni caso, le consultazioni le farà il nuovo presidente della Repubblica: sarebbe, da parte di Mattarella, uno sgarbo costituzionale sottrarre al suo successore il potere di dirimere la crisi di governo.

Ci potremmo trovare in una situazione di questo tipo: Draghi va al Colle, sceglie il suo successore per la supplenza, sempre lui – sentiti i partiti – individua il premier incaricato. Un cortocircuito costituzionale?

Sì, formalmente è possibile. Ma lo ritengo improbabile: è vietato sposarsi con se stessi! Come sarebbe una scorrettezza da parte di Mattarella sottrarre al nuovo presidente il potere di fare il nuovo governo, così sarebbe una scorrettezza da parte di Draghi scavalcare l’automatismo della supplenza del ministro più anziano, scegliendosi il successore.

Sono comunque molti poteri in capo a una persona sola…

Siccome non era mai accaduto, si pensava non potesse accadere: nessuno ha pensato di disciplinare l’eventualità.

Si fanno nomi di premier tecnici. La politica non si sente molto bene…

Bisogna capirsi: se per tecnico intendiamo solo chi non appartiene ai partiti, abbiamo una brutta idea della politica. L’articolo 49 della Carta dice che i partiti “concorrono” a determinare la vita politica del Paese. Fa politica chi si occupa della polis. Comunque, il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale: è più facile per i cittadini riconoscersi in una persona che non ha indossato per 50 anni la maglia di un partito.

Draghi al Quirinale a guidare da fuori, un Parlamento dove quasi non c’è l’opposizione: i contrappesi sono saltati?

In parte è vero. Tutto dipende dalla debolezza della politica. E quando la politica è fragile, il presidente è forte. Perciò la scelta del presidente è la scelta di un uomo forte in un habitat politico spossato. Il Parlamento è senza maggioranze, composto com’è da una maggioranza di minoranze: come si diceva una volta, la situazione è balcanizzata. La forza della candidatura di Draghi dipende dalla debolezza delle alternative.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/26/se-draghi-va-al-quirinale-si-rischia-un-cortocircuito/6468631/

Specie protetta. - Marco Travaglio

 

Da quando è nato, ci si domanda a che serve il Pd (oltre che a perdere tutte le elezioni e a entrare in quasi tutti i governi). Ieri, dopo anni di sforzi, è arrivata la risposta di Enrico Letta, di quelle che scaldano il cuore al popolo della sinistra: “Il mio ruolo è proteggere Mario Draghi”. Vasto programma, come disse De Gaulle a quel tale che urlava “A morte tutti i coglioni!”. E noi già immaginiamo la ola degli elettori Pd, come già l’altra sera, quando il “giovane Letta” (per distinguerlo dallo zio) ha annunciato da Fazio un’altra lieta novella: “Parlerò con Salvini di Draghi e del Mattarella bis, che sarebbe l’ideale”. Soprattutto per un politico di 55 anni che sembra lo zio dello zio. Ieri poi ha sfiorato la standing ovation bocciando Frattini in tandem con Renzi (molto amato dalla base): ma non perché è il cameriere di B. che gli tagliò su misura la legge-farsa sul conflitto d’interessi; bensì perché non è abbastanza “atlantista” per spezzare le reni a Putin in Ucraina, dove gli eserciti restano in surplace in attesa di un cenno dal Quirinale. Il fatto che Frattini non l’avesse candidato nessuno aggiunge un tocco di surrealismo alla gag di due leader che, per dimostrare la loro esistenza, bocciano un candidato inesistente.

Resta da capire da chi o da cosa Letta voglia proteggere Draghi, facendogli scudo col suo gracile corpicino. Possibile mai che un supereroe come SuperMario, già Salvatore dell’Euro e poi della Patria, Capo dell’Ue post-Merkel, necessiti della protezione di uno che si fece fregare da un tweet di Renzi? Se Letta sperava di rafforzarlo, è riuscito a indebolirlo più ancora di quanto non si fosse già indebolito da solo. Perché l’unico nemico da cui Draghi va protetto è se stesso. Con buona pace di giornaloni, talk e maratone, che raccontano un mondo dragocentrico e furioso contro la politica puzzona “in stallo” perché non ha eletto nessuno nei primi due round (come in 10 elezioni quirinalizie su 12). Peraltro, se non s’è ancora trovato un accordo, è perché – per la prima volta nella storia – due egolatri si sono autocandidati al Colle a dispetto dei santi, delle regole e dei numeri: B., lanciato dal centrodestra il 14 gennaio e tramontato il 22; e Draghi, che si è lanciato il 24 dicembre, ma nel vuoto, visto che nessuno lo ha raccolto, e ora sta per schiantarsi al suolo col suo prestigio, la sua maggioranza, il suo governo e un bel pezzo dell’Italia senza che gli passi per l’anticamera del cervello di prender atto che nessuno lo vuole al Quirinale (neppure gli amici dell’Economist e gli amati “mercati”), riporre ambizioni e capricci, smettere di usare il piedistallo di Palazzo Chigi per farsi campagna elettorale a urne aperte e rassegnarsi a fare ciò per cui Mattarella lo chiamò un anno fa: governare, se ci riesce.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/26/specie-protetta/6468615/

Putin, 'Italia tra i nostri principali partner economici'.

Vladimir Putin - Foto ansa

 

Partecipano 16 imprese italiane, 3 rinunciano all'incontro.

La Russia considera l'Italia come "uno dei suoi principali partner economici".

Lo ha detto il presidente Vladimir Putin, che oggi incontra online una delegazione di grandi gruppi industriali italiani.

La Russia, ha aggiunto il presidente, è "un affidabile fornitore di risorse energetiche ai consumatori italiani". 

Parlando all'incontro con gli imprenditori italiani, Putin ha sottolineato che l'Italia è il terzo Paese europeo per interscambio commerciale con la Russia. Durante il periodo della pandemia, ha aggiunto, la situazione non ha permesso di realizzare nuovi progetti e iniziative, ma "possiamo dire con soddisfazione che i nostri Paesi sono riusciti a mantenere la cooperazione economica ad un livello piuttosto alto".

Putin, gas russo all'Italia a prezzi inferiori al mercato. Le compagnie energetiche italiane stanno ricevendo gas russo a "prezzi molto più bassi di quelli di mercato" grazie ai contratti a lunga scadenza con Gazprom. Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin parlando all'incontro online con i rappresentanti di grandi imprese italiane. I prezzi di mercato, sulla base di contratti spot, sono invece "significativamente aumentati per la stagione invernale e la carenza di offerta", ha aggiunto Putin secondo quanto riporta la Tass. 

Sedici rappresentanti di grandi imprese italiane partecipano oggi all'incontro online con il presidente russo Vladimir Putin. Lo ha annunciato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. 

Sono invece  tre i rappresentanti di gruppi industriali italiani che hanno rinunciato ad essere presenti ad un incontro online oggi con il presidente russo Vladimir Putin. Lo ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aggiungendo che 16 saranno invece i partecipanti. Il portavoce non ha detto quali imprese saranno rappresentate. "Non voglio nominarle - ha affermato Peskov - visto che stanno circolando fake news e qualcuno sta facendo pressioni su qualcun altro".   

"Gli investimenti delle imprese italiane nell'economia russa sono pari a circa 5 miliardi di dollari, mentre quelli russi in Italia sono stimati a circa 3 miliardi di dollari". Lo ha sottolineato oggi il presidente russo Vladimir Putin, citato dall'agenzia Tass, incontrando una delegazione di grandi gruppi industriali italiani. Putin ha aggiunto che la piattaforma italo-russa per gli investimenti che deve finanziare i più importanti progetti congiunti, costituita con la partecipazione del Fondo russo per gli investimenti diretti, sta operando in modo "molto efficiente". 

https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2022/01/26/putin-italia-tra-i-nostri-principali-partner-economici-_3db184ce-6b1f-451a-beae-5211c9991607.html

martedì 25 gennaio 2022

Bonus casa, c’è il mercato nero: alt alle società che riciclano i crediti. - Ivan Cimmarusti


Proliferano su web e social le attività che promettono monetizzazioni veloci e spesso sono utilizzate per riciclare il denaro sporco. In criptovalute.

Ripetuti contratti di cessione dei crediti d’imposta tra gli stessi soggetti, comprati a prezzo pieno ma rivenduti a valori più bassi. Fondi poi trasferiti all’estero o finiti nell’acquisto di criptovalute. Nei dossier dell’Antiriciclaggio è registrato il meccanismo attraverso cui le mafie sfruttano i bonus varati dal Governo, allo scopo di riciclare i proventi miliardari dei traffici di droga. Un dossier finito all’attenzione della presidenza del Consiglio, che nel decreto legge di venerdì recante misure urgenti in materia di sostegno alle imprese ha disposto il divieto di plurime cessioni dei crediti.


Monetizzazioni veloci sul web.

La circostanza è al centro degli accertamenti della Guardia di finanza, dopo che le attività investigative degli ultimi mesi hanno confermato i rischi di frode e riciclaggio segnalati con le comunicazioni del 10 novembre 2020 e dell’11 febbraio 2021 dell’Uif, l’ente antiriciclaggio di Bankitalia diretto da Claudio Clemente.

L’alert è scattato con il moltiplicarsi di società di nuova costituzione che, attraverso siti web e banner sui social network, pubblicizzano «monetizzazioni veloci dei crediti d’imposta per bonus edili».

Abbiamo provato ad analizzare nelle banche dati alcune di queste società, scoprendo che in molti casi, oltre ad essere state aperte in tempi recenti, presentano capitali sociali per pochissime migliaia di euro. In alcuni casi più società, in apparenza slegate tra loro, risultano controllate da unici soggetti giuridici.

Un business concepito per aiutare le attività edilizie attraverso la circolarità dei crediti fa gola, insomma, anche a queste infiltrazioni criminali.

Lo schema: le fatture false.

A monte dello schema di riciclaggio c’è un giro di fatture false per infarcire le casse di queste società finanziarie neo-costituite con soldi sporchi. Miliardi di euro messi sulla piazza con un obiettivo: fare man bassa di crediti d’imposta, anche a prezzi vantaggiosi. Il risultato è un «sistema» di lavaggio prolungato dei capitali d’origine mafiosa che poi, attraverso ulteriori fatture false, ritornano immacolati nelle mani delle cosche, soprattutto di 'ndrangheta e camorra.

Cessioni a «catena».

Il rischio che le organizzazioni mafiose sfruttino il meccanismo di acquisto-cessione dei crediti d’imposta connessi ai bonus ordinari e al superbonus è concreto ed emerge dalle circolari che il III Reparto operazioni delle Fiamme gialle, al comando del generale Giuseppe Arbore, ha diramato alle articolazioni territoriali del Corpo. Nelle circolari si precisa che «il rischio di condotte illecite è confermato dalle attività investigative e di analisi, che hanno fatto emergere cessioni “a catena” di crediti d’imposta che coinvolgono imprese con la medesima sede e con gli stessi legali rappresentanti, costituite in un breve arco temporale o che hanno ripreso a operare dopo un periodo di inattività».

I dossier di analisi dell’Antiriciclaggio indicano diverse anomalie: «rapporti alimentati in via esclusiva o prevalente dal corrispettivo di contratti di cessione di crediti fiscali» e «stipula di ripetuti contratti di cessione di crediti fiscali o di rami d’azienda costituiti in via pressoché esclusiva da detti crediti, spesso nella medesima giornata e con la ricorrenza dei medesimi soggetti».

Ma i rapporti di analisi vanno anche oltre: risultano «anomalie concernenti il coinvolgimento di professionisti, le condizioni economiche pattuite per la cessione del credito fiscale (prezzo notevolmente inferiore al valore nominale del credito, modalità di riscossione del prezzo particolarmente vantaggiose per il cessionario) o l’impiego del corrispettivo da essa derivante (bonifici verso l’estero, trasferimenti in favore di soggetti collegati, operazioni inerenti all’acquisto di valute virtuali)».

La misura del Governo.

Con decreto legge, il Governo è intervenuto per bloccare frodi e forme di riciclaggio, attraverso la modifica dell’articolo 121 del decreto Rilancio sulle plurime cessioni dei crediti d’imposta. In particolare, è ora possibile cedere il credito solo una volta, così da raggiungere un duplice obbiettivo: da una parte, evitare che più cessioni dei crediti vadano a mascherare le operazioni di false fatturazioni per lavori edili mai compiuti; dall’altra, arginare il rischio che finanziarie connesse ad ambienti mafiosi possano acquistare i crediti con soldi sporchi e poi rivenderli ulteriormente per riciclare i capitali illeciti.

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Fumata nera: non potevano pensarci prima? - Antonio Padellaro

 

Di fronte alla pioggia di schede bianche e fumate nere del primo scrutinio che rischia di trasformarsi in una grandinata domani e forse anche dopo. Di fronte ai leader che brancolano nel buio, con tutti che incontrano tutti in un vertiginoso e incomprensibile moto perpetuo. Di fronte al rosario di insopportabili dichiarazioni degli addetti ai lavori, che in tv discettano di “metodo”, di “sensibilità”, di “profili”, senza farci capire nulla, una domanda sorge spontanea: ma non potevano pensarci prima? Che la corsa verso il Colle sarebbe stata irta di ostacoli, di veti e di imprevisti lo avevano capito tutti già un mese fa nella famosa conferenza stampa di Mario Draghi.

Quella del “nonno a disposizione delle istituzioni”, e quindi del Quirinale. Quella che denotava una certa insofferenza da parte del premier per le crescenti tensioni nella maggioranza di unità nazionale, ma solo di facciata. Eppure per più di un mese non è successo niente di niente, a parte il solito chiacchiericcio sul giornali e nei talk per raccattare un titolo, per accendere una polemicuzza. Dozzine di nomi candidabili gettati al vento per mascherare il vuoto decisionale della politica. Fino alla farsa di un signore anziano e non più lucidissimo che si fa candidare da un centrodestra a dir poco riluttante, ma che insiste perché lui l’aveva promesso alla mamma che sarebbe arrivato al Quirinale. È finita come tutti sapevano come sarebbe finita e che infatti tutti hanno usato come un alibi dietro cui nascondersi. Di fronte a un tale colpevole spreco di tempo. Di fronte alla liturgia di voti perduti o consumati su nomi improbabili c’è un’altra domanda che sorge spontanea e che riguarda la stragrande maggioranza dei cittadini. Quelli che immersi da due lunghissimi anni nella nebbia avvelenata della pandemia, invece il tempo non lo hanno mai perso o gettato al vento. Quando sono corsi a vaccinarsi per tre volte consecutive. Ligi alla dura disciplina dei green pass normali e super. Sempre disponibili a osservare la massa di regole incessantemente prodotte dalla macchina governativa, anche le più cervellotiche. Cosa si chiedeva in cambio? Che coloro che si sono assunti la responsabilità di guidare la comunità nazionale dessero in un Parlamento riunito in seduta solenne, e immediatamente, un segnale di serietà, di coesione, dimostrando attenzione al bene comune sempre tanto sbandierato. Ed ecco la domanda: ieri sera costoro non hanno provato un po’ di vergogna?

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