Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
mercoledì 13 aprile 2022
QUANDO SI POTEVANO BOMBARDARE IN SANTA PACE LE CITTA' . - Gioacchino Musumeci.
martedì 12 aprile 2022
L’Est nella Nato. A suo tempo Mosca ha subìto. Ora ha la forza per reagire. - Alessandro Orsini
Molti ritengono che l’espansione della Nato non abbia niente a che vedere con la decisione di Putin di invadere l’Ucraina e, infatti, dicono: “Perché la Russia non si oppose all’ingresso della Nato dei Paesi un tempo membri del Patto di Varsavia?”. La risposta è semplice: perché, negli anni Novanta, la Russia si trovò senza forze per lottare. La Russia ha pagato un prezzo enorme per la sua debolezza anche in Serbia, dove non riuscì a difendere il suo alleato fraterno – tale era Belgrado – dalle bombe della Nato. Come avrebbe mai potuto?
Crollata l’Unione Sovietica, la Federazione Russa precipitò in una crisi talmente grave che molti osservatori dell’epoca temettero addirittura che lo Stato russo si sarebbe dissolto. Eltsin, affiancato da un gruppo di riformisti inesperti, come Egor Gajdar e Viktor Chernomyrdin, e da consiglieri del Fondo Monetario Internazionale, si lanciò in una campagna di riforme liberiste dalle conseguenze negative. Ad arricchirsi fu soprattutto una minoranza di beneficiati, i cosiddetti “oligarchi”, mentre la corruzione e l’inefficienza dilagavano dappertutto. Pensionati, operai, militari, scivolavano nella povertà, entrando in contrasto stridente con i pochi che si abbandonavano a uno ostentato consumismo occidentale. Tra il 1992 e il 1993 la crescita del debito estero della Russia fu smisurata, i prezzi aumentarono di 22 volte e i salari di 10. Il Pil russo crollava insieme con la produzione industriale. Il tenore di vita peggiorò secondo i principali indicatori; la mortalità aumentò e le aspettative di vita si abbassarono; la popolazione si contrasse anche a causa del processo di emigrazione che investì soprattutto i lavoratori molto qualificati. A partire dall’estate 1998, la crisi economica e finanziaria si aggravò tragicamente. Il governo, allora guidato da Sergey Kiriyenko, e la Banca Centrale, svalutarono il rublo e non furono più in grado di rimborsare il debito sovrano. Il governo russo, ad agosto, fece default sul proprio debito. La Russia non aveva le forze per contrapporsi all’Occidente in Serbia e nemmeno all’espansione della Nato. Tra le numerose cause che portarono al default, bisogna ricordare anche l’estenuante guerra in Cecenia. È in questo momento di debolezza della Russia che Madaleine Albright, nominata da Clinton Segretaria di Stato americana (1997-2001), progettò di inglobare i Paesi del Patto di Varsavia nella Nato. La procedura per l’ingresso nella Nato di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, fu avviata nel 1997 e portata a termine nel 1999.
Come avrebbe potuto Mosca attaccare la Nato in Serbia avendo un bisogno disperato dei prestiti dell’Occidente? Eppure le tensioni non mancarono. Pochi ricordano la crisi dell’aeroporto di Pristina nel 1999 in Kosovo. Per comprendere la rabbia di Putin, bisogna ricordare anche un altro fatto, avvenuto nel 1999, vale a dire l’approvazione dello Strategic Concept, un documento approvato a Washington il 24 aprile 1999, che ampliava le aree in cui la Nato si riteneva legittimata a intervenire (nome per esteso The Alliance’s New Strategic Concept). A partire dal 1949, quelle aree erano state: l’Europa, l’Atlantico settentrionale e l’America del Nord. Ma il New Strategic Concept stabiliva che la Nato sarebbe stata legittimata a intervenire anche out of area, cioè in tutto il mondo e, quindi, anche nelle regioni sotto l’influenza della Russia, come la Serbia. Nessuno si illuda: alla Russia l’espansione della Nato non è mai piaciuta. Ora che ha le forze, Putin la contrasta.
Gas, Italia e Algeria firmano l’intesa per aumentare le forniture di gas. Fino a nove miliardi di metri cubi in più all’anno. -
"Avevo annunciato che l’Italia si sarebbe mossa con rapidità per ridurre la dipendenza dal gas russo. Gli accordi di oggi sono una risposta significativa a questo obiettivo strategico, ne seguiranno altre", ha spiegato il presidente del Consiglio. L'intesa aiuta ma non è risolutiva. Il Paese oggi è il secondo fornitore dell'Italia con circa 21 miliardi di metri cubi di gas l'anno.
La missione di Mario Draghi e Luigi Di Maio ad Algeri finisce con la firma di una “dichiarazione d’intenti sulla cooperazione bilaterale nel settore dell’energia” ma soprattutto, ed è quel che più conta, di un accordo tra Eni e la compagnia statale algerina Sonatrach per aumentare le esportazioni di gas verso l’Italia. Il Paese, che oggi è il secondo fornitore dell’Italia dietro la Russia con circa 21 miliardi di metri cubi venduti ogni anno, ne fornirà “gradualmente” attraverso il gasdotto TransMed che approda a Mazara del Vallo una quantità maggiore, fino ad arrivare a 9 miliardi in più nel 2023-24. L’obiettivo del viaggio del premier e del ministro degli Esteri era liberarsi, il più rapidamente possibile, dal gas di Mosca smettendo così di finanziare indirettamente l’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin. E mettere in sicurezza le forniture, per non trovarsi spiazzati – e costretti a razionamenti – il prossimo inverno. L’intesa da questo punto di vista aiuta ma non è risolutiva, visto che l’incremento non sarà immediato.
“Aumentare le forniture richiede tempo”, aveva spiegato a Ilfattoquotidiano.it Nicola Pedde, direttore di Institute for Global Studies, lo scorso 24 marzo sottolineando che realisticamente Algeri potrebbe aumentare il gas inviato in Italia di 2-3 miliardi di metri cubi nel giro di poco tempo e di altri 4-5 miliardi nel giro di 5 anni. In ogni caso non una soluzione miracolosa non immediata né sufficiente per colmare un’ipotetica interruzione dei flussi russi. Il viaggio ad Algeri è comunque il primo di una serie nell’agenda del premier delle prossime settimane, per accelerare al massimo la diversificazione delle fonti di approvvigionamento: dopo Pasqua potrebbe essere la volta del Congo, seguito da Angola e Mozambico. Paesi con cui l’Italia intende “rafforzare la cooperazione energetica” come ha ribadito Di Maio, che ha già fatto tappa anche in Qatar e Azerbaijan per preparare il terreno di nuove intese. “Subito dopo l’invasione dell’Ucraina, avevo annunciato che l’Italia si sarebbe mossa con rapidità per ridurre la dipendenza dal gas russo. Gli accordi di oggi sono una risposta significativa a questo obiettivo strategico, ne seguiranno altre“, ha commentato non a caso il presidente del Consiglio aggiungendo che “il governo vuole difendere i cittadini e le imprese dalle conseguenze del conflitto“.
Presentando il piano strategico di Eni, l’ad Claudio Descalzi aveva calcolato in 9-11 miliardi di metri cubi le forniture aggiuntive che potrebbero arrivare da Algeria e Libia già entro il prossimo inverno. In media, come ha ricordato più volte il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani – in delegazione ad Algeri con il premier e Di Maio – importiamo dalla Russia circa 29 miliardi di metri cubi di gas che potrebbero essere ridotti velocemente di circa un terzo grazie alla collaborazione tra Eni e l’algerina Sonatrach. L’intesa tra le due società passerà anche per investimenti nelle infrastrutture, per potenziare l’estrazione nei giacimenti attivi e per accelerare lo sviluppo dei nuovi progetti, come quello annunciato a marzo nell’area Berkine Sud per olio e gas.
Va inoltre considerato che, al di là delle pressioni di Mosca sull’Algeria, l’intesa – come aveva spiegato Pedde – è appesa anche alla “instabilità interna” del Paese. “C’è una grave frattura tra la classe dirigente, ancora espressione di quella andata al potere nel 1962 e il resto della società che rischia di rendere molto inverta la situazione dei prossimi anni – afferma il direttore dell’Institute for Global Studies – I paesi Ue, che nel Mediterraneo pianificano molto ma fanno poco in concreto, dovrebbero intervenire per puntellare economicamente questi Paesi e cercare di stabilizzarli. In questo momento, un’altra crisi non saremmo davvero in grado di gestirla.
Colpa di Putin o errore della Nato? Il ruolo americano nella guerra in Ucraina. - Ugo Tramballi
Mettiamo a confronto due testi opposti, entrambi interessanti, di due esperti americani molto autorevoli: John Mearsheimer, scienziato della politica all’Università di Chicago e Robert Kagan, storico della diplomazia ed esperto alla Brookings Institution di Washington.
Se sia tutta colpa degli Stati Uniti; se Vladimir Putin sia una vittima della Nato o invece in preda a incontrollabili ambizioni imperiali da XIX secolo – dibattito che in Italia ha assunto la forma di un derby calcistico – è un confronto che esiste da anni, da molto prima della guerra.
L’aggressione russa e le distruzioni in Ucraina lo hanno solo accelerato: il comportamento Usa è stato una provocazione, forse una trappola, oppure Putin ha sbagliato tutto da solo?
Nel tentativo di dare un contributo alla conversazione metto a confronto due testi opposti, entrambi interessanti, di due esperti americani molto autorevoli: John Mearsheimer, scienziato della politica all’Università di Chicago e Robert Kagan, storico della diplomazia ed esperto alla Brookings Institution di Washington.
La tesi di Mearsheimer.
Mearsheimer è sempre stato molto critico riguardo alla Nato; Kagan può essere considerato un atlantista. I due testi che prendo in esame insieme perché credo siano di grande importanza per comprendere il ruolo dell’America, non sono uno la risposta all’altro: quello di Mearsheimer è apparso su The Economist il 19 marzo ; il testo di Kagan uscirà sul numero di maggio di Foreign Affairs. «L’Occidente, e specialmente l’America, è principalmente responsabile della crisi incominciata nel febbraio 2014», afferma il professore di Chicago, riferendosi alla rivoluzione di Maidan, a Kyiv, «sostenuta dall’America». Crisi «diventata ora una guerra che non solo minaccia di distruggere l’Ucraina ma ha il potenziale di degenerare in una guerra nucleare fra Russia e Nato». Allora la strategia Usa era di «portare l’Ucraina più vicina alla Ue e farne una democrazia pro-americana», ignorando le linee rosse di Mosca.
Anche se è dal 2008, vertice di Bucharest, che l’Occidente non parla di ammissione nell’Alleanza Atlantica, Mearsheimer sostiene che l’«Ucraina stava diventando di fatto un membro della Nato». E quando l’amministrazione Trump vendette «armi difensive» a Kyiv, a fine 2017, quella decisione «sembrò certamente offensiva per Mosca e i suoi alleati nel Donbas». Dopo avere inutilmente richiesto una garanzia scritta che l’Ucraina non sarebbe mai entrata nella Nato, «Putin ha lanciato un’invasione per eliminare la minaccia che vedeva».
Perché “«la questione non è cosa dicono i leader occidentali sui propositi o le intenzioni della Nato: è come Mosca vede le azioni della Nato». La conclusione di Mearsheimer è che «la politica occidentale stia esacerbando» i rischi di un conflitto allargato. Per i russi l’Ucraina non è tanto importante perché ostacola le loro ambizioni imperiali: un suo distacco dalla sfera d’influenza di Mosca è «una minaccia diretta al futuro della Russia».
La tesi di Kagan.
Neanche Robert Kagan nega le responsabilità americane: «Per quanto sia osceno incolpare gli Stati Uniti per il disumano attacco di Putin, insistere che l’invasione non fosse del tutto provocata, è ingannevole». La ragione è che gli eventi di oggi «stanno accadendo in un contesto storico e geopolitico nel quale gli Usa hanno giocato e continuano a giocare il ruolo principale». Come l’attacco giapponese a Pearl Harbour del 1941 e l’11 Settembre: non ci sarebbero stati se l’America non fosse stata la potenza dominante allora in Asia e poi in Medio Oriente.
Dopo la fine della Guerra Fredda, sostiene Kagan, Washington non aspirava ad essere potenza dominante nell’Europa ex sovietica. George H.W. Bush aveva denunciato come «nazionalismi suicidi» lo smembramento dell’Urss; successivamente Bill Clinton creò una “Partnership for Peace” come alternativa all’allargamento della Nato. Tuttavia «gli europei dell’Est cercavano di fuggire da decenni – secoli, in qualche caso – d’imperialismo russo e sovietico, e di avvicinarsi a Washington in un momento di debolezza russa». Negli anni ’90 credevamo che anche la Russia e la Cina stessero marciando verso la democrazia e che la Nato non avesse più ragion d’essere.
Ma i paesi dell’Est «vedevano la fine della Guerra Fredda semplicemente come l’ultima fase della loro lotta centenaria. Per loro la Nato non era obsoleta». Ma il punto centrale della tesi di Kagan riguarda le strutture del potere internazionale e il futuro. Molti, sostiene, «tendono a equiparare egemonia e imperialismo». In realtà imperialismo è una nazione che ne forza altre a entrare nella sua sfera, «egemonia è più una condizione che un proposito». Il problema di Putin e di coloro che sostengono l’esistenza di sfere d’influenza russa e cinese è che «tali sfere non sono ereditate né sono create dalla geografia, dalla storia o dalla “tradizione”. Sono acquisite dal potere economico, politico e militare» che gli Stati Uniti possiedono più della Cina e che la Russia non ha. Anche se avessero sbarrato le porte della Nato, «i polacchi e gli altri avrebbero continuato a bussare».
Perché diversamente dall’offerta americana, la Russia è debole «in tutte le forme rilevanti del potere, compreso il potere di attrazione». In conclusione, la sfida che la Russia sta ponendo a se stessa e al mondo «non è inusuale né irrazionale. L’ascesa e la caduta delle nazioni è l’ordito e la trama delle relazioni internazionali».
La deriva social.
Personalmente non mi sento completamente d’accordo con il professor Mearsheimer: ignora il libero arbitrio degli stati minori che invece vede come pedine del confronto fra grandi potenze. Come per esempio avallare in nome della pace nel mondo la pretesa russa di ottenere dall’America la garanzia che un terzo paese, l’Ucraina, non entrerà mai nella Nato. È una logica da XIX secolo decidere del futuro degli altri. Detto questo, non mi passa per l’anticamera del cervello che un’autorità come il professor Mearsheimer sia al soldo di Putin. Il clima sui cosiddetti “social” invece è molto diverso. Infine, vale la pena sottolineare che un confronto d’idee come questo nella Mosca di Vladimir Putin non sarebbe consentito. Qualcuno finirebbe in galera. Non è una differenza di poco conto.
https://24plus.ilsole24ore.com/art/colpa-putin-o-errore-nato-ruolo-americano-guerra-ucraina-AEbDvJQB
domenica 10 aprile 2022
Loro interpretano il nostro pensiero?
Leggo su "la Repubblica":
Sanzioni Russia, gli italiani favorevoli a restrizioni sull'import di gas e petrolio russo. Anche a costi più alti per le bollette. Quasi un italiano su due favorevole a un blocco integrale delle importazioni da Mosca. Per il 60% è necessario un piano per la riduzione da fondi fossili. E l'80% degli intervistati ha già ridotto o è pronto a ridurre di un grado la temperatura dei termosifoni per ridurre i consumi.
Qui il link:
https://www.repubblica.it/economia/2022/04/08/news/sondaggio_yougov_energia-344643880/
Nicola Porro e il video dell'orrore di Toni Capuozzo, i soldati ucraini chiamano le mamme russe: “È rimasto solo il c**o”. - Giada Oricchio
Cattivi bidelli. - Marco Travaglio
Siccome non c’è giornale che non ospiti una rubrica fissa contro Alessandro Orsini, vien da domandarsi che fastidio può dare un prof. che per mezz’oretta a settimana, spalmata su due o tre talk show, stecca nel coro delle Sturmtruppen che cantano h24 marcette militari. La risposta sono i sondaggi fra gl’italiani che, più ascoltano trombe e trombette di guerra, più si oppongono al pensiero unico del riarmo. Orsini dà noia perché, anche quando lo menano in cinque (cioè sempre), la gente ascolta lui e non i picchiatori. Quindi non basta strappargli il contratto, sbeffeggiarlo e linciare chi – come Bianca Berlinguer – osa invitarlo senza farlo bombardare: va proprio eliminato. Ecco dunque un’armata di maestri di giornalismo darsi un gran daffare per giustificare il bavaglio ad personam. Repubblica ausculta un noto vessillo della libertà: Bruno Vespa. Che assicura: “Orsini non lo invito” perché, com’è noto, detesta “l’informazione distorta”. Sì, ma Orsini? “Non l’ho mai ascoltato”. Ah ecco, però ne ha sentito parlare: “Se è vero quello che leggo, non l’avrei invitato”. E poi “il budget ospiti di Porta a Porta è la mensa della Caritas, gli opinionisti non sono mai stati pagati”. Tranne Scattone e Ferraro, gli assassini di Marta Russo, pagati 260 milioni di lire nel ‘99 per un’esclusiva al Tg1 e a Porta a Porta: la famiglia Russo fece causa alla Rai, visto che i due giovanotti non avevano pagato i danni previsti dalla condanna; si scoprì che il “servizio pubblico” li aveva pagati sul conto di un prestanome per aggirare il blocco dei beni disposto dal tribunale; e la Rai, per uscire da una causa persa, dovette sborsare altri 200 milioni ai Russo. La mensa della Caritas, appunto. Invece Orsini, non avendo ammazzato nessuno, deve lavorare gratis, anzi tacere.
Il Foglio recluta Costanzo che però, forse memore dell’intervista genuflessa a Gelli, evita di moraleggiare. Va meglio con un celebre premio Pulitzer, Franco Di Mare, che incredibilmente dirige Rai3, piena di talk show, dopo averne condotti un bel po’, infatti dice che fanno “un po’ schifo”, specie se c’è “l’accademico posseduto”: “non è pluralismo né giornalismo, è Bagaglino con fenomeni da baraccone”. Tipo lui che fece una serata per la Pampers lanciando una finta edizione del Tg1. Dunque è un’autorità nel giornalismo e nel pluralismo (c’erano pure i Tampax e i Tempo).
Ps. Non bastando Orsini, Johnny Riotta lancia la fatwa contro Lucio Caracciolo che – qualunque cosa voglia dire – “diventa per Travaglio e il Fatto-Tass portabandiera dei Putinversteher con il perenne bla bla su peccato originale Occidente. Peccato davvero, ma la deriva era visibile da anni ormai”. La deriva di sapere di cosa parla, ma soprattutto di saper leggere e scrivere.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/10/cattivi-bidelli/6554845/