lunedì 8 ottobre 2012

Lombardia, Pd trasparente a metà. Spese online, ma non si sa chi spende e perché. - Thomas Mackinson


Un dettaglio delle spese del Pd lombardo


Dopo le polemiche per gli scandali nel Lazio e per la gestione opaca dei fondi consiliari, il Partito democratico in Lombardia (a differenza di Pdl e Lega) sceglie di rendere pubbliche le spese del proprio gruppo con una sezione apposita del sito. Ma il risultato ha l'effetto contrario: una lista indistinta di cifre, senza alcuna giustificazione né riferimento a chi le ha commissionate e per cosa.

Una fattura da 21mila euro senza beneficiario. Arredi per 4mila euro senza indicazione del destinatario. Assegni di rappresentanza da 500 euro senza causale. Ma è tutto regolare, giurano, perché “La trasparenza non è uno slogan”. Con queste parole il Pd lombardo ha annunciato di aver messo online il bilancio del proprio gruppo regionale con voci di dettaglio. Dopo tante polemiche, benvenuta trasparenza. Al rendiconto si accede cliccando un bottone sulla sinistra della home page. E bisogna dire che almeno i democratici hanno fatto un tentativo, a differenza di Pdl e Lega. Ma l’entusiasmo finisce presto, al termine della prima riga. Tanto basta per accorgersi che l’elenco delle spese caricato online è stato preventivamente “sbianchettato”. Possibile? Verificate voi stessi.
Cliccando sulla dicitura “dettaglio” compaiono due elenchi, uno per le spese di comunicazione e l’altro per il funzionamento dei gruppi. In entrambi sono riportati gli importi parziali e il totale delle spese, ma non prima di aver accuratamente omesso i nomi dei beneficiari degli acquisti, dei fornitori, le stesse causali sono state rese accuratamente generiche e criptiche. Il rendiconto si presenta come un lungo elenco che dice poco o nulla, anzi, pare fatto proprio per dire tutto senza dire niente. Impossibile, ad esempio, ricavare una qualche informazione utile da diciture come “Taxi, 70 euro”, “pranzi più taxi 442 euro” o “rimborso chilometrico 181 euro”. Per andare dove? Per mangiare in quanti? 
Le ragioni di tanto mistero le ha illustrate al Fatto Quotidiano il consigliere Stefano Tosi. Di fronte al rifiuto a mostrare le fatture – rifiuto che in Lombardia ha accomunato Pd, Lega e Pdl – il consigliere ha invocato ragioni di tutela della privacy degli eletti, il rischio di finire dileggiati nella mani di giornalisti in malafede e (perla tra le perle) il fatto che un prezzo fatto loro da un fornitore, se reso pubblico, potrebbe mettere quest’ultimo in seria difficoltà, qualcuno leggendo potrebbe anche scoprire di aver pagato quello stesso bene/servizio molto di più. Insomma, il prezzo politico è bene che resti segreto.
Per allontanare dubbi e sospetti dal Pd arriva così la promessa di un’operazione trasparenza che ha richiesto circa due settimane di tempo. Forse proprio per decidere cosa rendere trasparente e cosa no. Il risultato è un bilancio organizzato per “progetti” e voci aggregate, ma le omissioni sono tali da produrre l’effetto contrario a quello voluto. L’idea che qualcuno abbia selezionato quali informazioni rendere disponili e quali no alimenta i sospetti. La mezza trasparenza induce proprio a cercare l’omessa-omissione, a indugiare su brandelli di spese discutibili.
Esempi? C’è un corso di comunicazione per consiglieri da 6mila euro. Se non si sa chi ne ha beneficiato, chi lo ha tenuto e per quante lezioni, il cittadino non sarà mai messo in condizioni di dire se sia stato investimento formativo o spreco. C’è un bonifico per tre fatture da 26mila euro per “analisi e assistenza in campo economico”. Se a fare lezione è stato Paul Krugman nessun problema, altrimenti il dubbio che la lezione di economia non sia stata poi così economica può venire. Il cadeau da 940 euro per la festa della donna per 24 dipendenti, più pranzo da 615 euro più cento di mimose: è giusto che il bel pensiero del gruppo del Pd sia pagato con i soldi dei contribuenti? Il risultato finale è un’esibizione più di facciata che di sostanza. La trasparenza, per ora, è rimasta uno slogan.

Triste realtà.



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Napolitano: “E’ ora di ricostruire L’Aquila, no alle new town”.


Napolitano: “E’ ora di ricostruire L’Aquila, no alle new town”

''Basta con l'idea di ricostruire l'Aquila all’esterno, adesso si è presa la strada giusta” ha affermato il presidente Napolitano al suo arrivo all’Aquila. Entro fine anno previsti nuovi finanziamenti. Una perizia ha rilevato a luglio che gli isolatori degli edifici costruiti con il Progetto casa della Protezione civile sono stati costruiti in modo diverso da quanto previsto dalla gara d'appalto.

“E’ l’ora di ricostruire L’Aquila dimenticando i progetti di una new town fuori dell’attuale centro”. Lo ha detto Giorgio Napolitano entrando nel nuovo auditorium del capoluogo abruzzese, progettato da Renzo Piano. Quanto alla ricostruzione, ha spiegato il Capo dello Stato, “ho ricevuto dal ministro Barca molti elementi concreti sui lavori in corso e sui finanziamenti decisi” sia privati che pubblici e “dovrebbero scattare nuovi contributi entro fine anno”.
“Mi pare ci siano prospettive serie, è tempo di pensare a ricostruire la città al di là di precedenti esperienze che puntavano piuttosto a costruire fuori. Oggi costruiamo dentro e mi pare la strada giusta”. 
La “new town” sorta nei pressi dell’Aquila per ospitare gli sfollati, secondo una perizia del tribunale, è stata costruita senza rispettare le norme antisismiche. A luglio scorso i consulenti tecnici d’ufficio nell’ambito dell’incidente probatorio disposto dal giudice Marco Billi sul Progetto Case, le abitazioni provvisorie assegnate dalla Protezione civile ai terremotati dell’Aquila, inaugurate in pompa magna dall’allora premier Silvio Berlusconi, avevano scritto che sono stati installati isolatori antisismici (i dispositivi che servono a isolare le parti portanti degli edifici dagli effetti dei terremoti, posti sotto le piastre di cemento armato) costruiti con “materiali diversi da quelli offerti in gara” e delle “criticità ai fini del funzionamento e della sicurezza”.
reati ipotizzati: turbativa d’asta frode nelle pubbliche forniture a sei persone, tra cui Mauro Dolce, responsabile del progetto Case. Le “case di Berlusconi” che si trovano a decine di chilometri dall’Aquila non hanno né bar né negozi né luoghi di ritrovo. Ma numerose mattonelle rotte, e tubature che perdono acqua

ECCO LA MAPPA D'ITALIA DEI BILANCI DISSESTATI, TUTTI I POLITICI CHE RISCHIANO. - Lorenzo Salvia



Sindaci e governatori incandidabili se si dimostra che sono colpevoli.

In ossequio al principio del federalismo, il rischio default scende con metodo per i rami dell'amministrazione. Dallo Stato passa a tutti i livelli della res publica. E così nella mappa del dissesto finanziario ci finiscono proprio tutti. Le Region

i, con le magnifiche otto che hanno i conti in rosso per la sanità, dalla Sicilia al Piemonte. Le Province che quest'estate, dopo gli ultimi tagli, sostenevano di non poter riaprire nemmeno le scuole. E i Comuni naturalmente, la prima linea di quell'esercito di amministratori che il governo vuole richiamare alle sue responsabilità. «Più della metà sono in grande difficoltà di bilancio» dice Graziano Delrio che da sindaco di Reggio Emilia, presidente dell'Associazione dei comuni e - perché no? - da padre di nove figli, i conti è abituato a farli per benino. Una cosa gli sfugge, però. Dice che Parma è in una situazione di «dissesto vero e proprio», provocando la replica piccata del sindaco di quella città, Federico Pizzarotti. E, chi l'avrebbe detto, ma è proprio il botta e risposta tra un renziano (Delrio) e un grillino (Pizzarotti) a offrirci lo spunto per capire cosa intendiamo quando parliamo di dissesto finanziario. E quindi di incandidabilità per i responsabili, come vuole il decreto approvato giovedì dal governo.

Le città a rischio
Sono molti i Comuni italiani dove i bilanci faticano a stare in piedi: quello di Napoli si regge grazie a 3 miliardi di residui attivi, in gran parte vecchie multe che non sono state incassate e forse non lo saranno mai. Quello di Palermo è stato sfondato dai debiti delle società controllate. A Reggio Calabria non si capisce nemmeno quanto sia grande il buco mentre problemi seri sono venuti fuori a Foggia e Ancona. Sono tutte città dove le uscite hanno superato le entrate per anni e i nodi stanno venendo al pettine. Ma, tecnicamente, non si può parlare di dissesto finanziario. Sono in difficoltà ma non ancora fallite. E invece il dissesto è proprio quello che per un'azienda si chiama fallimento. Il sindaco si rende conto di non poter più pagare i debiti, alza la mano e chiede aiuto allo Stato.

Chi paga?
Fino a qualche anno fa era proprio lo Stato a coprire direttamente il buco, una procedura che poteva rendere il dissesto addirittura conveniente. Roma paga e via da capo: uno scherzo che negli anni ci è costato un miliardo e mezzo di euro. Capito l'inconveniente le regole sono state cambiate: chi dichiara il dissesto deve rialzarsi con le proprie gambe e se lo Stato concede un aiuto sotto forma di mutuo agevolato i soldi li deve tirare fuori il Comune. O meglio i suoi cittadini pagando nuove tasse. Il giochino non funzionava più. «L'inevitabile innalzamento della pressione fiscale - scrive la Corte dei conti nell'ultima relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali - ha reso sindaci e presidenti di provincia meno propensi a dichiarare lo stato di dissesto, rendendo più difficile un duraturo risanamento». E infatti. Da quando esiste la legge sul dissesto, era il 1989, i Comuni che hanno imboccato questa strada sono stati 461, con Calabria e Campania che coprono da sole la metà della torta. Ma dopo il boom dell'esordio, 125 casi solo il primo anno quando a pagare era Roma ladrona, i numeri sono scesi, crollati anche a un solo dissesto l'anno. E sono tornati a crescere solo con la crisi: 4 nel 2009, 8 nel 2010, 10 nel 2011, per il 2012 il dato è ancora parziale ma siamo fermi a 6.

37 in dissesto
In questo momento sono 37 i Comuni ancora in dissesto. La procedura di rientro, con l'aumento delle tasse locali come compito da fare a casa, dura cinque anni. L'ultima arrivata nel club è Alessandria che quest'estate ha spento l'aria condizionata negli uffici e ritirato i cellulari a tutti i dipendenti. È il secondo capoluogo di Provincia dopo Caserta, zona dove il dissesto si sente nell'aria visto che ci sono due comuni, Casal Di Principe e Roccamonfina, che l'hanno dichiarato due volte. Cosa rischiano tutti questi sindaci?

Incandidabili?
Dice il decreto del governo che non si può ricandidare chi è stato giudicato responsabile per il dissesto finanziario dell'ente che amministrava. In realtà la norma già c'era da un anno, il governo ha aggiunto una «multa» che può arrivare fino a venti volte lo stipendio guadagnato all'epoca dei fatti. E il suo valore si limita al deterrente. Per far scattare l'incandidabilità è necessaria la condanna della Corte dei conti, anche solo in primo grado, per dolo o colpa grave. Finora non è mai successo. Certo, diversi sindaci sono stati condannati a rimborsare un danno causato alle casse pubbliche. Ma il fatto non è mai stato legato al dissesto finanziario come dice il decreto del governo. Un esempio? L'ex sindaco di Catania Umberto Scapagnini è stato condannato dal tribunale in primo grado a due anni e nove mesi per aver truccato i bilanci del suo Comune. Così aveva evitato di dichiarare il dissesto, aspettando che il debito venisse ripianato dal governo Berlusconi con un assegno di 140 milioni. Scapagnini è ricandidabile.


domenica 7 ottobre 2012

Presa Diretta - La Scuola fallita - 14-02-2010 1di9



Riflettiamo...è già da tempo che stanno distruggendo la scuola.

Campania, lo spreco corre sul web: 137 siti istituzionali e caselle email a peso d’oro. - Vincenzo Iurillo


Campania, lo spreco corre sul web: 137 siti istituzionali e caselle email a peso d’oro


Da 'Magistra', sito interamente dedicato ai docenti di cui si sono perse le tracce, al milione e 200mila euro per dotare i dipendenti del centro direzionale di tecnologia Voip. Fino ai 50 euro spesi per ogni casella elettronica, contro i 6 del privato: anche su Internet il pubblico è di mani larghe. Quanto? Un censimento del 2009 scoprì che i siti legati alla Regione erano 137, ma non fu in grado di quantificarne i costi.

Qualcuno ricorda ‘Magistra, il portale interamente dedicato ai docenti campani’? Presentato in pompa magna dall’assessorato regionale all’Istruzione nel gennaio del 2009 presso il Palazzo dell’Innovazione e della Conoscenza di Napoli, il sito www.magistra.campania.it avrebbe dovuto essere uno “strumento nato per supportare e agevolare chi quotidianamente si adopera e si impegna nella scuola e vuole essere un punto di riferimento per tutti i docenti della regione”. Così almeno recitava il comunicato stampa. Si promettevano “librerie, archivi, posta elettronica, un ricco e aggiornato calendario eventi, news e soprattutto corsi on line che rispondono alle esigenze più diverse”.
Provate ora a digitare quell’indirizzo Internet. Pagina bianca. Server spento. Non c’è più. E chissà se gli insegnanti campani si sono accorti che la Regione aveva realizzato un sito tutto per loro. “E’ costato almeno tre milioni di euro” assicura una fonte che ha contatti con le imprese informatiche appaltatrici dell’amministrazione regionale. I giornali ne pubblicizzarono l’apertura. Nessuno ne ha verificato l’esito.
E’ il web la nuova frontiera dello spreco di risorse pubbliche. Lascia poche tracce e concede ampi margini di manovra. Se costruisci un palazzo che resta vuoto o una strada di cui non c’era bisogno, lo scempio è visibile a occhio nudo e suscita interrogativi e proteste in cittadini e associazioni. Se apri un sito e non ci va quasi nessuno, chi se ne accorge?
E quindi chi dovrebbe controllarne costi e congruità? Una commissione nominata quattro anni dalla giunta Bassolino con il compito di razionalizzare i siti internet della Regione e degli enti collegati ne individuò ben 137. Di cui 61 per “comunicazione istituzionale”, 33 “tematici” e 43 gestiti da “terzi”. E produsse una relazione che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare. Ventuno pagine di rilievi tecnici. Ma privi di alcune notizie fondamentali.
La commissione non ha determinato il costo di ogni sito. Non ha redatto uno studio sul numero dei contatti e dei fruitori. Alcuni indirizzi internet erano già spenti all’epoca. Altri sono stati spenti e sostituiti con un indirizzo Url più consono (ad esempio http://scuola.polizia.campania.it, il portale della scuola regionale per le polizie municipali, è diventato www.polizia.campania.it). Mentre altri siti e portali sono nati – e morti – in seguito. Come nel caso di Magistra, non ricompreso nell’elenco steso dalla commissione. Progetto pilota nel mondo della scuola che non è sopravvissuto alla giunta Bassolino e alla vittoria del centrodestra.
In tempi di spending review la prassi dei nuovi assessori di aprire appena insediati un sito fresco attinente alle loro deleghe si è fermata. Ma la prassi di pagare molto, troppo, i servizi sul web è sempre dura a morire. Il consiglio regionale della Campania sta per spendere 1.200.000 euro per consentire ai dipendenti delle isole F/13 ed F/8 del Centro Direzionale di chiamarsi tra loro attraverso la tecnologia Voip sul computer, senza utilizzare la linea fissa telefonica. Si stenta a capire quale sia il risparmio sulle bollette, il Voip ha riscosso successo mondiale perché permette di comunicare gratis. Eppoi un qualsiasi navigatore sa che lo stesso risultato si otterrebbe scaricando Skype e scambiandosi gli indirizzi email tra i contatti. Costerebbe zero euro e zero centesimi. A proposito di email, incuriosisce un dato: la Regione Campania ha creato le caselle di posta elettronica non certificata dei suoi dipendenti e amministratori (nome.cognome@regione.campania.it) tramite Microsoft Exchange. Il costo di mercato per gli enti pubblici di questo sistema – ‘call active directory’ con licenza di posta elettronica  – è di circa 50 euro complessivi a casella. La Ferrari delle caselle email: ci sono provider che riforniscono le pubbliche amministrazioni di caselle di posta elettronica certificata, quindi con un servizio in più, a soli 13 euro. E un privato spende solo 6 euro.

Graviano: "Con Dell'Utri e Berlusconi l'Italia è nelle nostre mani".


graviano
L’attentato allo stadio Olimpico di Roma avrebbe dovuto essere il “colpo di grazia” nei confronti dello Stato al culmine di un periodo di tensione caratterizzato dalle stragi del biennio ’92-’94.
A ripercorrere quei mesi caldi di quasi vent’anni fa è il pentito Gaspare Spatuzza, ascoltato nell’ambito del processo al generale del Ros Mario Mori accusato di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra.
Il collaboratore di giustizia, interrogato dal pm Nino Di Matteo, ha ricordato come l’ex capomafia di Brancaccio, Giuseppe Graviano, abbia fatto riferimento a dei contatti con “persone serie”. A questo punto il pm ha chiesto se tra loro vi fossero anche Berlusconi e Dell’utri, e Spatuzza ha risposto che Graviano “disse di sì”.
Durante la deposizione, poi, il pentito ha ricordato l’incontro avvenuto con Giuseppe Graviano a Roma, al bar Doney. “Aveva un’espressione felice – ha detto -. Mi disse che aveva definito tutto, e ottenuto quello che ci aspettavamo. La serietà di queste persone, aggiunse Graviano, ha permesso di ottenere tutto quello che chiedavamo, che non erano come quei quattro ‘crasti’, i socialisti, che si erano presi i voti senza poi fare nulla. Chiesi se tra queste persone serie c’era Berlusconi, quello di Canale 5. Disse di sì e che c’era un nostro paesano, Dell’Utri. Ci avevamo messo, disse, il Paese nelle mani”.