venerdì 11 gennaio 2013

Favia va con Ingroia:"Mi candido" Ma non molla il posto in Regione.



BOLOGNA - Giovanni Favia si candida con Antonio Ingroia e sarà capolista di Rivoluzione civile in Emilia-Romagna. L'ex magistrato gli invia una lettera aperta per valutare la sua proposta di candidatura.
favia di pietro

Favia risponde: "Nel momento in cui mi hanno espulso, creando anche una campagna di diffamazione nei miei confronti, mi sento legittimato a candidarmi per il Parlamento. Se avessi voluto una poltrona avrei accettato le proposte da partiti che mi garantivano seggi sicuri. Questa è una sfida aperta, si riparte dagli inizi e con gli stessi principi; sopra e intorno a me ora non c'è nessuno se non le battaglie che devo fare per i cittadini. Non sarò politico a vita. Rimango un cittadino prestato alla politica.

Già in predicato di accasarsi con il movimento dell'ex magistrato la dichiarazione dell'ex grillino espulso dal comico genovese non è stata una vera novità. Poi la sorpresa perché Favia è ancora consigliere regionale per il Movimento 5 Stelle in Emilia Romagna

"Resto nel gruppo in Regione. Nel caso in cui non venissi eletto in parlamento, portata a termine la mia attuale attività, alla prossima relazione semestrale presenterò ai cittadini dell’Emilia Romagna che mi hanno sostenuto e votato, le mie dimissioni irrevocabili, ridando al movimento la possibilità di avere due rappresentanti abilitati pienamente a rappresentarlo".

Ma dalla base del Movimento 5 Stelle e di Ingroia arrivano segnali alla sua candidatura. E Favia non viene contestato solo sulla rete. Alla lettura della sua nota, nelle stanze della regione, attivisti di Cambiare si può (che appoggiano Ingroia) urlano "Vergnogna. Questo è un doppio incarico.”

L'indicazione per Ingroia sembra sia arrivata da Antonio Di Pietro sostenitore della lista del magistrato palermitano.

Santoro e Berlusconi alla Fiera delle Illusioni. - Sergio Di Cori Modigliani



Tutti in riga a seguire il cosiddetto evento Santoro-Berlusconi.
La mia personale opinione è che hanno perso tutti.
Anzi: abbiamo perso tutti.
La vera posta in gioco consisteva nel chiarire –in maniera unilaterale- l’affermazione base del pensiero unico italiano, basato sulla totale primogenitura dittatoriale della televisione, e quindi chiarire a tutti che i bloggers, i social networks, la rete, la carta stampata, i libri, la radio, gli incontri umani, in questa campagna elettorale non contano nulla e non valgono nulla se paragonati alla tivvù.
Unica nazione in occidente ad avere questa particolarità, l’Italia si è dunque riconfermata come nazione totalmente teledipendente, a differenza di altre società più evolute rispetto alla nostra, dove le nuove tecnologie, una nuova umanità e un rinnovato scambio sociale, hanno aperto orizzonti diversi di possibilità di comunicazione e quindi anche di mercato e di confronto.
Abbiamo perso tutti perché ci hanno dimostrato che il berlusconismo è ancora vivo e vegeto e detta le condizioni ad ampio raggio. Se l’opposizione, infatti, deve essere rappresentata da Santoro-Travaglio-Vauro, allora vuol dire che lo status quo regna sovrano: entrambi parlano lo stesso linguaggio. Sono antitetici ma speculari, oppositori sì ma mai antagonisti, e appartengono entrambi a due rovesci di una identica medaglia, il cui fine, va da sé, è identico: far credere e pensare agli italiani che sono “loro e soltanto loro” i depositari delle potenziali alternative a se stessi.
Come a dire: “dopo di noi veniamo soltanto noi”.
E’ una delle tante manifestazioni del paradosso della surrealtà, in questo caso specifico applicato alla dimensione della cupola mediatica.
Sono stati tutti splendidi e squisiti attori della finzione catodica, con un finale appena appena un po’ pepato, tanto per dar la sensazione che qualcuno avesse fatto goal.
Ma è stata una abile illusione virale.
Nessuno tra i giornalisti presenti ha posto una domanda intelligente –in quanto prova schiacciante- a Berlusconi, in modo tale da poterlo inchiodare (e non era difficile) così come, dal canto suo, tantomeno il cavaliere ha sferrato un attacco facile facile che avrebbe potuto tranquillamente stendere tutti i presenti. Il risultato? Chi, tra i telespettatori, era anti.berlusconiano è rimasto tale e chi, invece, pendeva per Berlusconi, si è ringalluzzito pensando che “glie le ha cantate”. Apparentemente un pareggio.
Ha vinto il ragioniere contabile di La7 che ha incassato il previsto gettone.
Hanno vinto Santoro e Travaglio per la loro percentuale su quel gettone.
Ha vinto Berlusconi perché le concessionarie della pubblicità che gestiscono il pacchetto sono sue.
Ha vinto chi voleva far credere che in Italia nulla cambierà mai, essendo gli interlocutori sempre gli stessi.
Ha perso il pubblico.
Come infatti il buon Santoro ci ha spiegato in una sua improvvida esternazione- dimostrando chiaramente che si erano preventivamente accordati per non farsi del male a vicenda- c’era stato un accordo tra le parti. In un paese dove esiste il buon giornalismo (così si fa nelle altre nazioni più evolute) prima dell’inizio del match sarebbe apparso fuoriprogramma il direttore della rete Enrico Mentana, il quale avrebbe spiegato al pubblico che tipo di accordo era stato fatto tra le parti, quali fossero le condizioni, i limiti, le frontiere da non superare, augurandosi che nessuno tra i due venisse meno ai patti. Il pubblico più maturo avrebbe gradito.
Così non è stato, invece.
Tuttora non è dato sapere quale fosse quell’accordo, e soprattutto “perché”.
Dimostrando che, all’interno del mondo della cupola mediatica, se la girano come intendono, ma soprattutto ci tengono a NON spiegare mai alla gente quali sono le regole d’ingaggio.
La7 ha un’ottima giustificazione; può sempre dire “ma noi siamo dei privati”.
Hanno ragione.
Peggio per coloro che guardano una trasmissione che si chiama “servizio pubblico”, va in onda in una emittente privata che vive dei soldi veicolati da Berlusconi sul mercato (in maniera legale) e quindi di pubblico non ha nulla, né di fatto, né legalmente, ma chi la guarda è convinto, invece, che si tratti davvero di un servizio pubblico per la cittadinanza.
Soltanto il nome, ottima trovata demagogica.
In Usa, Gran Bretagna, Francia, Danimarca, Cekia, Svezia, Olanda e Germania è vietato dalla Legge che una qualsivoglia emittente privata usi il termine “servizio pubblico” non essendolo.
Ma noi, si sa, siamo in Italia.
Viviamo nel Paradosso della Surrealtà.
Hanno costruito una realtà alla quale hanno sottratto il Senso.
E la politica e l’informazione, da noi, sono come il calcio.
Vince il tifo e mai lo sport, perché è solo puro business.
O meglio: vincono i soldi e si fa credere ai tifosi che hanno vinto loro.
E’ esattamente ciò che è accaduto ieri sera.
Ovverossia: non è accaduto nulla.
E noi, vittime predestinate, siamo costretti a far di necessità virtù, e star qui a parlare del nulla e di una illusione, come se si trattasse di un qualcosa di reale, di autentico, di interessante; soprattutto “importante” per le nostre esistenze.
Non lo è.
In nessun modo.


Concordo, nessuno ha vinto. Come ho avuto modo di scrivere questa mattina: 

Ieri a "servizio pubblico" si è consumata una farsa, la solita farsa all'italiana.
Da una parte un pagliaccio conclamato, dall'altra inadeguati interlocutori.
E' impossibile, infatti, pretendere di prendere in castagna chi non ha una coscienza, non ha etica, e nega la realtà dei fatti.
Lo si doveva mettere con le spalle al muro, come meritava, utilizzando le sue stesse armi: disonestà, cinismo e cattiveria, tenendo sempre a mente chi è e che cosa ha fatto.

Incredibile Persone Compilation - Incredibile abilità e talenti in HD 2012.




Mariangela Melato.



Ciao, Mariangela, e grazie per quello che ci hai regalato.

giovedì 10 gennaio 2013

Catania, la mafia nel racket dei rifiuti 27 arresti, 16 funzionari pubblici indagati. - Giorgia Mosca


Catania, la mafia nel racket dei rifiuti 27 arresti, 16 funzionari pubblici indagati


Operazione della Dia del capoluogo siciliano. I reati: associazione mafiosa, traffico di armi e droga, truffa aggravata ai danni di Ente pubblico. Impegnati 250 uomini delle forze dell'ordine. La Aimeri Ambiente: ci tuteleremo, società estranea.

CATANIA - Erano le cosche a gestire il business dei rifiuti con gli appalti per la raccolta e lo smistamento in discarica in 14 centri del Catanese (Bronte, Calatabiano, Castiglione di Sicilia, Fiumefreddo, Giarre, Linguaglossa, Maletto, Maniace, Mascali, Milo, Piedimonte Etneo, Randazzo, Riposto e Sant'Alfio), come anche ad Enna, a Milano e a Torino. Milioni di euro che rimpinguavano le tasche della malavita organizzata, infiltrata all'interno dell'Aimeri Ambiente srl, azienda che opera nel ciclo di rifiuti dell'area ionica-etnea come aggiudicataria dell'appalto bandito dalla Ato Ct1 Joniambiente. 

L'organizzazione riusciva ad ottenere notevoli profitti attraverso la falsificazione dei formulari relativi alla raccolta e al conferimento in discarica dell'umido e della differenziata facendo credere che il servizio, in realtà inesistente, funzionasse alla perfezione. E inoltre attivava il ricorso alle procedure di somma urgenza, come ad esempio l'eliminazione di micro discariche o la pulizia di caditoie e margini stradali, affidandole a ditte conniventi. Altro elemento portante era la mancanza assoluta di controlli sostanziali, ma solo formali, da parte di amministrazioni pubbliche come comuni e la stessa Joniambiente.   

Ventisette i provvedimenti di custodia cautelare in carcere e ai domiciliari che sono stati emessi dal Gip di Catania e molteplici i reati contestati: associazione di stampo mafioso, associazione per delinquere, traffico di rifiuti, traffico di sostanze stupefacenti, traffico di armi aggravato dal metodo mafioso e truffa aggravata ai danni di ente pubblico. Inoltre, tutti i documenti afferenti agli appalti conferiti all'Aimeri, come anche alla Sicilia Ambiente e Alkantara 2001, sono stati acquisiti. Nell'ambito della stessa inchiesta dalla quale è emerso anche un traffico di stupefacenti, sono state disposte 16 perquisizioni ancora in corso: 16 amministratori comunali e diversi funzionari sono indagati. Tra loro il sindaco di Mascali, Filippo Monforte. Il reato ipotizzato nei suoi confronti è corruzione. Lo ha confermato lo stesso amministratore che ha ricevuto un'informazione di garanzia. "Per il momento non ho alcunchè da dire", ha commentato. Nello stesso Comune indagati anche l'assessore ai Lavori pubblici, Rosario Tropea, e il dirigente responsabile del settore, Bruno Cardillo. Indagato anche l'ex assessore all'Ambiente del Comune di Giarre, Piero Mangano.

Nell'operazione sono stati impegnati 250 uomini tra poliziotti, carabinieri e finanzieri che questa mattina, insieme con il personale del reparto Volo della polizia di Reggio Calabria e delle unità cinofile, hanno portato a termine il blitz, condotto dalla Dia e coordinato dalla Dda della Procura della Repubblica di Catania. Non è ancora completamente definito il giro degli affari: le indagini continuano e potrebbero esserci risvolti a giorni. Ci potrebbero essere dei collegamenti con gli attentati incendiari di alcuni mesi fa all'interno dell'Aimeri subito dopo l'arresto di Russo, elemento di spicco del clan Cinturino. 

Ecco i nomi degli indagati. Per associazione per delinquere di tipo mafioso i nomi di spicco sono: Roberto Russo, responsabile tecnico operativo della Aimeri Ambiente, insieme con Salvatore Tancona, commerciante, e Gianluca e Carmelo Spinella. Per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti gli indagati sono Alfio e Carmelo Tancona, gravitanti anche nell'orbita dei Cappello Bonaccorso, Nico Marino Benedetto e Santo Cristaldi già ai domiciliari per spaccio, Arianna Ingegneri, Alessandro e Francesco Mangano nonché Mauro Miceli, Salvo Musumeci, Giuseppe Sciacca, Girolamo Zappala', Antonino La Spina e Sebastiano Vitale. Gli altri arrestati dovranno rispondere di detenzione di armi da fuoco, associazione per delinquere e traffico illecito di rifiuti.
La Aimeri Ambiente dichiara "la più totale estraneità rispetto alla vicenda, considerandosi con tutta evidenza parte lesa ed annunciando la propria costituzione in giudizio come parte civile". L'azienda precisa che "le persone colpite dai provvedimenti giudiziari sono dipendenti ed ex dipendenti con mansioni di secondo piano e che comunque risponderanno personalmente dei reati per i quali sono accusati, alcuni reati addirittura completamente estranei all'attività svolta dalla società". "Infine - si legge in una nota - si evidenzia che l'equivoco sul presunto coinvolgimento dell'azienda, diffuso erroneamente da alcune fonti di informazione, comporta già da ora un danno gravissimo per Aimeri ambiente che si riserva di agire per la piena tutela dei propri diritti e della propria immagine". La società si dice "pronta a garantire, come sempre, la massima disponibilità a collaborare con le Autorità competenti per fare luce sulle gravi vicende di cui ancora, tuttavia, non conosce nel dettagli i particolari".

Il grande deserto dei diritti. - Stefano Rodotà



Si può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro.

Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti.

Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza.

La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.

Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto abbastanza.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito?

Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione. Nelle sue venticinque pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta, nel bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile dipendente dell’economia. Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato.

In un documento che insiste assai sull’Europa, era lecito attendersi che la giusta attenzione per la necessità di procedere verso una vera Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura esplicita che non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa dei mercati ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo l’esplicito riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la piena legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che avrebbe portato alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa.

Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.

Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.

Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia. Serve un ritorno alla politica “costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-grande-deserto-dei-diritti/

Perché Grillo cala (se cala). - Andrea Scanzi



Sembra che il Movimento 5 Stelle stia dando qualche segno di cedimento nei sondaggi. Se sarà calo o slavina, dipenderà da Grillo, dagli attivisti e dalla casta. Resta il fatto che questo movimento è una realtà anomala in un paese per nulla aduso alle novità: politicamente l’Italia è il paese più reazionario d’Europa. 

Il Movimento 5 Stelle è in calo. Lo dicono i sondaggi. Piepoli, da sempre il più timido nell’ammettere i boom degli attivisti 5 stelle, parla di una ripartizione simile: Pd 33%, Pdl 17% (altri centrodestra 7), Coalizione Monti 12%, M5S 11%, Lega 6, Sel 6 (altri centrosinistra 3), Ingroia 5. 

La sensazione è che Ingroia sia sovrastimato e che Monti e Pdl cresceranno ancora (siamo in Italia, baby). Bersani un mese fa aveva già vinto e da allora non ne becca una (la sua sottovalutazione di Monti ha del leggendario). Perdere sembra impossibile, ma il centrosinistra può farcela. C’mon.

Gli altri istituti danno il movimento di Beppe Grillo tra il 13 e il 16-17. Il più attendibile, sinora, si è rivelato Swg, costantemente rilanciato dalla trasmissione Agorà su RaiTre. E’ stato il primo a rivelarne la crescita e continua ad accreditargli un 17 percento circa. Il calo, rispetto alla cifre che venivano sparate tra la vittoria a Parma e quella (come lista) in Sicilia, è comunque innegabile. E ha spiegazioni chiare.

Anzitutto occorre intendersi su quale sia il potenziale reale del Movimento 5 Stelle. Fino a un anno fa, quasi tutti ritenevano sufficiente lo sbarramento del 4 percento per disinnescare il M5S. Neanche sarebbe entrato alla Camera e al Senato. Nel giro di sei mesi, una forza data genericamente al 3% (sotto la voce “altri”) era divenuta “sicuramente” la seconda realtà politica italiana, poco distante dal Pd. Dal tutto al niente. Un po’ di misura, no?

Il Movimento 5 Stelle è realtà anomala in un paese per nulla aduso alle novità. Politicamente l’Italia è il paese più reazionario d’Europa, nato e morto democristiano (se va bene): gli elogi orgiastici della stampa “riformista” alla Rifondazione Cristiana di Mario Monti ne sono prova. In un paese simile, suonerebbe quasi rivoluzionario se Grillo raggiungesse a febbraio un risultato a due cifre. In qualità di virus benefico da inoculare nella casta infettatissima della politica italiana, non cambia poi molto se il risultato sarà 9, 11 o 14%. Il Movimento 5 Stelle deve entrare in Parlamento non per governare, ma per fare (con Ingroia) seria opposizione. Esattamente ciò che mai è accaduto con i Violante e i Crisafulli (che continueranno a vivere e lottare in mezzo a loro: wow).
Sì, ma perché il M5S sta calando?

1) Nelle ultime settimane non ci sono stati scandali come quelli di Lusi e Fiorito. L’effetto Primarie (belle le prime, con più ombre che luci le seconde) ha ridato un po’ di verginità al centrosinistra. Se la casta non lo “aiuta”, la capacità grillista di sfondamento scema.

2) Grillo è rimasto sullo sfondo. Di lui si è parlato poco. E qualcuno si è allontanato.

3) Dopo le elezioni siciliane, Grillo ha sbagliato molto. L’allontanamento di Favia e Salsi, in sé, è irrilevante: martiri di professione erano, sono e saranno. Gne gne. Entrambi in scadenza di secondo mandato, quindi con bisogno legittimamente ambizioso di ricollocazione (azzardiamo: il primo con gli Arancioni, la seconda nel centrosinistra come Serracchiani 2.0). Espellendoli, senza peraltro chiarirne troppo i motivi, Grillo ha dato loro – e a chi li ha sfruttati, dai giornali potenti a quelli nati solo per tratteggiarlo come novello Stalin (questi ultimi son durati poco) – un assist mirabile. Il “fuori dalle palle” resta un autogol monumentale. Con queste mosse, e con delle Parlamentarie rabberciate, qualcuno se n’è andato. Non molti (il tema della “democrazia interna” attrae poco l’attivista 5 stelle). Ma qualcuno sì. Che è tornato da mamma Pd. Oppure a Sel. O si è avvicinato agli Arancioni.

4) Appunto, gli Arancioni. Grillo non ha nulla da temere da Bersani, Vendola o Monti: gli drenano pochissimi voti. Ingroia (e chi lo segue, forse sfruttandolo come foglia di fico e forse no) pesca invece nello stesso bacino elettorale. E’ buffo che gli attivisti 5 stelle, forse per esorcizzarne il rischio, lo neghino, sostenendo che la Rivoluzione Civile tolga voti unicamente a Vendola. Macché. Ne toglie eccome a Grillo. Non parlo tanto dei venti-trentenni cibernauti, quanto dei quaranta-sessantenni di sinistra (e delusi dalla sinistra) che in mancanza d’altro si erano lentamente avvicinati a Grillo. Penso, per esempio, al normotipo santoriano (nel senso di Michele Santoro) o floresiano (nel senso di Paolo Flores D’Arcais). Per loro Ingroia (e De Magistris, e Di Pietro, volendo pure Ferrero e Diliberto) rappresentano ora una prospettiva maggiormente gradita. Su Ingroia politico ho qualche perplessità (sull’uomo e sul magistrato no), ma è del tutto auspicabile che una forza che raccoglie anche le Agende Rosse di Borsellino e il Popolo Viola entri, o torni, in Parlamento. La prospettiva massima, a febbraio, sembra coincidere per molti con un 20 percento complessivo di attivisti 5 stelle e arancioni, che condurranno quasi sempre le stesse battaglie. Il timore è un effetto Sinistra Arcobaleno 2: se si fermeranno poco sotto il 4 percento, gli Arancioni saranno serviti unicamente a togliere eletti alla cosiddetta “antipolitica”.

5) Berlusconi. Sembra impossibile (ad alcuni: a me no) che ci siano ancora tanti disposti a rivotare un figuro sempre più impresentabile, nonché sinapticamente devastatissimo, ma questa è l’Italia. Berlusconi non è morto politicamente: ogni volta che stava per accadere, qualcuno lo ha salvato (D’Alema, Veltroni, Napolitano). A febbraio ne ripagheremo le conseguenze. Il Pdl, senza Lega, si attesterà – temo – poco sotto il 25: cifra inaudita, tenendo conto dei disastri compiuti. Se poi Berlusconi si alleerà con Maroni, al Senato avrà luogo un pareggio e l’inciucione Bersani-Monti (con Vendola a girarsi i pollici) sarà cosa certissima (certa lo è già). Questo conato di berlusconismo riguarda anche il M5S: non pochi delusi da destra, dopo aver flirtato con Grillo, si faranno nuovamente rincitrullire dal Bollito. Vamos.

6) Se Renzi avesse vinto le Primarie, il centrosinistra avrebbe stravinto, Berlusconi non avrebbe più appeal e il Movimento 5 Stelle sarebbe sceso molto di più. Il vero anti-Grillo non è Bersani (ahahah) e neanche Ingroia (che casomai è un Grillo 2), ma il sindaco di Firenze. Da non renziano, trovo inattaccabile la coerenza del Renzi post-primarie. Complimenti.

Nelle prossime settimane, facendo comizi ovunque (le piazze dei Firma Day e Massacro Tour erano piene: questa crisi M5S c’è davvero?), Beppe Grillo si giocherà tutto. Se resta in panchina si ammoscia, se sgomita nella mischia si esalta. Dopo le epurazioni è diventato più “conciliante”. Ha ammesso qualche sbaglio (che per lui, disabituato alla critica, è tantissimo). Ha recitato (per strategia e non solo) la parte del martire sulla vicenda-firme. E’ sembrato perfino più istituzionale (il discorso crepuscolare di Capodanno).

Prima di Parma, Pizzarotti era dato al 3 percento; prima delle regionali siciliane, Cancelleri al 7. I sondaggi sono anch’essi strumenti di propaganda elettorale e il M5S è realtà liquida. Se sarà calo o slavina, dipenderà da Grillo, dagli attivisti e dalla casta (per meglio dire: dal suo livello di masochismo inconsapevole).
Saranno settimane di guerriglia. Copritevi bene, che per la democrazia italiana sarà un inverno rigidissimo.


http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/03/perche-grillo-cala-se-cala/460169/