lunedì 17 maggio 2021

Dal Piano Ue ai decreti il Parlamento ormai s’è ridotto a passacarte. - Giacomo Salvini

 

Immobilismo - Si decide tutto con i Dl del governo.

Mercoledì 12 maggio, interno Senato. Di fronte alle due mozioni di Lega e Forza Italia in cui si chiedeva di “abolire il coprifuoco”, il ministro dei Rapporti col Parlamento Federico D’Incà è costretto a riunire i capigruppo di maggioranza per evitare la spaccatura in Aula. Il centrodestra vorrebbe eliminare subito il coprifuoco e riaprire tutti i locali al chiuso, ma Pd e M5S si oppongono. E così inizia una lunga trattativa sull’ordine del giorno di maggioranza da presentare il giorno successivo. Il capogruppo leghista Massimiliano Romeo vorrebbe usare la parola “abolizione” in riferimento al coprifuoco ma è troppo, il fronte rigorista spinge per “allungamento”. Alla fine, dopo una buona mezz’ora di litigi, arriva la mediazione: “Superamento progressivo”. E così via: su ogni singola virgola, una trattativa. E raccontano che questo copione si ripeta sempre più spesso nella maggioranza del governo Draghi. Risultato: il Parlamento è immobile da mesi. “L’iniziativa legislativa delle Camere ormai è ferma – racconta un ministro – e ne vedremo delle belle quando in Parlamento arriveranno le riforme legate al Recovery”. E non è un caso che sabato Matteo Salvini lo abbia detto senza tanti giri di parole: “Questo governo non farà le riforme”.

D’altronde basta seguire i lavori parlamentari per farsi un’idea. Il Parlamento, da quando si è insediato il governo Draghi, ha solo fatto da passacarte all’esecutivo: dal 13 febbraio le Camere hanno approvato 9 leggi, escludendo le 4 ratifiche, di cui 8 conversioni di decreti approvati dal governo (4 di questi risalgono al Conte-2). Una media di 3 leggi al mese, molto più bassa, secondo i dati di OpenPolis, della media di 4,9 dall’inizio della legislatura. L’unica legge di iniziativa parlamentare approvata è stata quella che ha istituito la giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid, il 18 marzo.

Di fronte all’immobilismo delle Camere, è stato il governo a sostituire di fatto il potere legislativo. Nei primi 90 giorni, l’esecutivo ha approvato 10 decreti legge e 5 decreti legislativi. Per quanto riguarda i decreti legge, se già il Conte-2 ne aveva fatto largo uso per rispondere all’emergenza pandemica, il governo Draghi non si è fatto problemi: ha una media di 3,3 al mese. La più alta degli ultimi 10 anni, secondo i dati OpenPolis: il governo giallorosa aveva una media di 3 decreti al mese, quello di Enrico Letta di 2,78 e di Mario Monti di 2,41. Senza considerare che questa settimana ne arriveranno altri due: il nuovo dl sulle riaperture e il Sostegni bis.

Che i parlamentari ormai siano diventati solo degli “schiaccia bottoni” lo dimostra anche l’iter delle conversioni dei decreti. Le Camere sono talmente ingolfate che non c’è mai il tempo per il doppio passaggio parlamentare – almeno uno alla Camera e uno al Senato – e quindi, visti i tempi contingentati (entro 60 giorni un decreto decade), ognuno degli 8 dl convertiti è stato veramente discusso in una sola delle due Camere prima di arrivare blindato nell’altra. Senza alcuna discussione. Con l’effetto tragicomico che, per quanto riguarda i decreti Covid, quando vengono convertiti risultano già superati da un decreto successivo: il Parlamento deve ancora approvare quello del 31 marzo e del 21 aprile.

L’immobilismo del Parlamento è dovuto anche dalle divisioni di una maggioranza così ampia. E così ci sono progetti di legge che non vedono mai la luce. Il caso più noto è il ddl Zan che fa litigare Lega e Pd-M5S: è fermo in Senato da 192 giorni. Ma non è nemmeno quello che da più mesi giace nei cassetti delle commissioni. La legge sul conflitto d’interessi è ferma da 220 giorni, il voto ai 18enni per il Senato da 247 e la legge elettorale “Brescellum” da 246. Per non parlare del ddl sul processo penale su cui si è posato uno strato di polvere: per arrivare alla presentazione degli emendamenti ci sono voluti 420 giorni. In Parlamento ora sono arrivati anche il ddl sullo Ius Soli e sul fine vita. Ma, vista la malaparata, se ne riparla dalla prossima legislatura.

IlFQ

Fauci: 'Il covid si può controllare ma non eliminare'.

Antony Fauci

Dovremo continuare a vaccinare con richiamo ogni anno o anno e mezzo.

"Non credo si possa eliminare il Covid. Possiamo controllarlo..

Dovremo continuare a vaccinare con richiamo ogni anno o anno e mezzo. Ma possiamo interrompere questa pandemia, possiamo ridurre le infezioni in modo che non sia più una minaccia pubblica". Lo ha detto l'immunologo americano Anthony Fauci, intervistato da Fabio Fazio a 'Che tempo che fa'. Fauci ha ricordato che un solo agente patogeno è stato finora eradicato, quello del vaiolo.

Il vaccino anti-Covid da assumere in pillole "non è ancora una realtà", ma "ci stiamo lavorando insieme a Pfizer".

"Negli Usa stiamo vaccinando con Pfizer gli adolescenti dai 12 anni in su, e credo che il via libera alle vaccinazioni da questa età verrà dato molto presto anche in Italia e altrove, perché i dati che noi abbiamo sono molto sicuri".

Fauci ha aggiunto che comunque "bisogna evitare di dichiarare una vittoria prematura" sulla pandemia. "Non abbiamo ancora vinto questa battaglia. Ma a differenza dell'anno scorso - ha aggiunto - ora abbiamo i vaccini. Se la maggior parte della popolazione sarà vaccinata riusciremo a ridurre le misure di sicurezza". Alla domanda se vede possibile una ripresa improvvisa della pandemia che costringa a nuove chiusure, Fauci ha risposto: "C'è sempre questa possibilità se facciamo le cose che non dobbiamo fare. Ma se stiamo attenti e continuiamo a vaccinare e non togliamo le limitazioni fino a quando la stragrande maggioranza della popolazione sarà vaccinata, ne usciremo. Ma bisogna procedere a piccoli passi, non è qualcosa che si può spegnere come l'interruttore della luce".

ANSA

domenica 16 maggio 2021

Quell’asse Draghi-Renzi sui Servizi. - Gaetano Pedullà

 

A volte guarda che strane le coincidenze! Il direttore del Dis (il coordinamento dei Servizi segreti) Gennaro Vecchione informa il Copasir, cioè il Parlamento, che lo 007 Marco Mancini ha incontrato Matteo Renzi nell’autogrill di Fiano Romano senza informare i superiori, e 48 ore dopo viene licenziato anzitempo dal premier Mario Draghi. Vecchione è noto che fu voluto in quel ruolo da Giuseppe Conte, mentre Mancini è altrettanto risaputo che proprio nei giorni di quello strano incontro in autostrada, a dicembre dell’anno scorso, ambiva all’incarico di vice direttore dell’Aise (Servizi di sicurezza esterna).

Sempre in quegli stessi giorni Renzi minacciava di sfiduciare il Governo anche perché Conte – non vedendo chiaro in quei giochetti di potere in corso – si teneva stretta la delega ai Servizi. Si è trattata, dunque, di una stagione che fa poco onore a un apparato fondamentale dello Stato, e di fronte alla quale Draghi sembra che provi pure a cancellare le tracce sostituendo Vecchione con la neo direttrice Elisabetta Belloni.

Naturale che ieri l’ufficio di presidenza del Copasir abbia chiesto all’unanimità al premier di aprire un’inchiesta interna per sapere cosa si sono detti Renzi e Mancini, premesso che la storiella di consegnare dei dolci non se la beve nessuno. Se però, invece di fare chiarezza, Palazzo Chigi fa asse con lo statista di Rignano, allora scordiamoci di far luce su questo episodio, e quel che è peggio non meravigliamoci di tornare con la mente all’epoca di quei Servizi deviati che hanno accompagnato gli anni più bui della storia repubblicana.

LaNotizia

Carta straccia. - Marco Travaglio

 

Il giornalismo fantasy ci ha già dato molte soddisfazioni negli ultimi mesi del governo Conte, raccontando che il problema erano il Recovery Plan, la Ue, il Mes, la cybersecurity, i bonus a pioggia, i banchi a rotelle, le Regioni a colori, la prescrizione, l’“anima” e altre minchiate assortite. Ora però si supera con le fantacronache del cambio della guardia al Dis, il Dipartimento di Palazzo Chigi che coordina le due agenzie operative d’intelligence Aisi (sicurezza interna) e Aise (sicurezza esterna). C’è nientemeno che la telefonata virgolettata tra Draghi e Conte sull’avvicendamento Vecchione-Belloni: conversazione che conoscono solo i due protagonisti, non certo avvezzi a raccontare ai giornali quel che si dicono. E ci sono i “retroscena” del ribaltone che, in barba al dovere di trasparenza, il governo non spiega (così come per la cacciata di Arcuri, di Borrelli e di 14 membri del Cts su 26). Anziché motivare quelle legittime scelte al Parlamento e all’opinione pubblica, si fanno filtrare sui giornali amici veline più esilaranti di una barzelletta. Prima si dice che Vecchione paga la ripresa degli sbarchi dalla Libia: ma non attacca, perché il Dis non è operativo e il dossier Libia è esclusiva dell’Aise, il cui capo però resta al suo posto. Allora si fanno uscire spezzoni apocrifi dell’audizione di Vecchione al Copasir (in “seduta segreta” ah ah ah) per dipingerlo come un mezzo scemo solo perché non sa nulla dell’incontro fra il caporeparto Mancini e Renzi all’autogrill: come se la responsabilità fosse sua. Forse, per saperne di più, bisognerebbe convocare i due interessati.

Vecchione arriva al Dis nel 2018, quando Mancini è lì da tre anni, e lì lo lascia a far le pulci alle spese di Aisi e Aise, scontentando un sacco di gente e risparmiando un sacco di soldi. Mancini però vuol tornare operativo e punta, in forza dell’anzianità, alla vicedirezione Aise nel giro di nomine di fine 2020. Ma all’Aise non lo vogliono: il suo passato con Pollari e Tavaroli pesa ancora. Così Conte, a dispetto del pressing renziano, non lo promuove. Intanto Mancini cerca sponde dai due Matteo. Purtroppo un’insegnante lo riprende all’autogrill e informa Report. Ora i fantasisti di Rep sposano la tesi renziana del complotto (l’insegnante è un’emissaria di Mancini o forse di un suo nemico: massì, abbondiamo!). E tirano in ballo Gratteri, che avrebbe chiamato Renzi perché ricevesse Mancini. Come se i due – in rapporti amichevoli da quando il primo era premier, cioè da sei anni – per parlarsi avessero bisogno di Gratteri. Il quale comunque, tabulati telefonici alla mano, sfida Rep a dimostrare una sua telefonata a Renzi. Ingenuo com’è, pensa ancora che tutto ciò che si stampa su carta sia un giornale.

IlFQ



sabato 15 maggio 2021

Ieri Falcone e Borsellino, oggi Palamara: non ci sono più i magistrati di una volta? Le inchieste di FQ MillenniuM in edicola.


Il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 15 maggio, racconta la crisi di credibilità delle toghe. Di Matteo: "Se non cambiamo noi ci cambieranno altri". Gli scandali del passato e il ruolo della riforma Mastella. Che, dice Palamara, "ha aperto al carrierismo sfrenato". E alla possibilità per la politica di condizionare le nomine. "Per tenere buono il rottweiler", dice oggi Mastella. Intanto spunta il primo sindacato alternativo all'Anm, contro la logica delle correnti. Fra gli animatori, Clementina Forleo e Alfredo Robledo.

Ieri Falcone e Borsellino, oggi Palamara. Non ci sono più i magistrati di una volta? Il mensile FQ MillenniuM, diretto da Peter Gomez, nel nuovo numero in edicola da sabato 15 maggio racconta la crisi di credibilità della magistratura italiana, travolta dal caso Palamara che ha svelato intrighi, spartizioni correntizie e accordi con la politica nelle nomine ai vertici delle procure più importanti, a cominciare da quella di Roma. A questo si è poi aggiunto il caso Amara sui verbali d’interrogatorio usciti dalla Procura di Milano e recapitati in forma anonima al Fatto Quotidiano e poi a Repubblica. Un cambio di era rispetto alla lunga stagione dello scontro fra magistratura e politica, del pool antimafia di Palermo e del pool anticorruzione di Milano, delle polemiche roventi sui processi a Silvio Berlusconi?

«Bisogna rendersi conto che da troppo tempo ormai i magistrati liberi, coraggiosi e indipendenti vedono il Consiglio superiore della magisratura come un organo dal quale diffidare, fonte di possibili ritorsioni», accusa Nino Di Matteo, magistrato della procura nazionale antimafia che del Csm fa parte, in una lunga intervista al mensile. Della crisi di credibilità delle toghe ora prova ad approfittare la politica, mette in guardia il magistrato che in Sicilia ha indagato sulle stragi e sulla Trattativa: «Ci dobbiamo rendere conto che se il cambiamento non parte da noi, saranno altri a cambiare la magistratura, per limitarne l’autonomia e l’indipendenza e subordinarla al potere politico». Una tentazione che Di Matteo attribuisce a «una volontà trasversale ai vari schieramenti politici».

Ma davvero la vicenda Palamara è indice di una degenerazione, o certe pratiche ci sono sempre state, e la differenza la fa solo il software spia “trojan” inoculato dalla Procura di Perugia nello smartphone del magistrato sotto inchiesta? Da un lato, ricostruisce FQ MillenniuM, di simili intrighi è costellata la storia giudiziaria italiana, basti pensare ai magistrati iscritti alla loggia P2, al “porto delle nebbie” di Roma dove finivano per arenarsi le inchieste che toccavano il potere, fino alle manovre per sbarrare la strada a Giovanni Falcone al vertice dell’ufficio istruzione di Palermo. E, in anni più recenti, il caso P3 e i tentativi di condizionare la Corte costituzionale sul Lodo Alfano che avrebbe garantito l’immunità all’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi.

Dall’altro lato, però, negli anni una svolta c’è stata, ed è la riforma Mastella del 2007, portata avanti dal governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi. La riforma ha abolito il criterio dell’anzianità per le nomine di vertice e ha attribuito maggiori poteri al procuratore capo rispetto ai suoi sostituti. E ha finito per introdurre «il carrierismo sfrenato che porterà la magistratura a cambiare pelle», dice a FQ MillenniuM proprio Luca Palamara. I curricula dei diversi candidati spesso sono perfettamente equiparabili e allora «sul merito prevale l’appartenenza alla corrente». Nel contempo, per i politici si è aperta la possibilità di provare ad addomesticare certe procure spingendo un candidato gradito: «L’idea di responsabilizzare il procuratore, rafforzando le sue prerogative, può essere vista anche nell’ottica di individuare dei procuratori di riferimento», ammette Palamara.

In qualche modo lo ammette anche Clemente Mastella, pur rivendicando la bontà di quella rivoluzione. In quel periodo storico, ricorda al mensile, «c’era una forma di narcisismo dei magistrati, tutti volevano essere Di Pietro, perché volevano andare sui giornali». Dopo la riforma, «il procuratore capo non poteva più restare al suo posto a vita, ma gli attribuimmo un potere maggiore, così che non dovesse più sottostare al diktat di un sostituto che magari era appena arrivato e non aveva esperienza. È vero: il potere del pm da diffuso diventa gerarchico. Lo rivendico come fattore positivo». E se questo apre la strada al politico che intende “scegliere” il capo della Procura che si occupa o potrebbe occuparsi di lui o del suo partito? «C’è sempre una forma di paura dei politici, data la forza della magistratura, quindi tenti di tenerti buono il rottweiler. Però è sbagliato».

Sulla crisi di credibilità della magistratura intervengono sul mensile fra gli altri Gian Carlo Caselli, che ripercorre anche il suo rapporto con Magistratura democratica, e Luigi De Magistris, che parla di un “golpe giudiziario” ai suoi danni, che lo ha portato a lasciare la toga per darsi alla politica, fino a diventare sindaco di Napoli. La rivolta contro il sistema Palamara – o meglio, contro il sistema ben più generalizzato che le intercettazioni a Palamara hanno solo in parte messo a nudo – ha spinto alcuni colleghi a tentare un’impresa senza precedenti: la creazione di un sindacato alternativo all’Associazione nazionale magistrati, storica e solitaria rappresentanza delle toghe italiane. Ad animarlo fra gli altri Clementina Forleo e Andrea Mirenda, con l’appoggio di Alfredo Robledo. Tre magistrati che – raccontano – hanno subito attacchi e provvedimenti disciplinari anche perché sprovvisti dell’ombrello di una corrente. Il nuovo sindacato Mia (Magistrati italiani associati) conta al momento una trentina di supporter. Nello Statuto in discussione, dichiara Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, ci sarà «la rotazione degli incarichi direttivi e semidirettivi e il sorteggio dei membri del Csm, come anticorpi decisivi contro il rischio di dar vita all’ennesima corrente».

IlFQ

Berlusconi verso le dimissioni, lo conferma Licia Ronzulli.

 

Il leader azzurro ricoverato da lunedì al San Raffaele.

Silvio Berlusconi sarà dimesso presto dal San Raffaele dove è ricoverato dall'11 maggio scorso per una complicanza legata al post covid. Lo ribadisce la senatrice di Forza Italia, Licia Ronzulli, raggiunta telefonicamente. "Si va verso le dimissioni", ha detto Licia Ronzulli.

Tutto è cominciato lunedì sera, quando Berlusconi, avrebbe accusato un certo malessere che lo avrebbe spinto al ricovero al San Raffaele dove poter eseguire terapie specifiche per lenire alcuni disturbi sorti dopo il Covid.

Tre giorni dopo il ricovero sono iniziate le indiscrezioni circa un suo aggravamento, i rumors su presunti attacchi di gastrite e di difficoltà di ossigenazione del sangue. Fonti ben informate non negavano la complessità dei problemi ma assicuravano che non c'era "nessun allarme rosso, nessun pericolo di vita".

Ieri le prime notizie, non del tutto rassicuranti. "Mi ha chiamato Berlusconi, non sta benissimo ma ne uscirà", ha riferito il leader della Lega, Matteo Salvini. Nel pomeriggio notizie più confortanti sul miglioramento e le imminenti dimissioni confermate oggi dalla Ronzulli.

ANSA

Ieri lo davano aggravato, oggi pensano di dimetterlo.
Non che io abbia mai creduto alle paventate complicanze del post covid e tanto meno ad un aggravamento della sintomatologia, ho pensato, piuttosto, a qualche marachella sessuale dalla quale potrebbe esserne uscito alquanto malconcio, vista l'età avanzata, oppure alla paura di una condanna penale che, dati i suoi precedenti, non gli permetterebbe di perdurare ancora nella carica rivestita in Parlamento, anche se spesso latita da esso.
Questo essere spregevole usa il Parlamento come fosse una cosa di sua proprietà e ciò che più fa impressione è che c'è chi lo segue e lo osanna come un dio.
Poveri esseri senza senno o, peggio ancora, senza dignità.
Cetta

Pure Salvini incontrò lo 007 Mancini durante la crisi Conte. - Alessandro Mantovani e Giacomo Salvini

 

Tra le frequentazioni politiche di Marco Mancini, sempre meno saldo nel suo incarico di caporeparto al Dis, dopo il polverone sollevato dall’incontro con Matteo Renzi, c’era anche Matteo Salvini. E adesso si spiega meglio l’immediata, convinta difesa che il leader della Lega ha offerto all’altro Matteo, messo sulla graticola da Report per il curioso rendez-vous sotto Natale con il dirigente dei Servizi: “Incontrare uomini dei Servizi segreti è assolutamente normale – aveva detto Salvini – anch’io ho incontrato, e continuerò a farlo, decine di uomini dei Servizi”. Anche Mancini, sì, dicono nella Lega. Anche a dicembre, lo stesso mese del colloquio Renzi-Mancini all’autogrill di Fiano Romano, mentre iniziava la crisi del governo Conte-2 e il capo di Italia Viva attaccava l’allora presidente del Consiglio anche per la sua decisione di mantenere la delega ai Servizi, senza affidarla a un sottosegretario. In quei giorni si discuteva anche della nomina dei vicedirettori dei Servizi: Mancini aspirava a un incarico che non avrà; probabilmente cercava – e magari ottenne – l’appoggio di Renzi. Ma si capisce fino a un certo punto l’urgenza di un incontro il 23 dicembre, antivigilia di Natale, in quella particolare location autostradale, durato 40 minuti secondo la professoressa che ha assistito.

Lo stesso Salvini ha confermato a Report, in un’intervista che andrà in onda lunedì, di aver incontrato Mancini “più volte, da ministro” e sulle prime dice di averlo visto “in ufficio, al ministero, non all’autogrill”. Quando però Walter Molino di Report gli dice di avere “una fonte che dice che invece lei lo avrebbe incontrato proprio in un autogrill”, Salvini sembra meno sicuro: “Non mi sembra di averlo incontrato in autogrill”. Poi, a domanda secca: “A mia memoria non l’ho incontrato in autogrill”. Insomma, potrebbe esserselo dimenticato. Una cosa è certa, la frequentazione tra i due ha radici antiche: “Mancini – racconta Salvini – l’ho incontrato ripetutamente, lo andai a visitare per la prima volta in carcere a San Vittore quando fu arrestato ed ero consigliere comunale”. Fu arrestato due volte a giugno e a dicembre del 2006, quando Salvini era consigliere a Milano, prima per il sequestro di Abu Omar e poi per lo spionaggio alla Telecom. Il suo vecchio amico Giuliano Tavaroli, che era alla Telecom, alla fine patteggiò, mentre Mancini ne uscì prosciolto, come per il rapimento dell’imam da parte della Cia, anche perché i governi confermarono il segreto di Stato sulle attività del Sismi di Nicolò Pollari di cui faceva parte, con ruoli di crescente rilievo fino all’incarico di capodivisione operazioni.

Mancini è ancora al Dis, il Dipartimento per le informazioni e la sicurezza che coordina le agenzie operative, Aisi e Aise. Si occupa dei finanziamenti, materia delicata su cui è entrato in conflitto con alcuni ex colleghi. Gennaro Vecchione, il capo del Dis nominato da Conte, martedì scorso l’ha difeso davanti al comitato parlamentare di controllo, il Copasir. Ma non sapeva granché dell’incontro con Renzi, definito “privato”. L’audizione, che non ha soddisfatto tutti i parlamentari, non deve aver favorito la sua permanenza al Dis, infatti Draghi l’ha rimosso appena 24 ore dopo sostituendolo con una diplomatica di lungo corso come Elisabetta Belloni, che lascia l’incarico di segretaria generale della Farnesina al capo di gabinetto di Luigi Di Maio, l’ambasciatore Ettore Francesco Sequi. Era una decisione già presa, dicono a Palazzo Chigi, la cui accelerazione risale a lunedì, dunque prima dell’audizione.

Ora bisognerà vedere se il Copasir vorrà sentire anche Salvini dopo aver chiesto al Dis un’indagine interna su Mancini, anche sulla base delle rivelazioni dell’ex emissaria del cardinale Angelo Becciu, Cecilia Marogna.

Sempre ai microfoni di Report , la donna sostiene che Tavaroli avrebbe cercato di usarla contro l’allora direttore dell’Aise, il generale Luciano Carta, ma l’ipotesi non è affatto accreditata in ambienti dell’intelligence. Anche Tavaroli nega tutto. I giorni di Mancini al Dis sembrano contati, peraltro lì si occupa dei fondi riservati ed è entrato già in contrasto. Intanto gli tolgono la scorta dell’Aisi, a Palazzo Chigi sono convinti che non sia necessaria. Ne elimineranno anche altre. Ed è ricominciata la guerra per bande nei Servizi e il Copasir è in stallo da tre mesi. Perché la presidenza dovrebbe andare all’opposizione, dunque ad Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, ma il leghista Raffaele Volpi, vicino a Giancarlo Giorgetti, non la molla. A impuntarsi è stato proprio Salvini. Ora c’è il rischio che l’incontro tra i leader del centrodestra, previsto giovedì per sbloccare la situazione, non basti. Qualunque scelta sulla presidenza potrebbe essere letta come un favore o un dispetto a Salvini. E intanto il Comitato è azzoppato: due membri su dieci, Urso e il forzista Elio Vito, non partecipano. Giorgia Meloni attacca: “Così si piccona la democrazia, intervenga Mattarella”.

IlFQ