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sabato 15 maggio 2021

Ieri Falcone e Borsellino, oggi Palamara: non ci sono più i magistrati di una volta? Le inchieste di FQ MillenniuM in edicola.


Il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 15 maggio, racconta la crisi di credibilità delle toghe. Di Matteo: "Se non cambiamo noi ci cambieranno altri". Gli scandali del passato e il ruolo della riforma Mastella. Che, dice Palamara, "ha aperto al carrierismo sfrenato". E alla possibilità per la politica di condizionare le nomine. "Per tenere buono il rottweiler", dice oggi Mastella. Intanto spunta il primo sindacato alternativo all'Anm, contro la logica delle correnti. Fra gli animatori, Clementina Forleo e Alfredo Robledo.

Ieri Falcone e Borsellino, oggi Palamara. Non ci sono più i magistrati di una volta? Il mensile FQ MillenniuM, diretto da Peter Gomez, nel nuovo numero in edicola da sabato 15 maggio racconta la crisi di credibilità della magistratura italiana, travolta dal caso Palamara che ha svelato intrighi, spartizioni correntizie e accordi con la politica nelle nomine ai vertici delle procure più importanti, a cominciare da quella di Roma. A questo si è poi aggiunto il caso Amara sui verbali d’interrogatorio usciti dalla Procura di Milano e recapitati in forma anonima al Fatto Quotidiano e poi a Repubblica. Un cambio di era rispetto alla lunga stagione dello scontro fra magistratura e politica, del pool antimafia di Palermo e del pool anticorruzione di Milano, delle polemiche roventi sui processi a Silvio Berlusconi?

«Bisogna rendersi conto che da troppo tempo ormai i magistrati liberi, coraggiosi e indipendenti vedono il Consiglio superiore della magisratura come un organo dal quale diffidare, fonte di possibili ritorsioni», accusa Nino Di Matteo, magistrato della procura nazionale antimafia che del Csm fa parte, in una lunga intervista al mensile. Della crisi di credibilità delle toghe ora prova ad approfittare la politica, mette in guardia il magistrato che in Sicilia ha indagato sulle stragi e sulla Trattativa: «Ci dobbiamo rendere conto che se il cambiamento non parte da noi, saranno altri a cambiare la magistratura, per limitarne l’autonomia e l’indipendenza e subordinarla al potere politico». Una tentazione che Di Matteo attribuisce a «una volontà trasversale ai vari schieramenti politici».

Ma davvero la vicenda Palamara è indice di una degenerazione, o certe pratiche ci sono sempre state, e la differenza la fa solo il software spia “trojan” inoculato dalla Procura di Perugia nello smartphone del magistrato sotto inchiesta? Da un lato, ricostruisce FQ MillenniuM, di simili intrighi è costellata la storia giudiziaria italiana, basti pensare ai magistrati iscritti alla loggia P2, al “porto delle nebbie” di Roma dove finivano per arenarsi le inchieste che toccavano il potere, fino alle manovre per sbarrare la strada a Giovanni Falcone al vertice dell’ufficio istruzione di Palermo. E, in anni più recenti, il caso P3 e i tentativi di condizionare la Corte costituzionale sul Lodo Alfano che avrebbe garantito l’immunità all’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi.

Dall’altro lato, però, negli anni una svolta c’è stata, ed è la riforma Mastella del 2007, portata avanti dal governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi. La riforma ha abolito il criterio dell’anzianità per le nomine di vertice e ha attribuito maggiori poteri al procuratore capo rispetto ai suoi sostituti. E ha finito per introdurre «il carrierismo sfrenato che porterà la magistratura a cambiare pelle», dice a FQ MillenniuM proprio Luca Palamara. I curricula dei diversi candidati spesso sono perfettamente equiparabili e allora «sul merito prevale l’appartenenza alla corrente». Nel contempo, per i politici si è aperta la possibilità di provare ad addomesticare certe procure spingendo un candidato gradito: «L’idea di responsabilizzare il procuratore, rafforzando le sue prerogative, può essere vista anche nell’ottica di individuare dei procuratori di riferimento», ammette Palamara.

In qualche modo lo ammette anche Clemente Mastella, pur rivendicando la bontà di quella rivoluzione. In quel periodo storico, ricorda al mensile, «c’era una forma di narcisismo dei magistrati, tutti volevano essere Di Pietro, perché volevano andare sui giornali». Dopo la riforma, «il procuratore capo non poteva più restare al suo posto a vita, ma gli attribuimmo un potere maggiore, così che non dovesse più sottostare al diktat di un sostituto che magari era appena arrivato e non aveva esperienza. È vero: il potere del pm da diffuso diventa gerarchico. Lo rivendico come fattore positivo». E se questo apre la strada al politico che intende “scegliere” il capo della Procura che si occupa o potrebbe occuparsi di lui o del suo partito? «C’è sempre una forma di paura dei politici, data la forza della magistratura, quindi tenti di tenerti buono il rottweiler. Però è sbagliato».

Sulla crisi di credibilità della magistratura intervengono sul mensile fra gli altri Gian Carlo Caselli, che ripercorre anche il suo rapporto con Magistratura democratica, e Luigi De Magistris, che parla di un “golpe giudiziario” ai suoi danni, che lo ha portato a lasciare la toga per darsi alla politica, fino a diventare sindaco di Napoli. La rivolta contro il sistema Palamara – o meglio, contro il sistema ben più generalizzato che le intercettazioni a Palamara hanno solo in parte messo a nudo – ha spinto alcuni colleghi a tentare un’impresa senza precedenti: la creazione di un sindacato alternativo all’Associazione nazionale magistrati, storica e solitaria rappresentanza delle toghe italiane. Ad animarlo fra gli altri Clementina Forleo e Andrea Mirenda, con l’appoggio di Alfredo Robledo. Tre magistrati che – raccontano – hanno subito attacchi e provvedimenti disciplinari anche perché sprovvisti dell’ombrello di una corrente. Il nuovo sindacato Mia (Magistrati italiani associati) conta al momento una trentina di supporter. Nello Statuto in discussione, dichiara Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, ci sarà «la rotazione degli incarichi direttivi e semidirettivi e il sorteggio dei membri del Csm, come anticorpi decisivi contro il rischio di dar vita all’ennesima corrente».

IlFQ

mercoledì 9 ottobre 2019

Ergastolo, gli scenari dopo la sentenza: richieste di indennizzo e ricorsi. Di Matteo: “Gli stragisti mafiosi ottengono uno dei loro scopi”. Ardita: “Colpo di piccone al sistema di prevenzione”. - Giuseppe Pipitone


Risultati immagini per carcere duro 41 bis

Respingendo il ricorso dell'Italia contro la sentenza Viola, la Corte europea dei diritti umani rischia di causare un vero e proprio terremoto per l'intero sistema italiano. Il legislatore dovrà intervenire per attenuare quella norma. Nel frattempo altri 12 ergastolani hanno fatto ricorso alla Cedu. E altri condannati sono pronti a chiedere benefici e permessi: saranno i giudici a valutare caso per caso. "Ma è ovvio che ora le maglie si allargheranno", dicono fonti giudiziarie.
Loro hanno fatto le stragi per questo motivo. Adesso hanno ottenuto uno dei loro scopi principali”. Loro sono i boss di Cosa nostra, gli stragisti irriducibili seppelliti al 41 bis: Leoluca BagarellaGiuseppe Graviano, Piddu Madonia. Presto potrebbero avere diritto a un permesso premio. O in subordine a un indennizzo da parte dello Stato. E il commento alla sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti umani arriva da Nino Di Matteo, pm simbolo della lotta alle mafie, contattato da ilfattoquotidiano.it.
Una decisione epocale quella dei giudici di Strasburgo che hanno confermato la decisione emessa nel giugno scorso su Marcello Viola, boss calabrese della ‘ndrina di Taurianova. Quattro ergastoli per plurimi omicidi, occultamento di cadavere, sequestro di persona e detenzione di armi: un curriculum che in base all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario non permetteva a Viola di accedere all’assegnazione al lavoro all’esterno, ai permessi premio, e alle misure alternative alla detenzione. Una legge ideata personalmente da Giovanni Falcone nel 1991: è il cosiddetto ergastolo ostativo ed è una preclusione prevista per tutti i detenuti al carcere a vita che come il boss calabrese non hanno mai offerto alcuna collaborazione alla giustizia. Pure quella che risulta oggettivamente irrilevante alle indagini: lo stesso articolo 4 bis, infatti, i benefici carcerari possono “essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata”. Insomma: basta manifestare l’intenzione di cambiare vita per ottenere benefici carcerari, anche senza fornire informazioni inedite o utili alle indagini. Adesso, però, la storia potrebbe cambiare. “La sentenza della Cedu è un colpo di piccone alla sistema di prevenzione antimafia”, dice il magistrato Sebastiano Ardita, già tra i vertici del Dipartimento amministrazione penitenziaria e oggi membro del Csm.
Cosa dice la sentenza e cosa c’era nel papello di Riina – Respingendo il ricorso dell’Italia contro la sentenza Viola, la Cedu rischia di causare un vero e proprio terremoto per l’intero sistema italiano. Secondo Strasburgo l’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione Europea sui Diritti umani, quello che disciplina come nessuno possa “essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. I giudici, in pratica, scrivono che “lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena”. Un riesame che, come si legge nella sentenza, “permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione della pena stessa, il detenuto si sia evoluto e abbia fatto progressi tali” da non giustificare più “il suo mantenimento in detenzione”. Quel riesame, però, come detto esiste già: basta manifestare l’intenzione di collaborare con la giustizia. La Cedu, però, non la pensa così: “Pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della ‘dissociazione dall’ambiente mafioso“, scrivono i giudici di Strasburgo, sottolineano “che tale rottura può esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia” e senza l’automatismo legislativo attualmente vigente. In realtà non esistono precedenti simili. Non c’è nella storia delle associazioni criminali un esempio di boss che ha rotto con il suo clan senza collaborare con la giustizia. O meglio: era una delle richieste di Totò Riina, nel famoso papello che doveva essere recapitato allo Stato per far cessare le stragi. “Riconoscimento dei benefici dissociati per i condannati per mafia (come per le Brigate Rosse)”, era il punto cinque della lista che sarebbe stata compilata dal capo dei capi. Al punto due c’era invece “l’annullamento dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (cosiddetto carcere duro)”.
“Ergastolo chiodo fisso degli stragisti” – E infatti è proprio il papello che cita Pietro Grasso: ““La decisione di non accogliere il ricorso dell’Italia è figlia di una scarsa conoscenza del modello mafioso italiano. Non è un caso che l’abolizione dell’ergastolo fosse uno dei punti del papello di Riina per fermare le stragi. Questa legge, dura ma non incostituzionale, pone i mafiosi davanti a un bivio: essere fedeli a Cosa nostra e pagarne le conseguenze o collaborare con lo Stato e iniziare il processo di ravvedimento e rieducazione previsto dalla Costituzione. Senza di questo non si può concedere alcun beneficio”, dice l’ex presidente del Senato ed ex procuratore nazionale antimafia. “Chi conosce storicamente Cosa nostra sa bene che l’unica vera preoccupazione per i mafiosi è proprio l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici”, aveva detto Di Matteo qualche giorno fa in un’intervista al Fatto Quotidiano. “Attenuare la portata dell’ergastolo costituisce un chiodo fisso nei vertici dell’organizzazione. Molti boss stragisti condannati definitivamente all’ergastolo non hanno preso la decisione di collaborare con la giustizia proprio perché in fondo ancora sperano che in un modo o nell’altro ci sia l’eliminazione degli effetti dell’ergastolo ostativo e che possano un giorno anche loro accedere ai benefici carcerari”, ha aggiunto Di Matteo.
La corsa a Strasburgo degli ergastolani – Un’ipotesi che si è effettivamente verificata. Respingendo il ricorso dell’Italia, infatti, la Cedu ha chiesto al nostro Paese di modificare la legge sull’ergastolo ostativo. Il legislatore dovrà intervenire per attenuare quella norma: non ci sono limiti di tempo e neanche alcuna automazione. Già il 22 ottobre, però, sullo stesso tema si esprimerà la Corte costituzionale: dopo aver già dichiarato costituzionale l’ergastolo ostativo, la Consulta dovrà ora decidere su un altro ricorso, quello di Sebastiano Cannizzaro, condannato per associazione mafiosa. Ed è probabile che la decisione della Cedu influenzi anche la Consulta. La legge insomma non è ancora cambiata: da Strasburgo però è arrivato un grosso colpo a quello che era un caposaldo della lotta a mafie e terrorismo. “Da anni nelle intercettazioni ascoltiamo mafiosi che parlano dell’Europa come ultima possibilità per non morire in carcere”, dicono alcuni investigatori. E infatti, dopo la prima sentenza Viola altri 12 ergastolani hanno depositato il loro ricorso davanti alla Corte europea, seguendo l’esempio di Viola: è evidente che Strasburgo darà ragione anche a loro. Duecentocinquanta condannati, invece, hanno presentato ricorso al Comitato delle Nazioni unite, mentre la maggior parte delle 1250 persone che sottoposte all’ergastolo ostativo sono pronte a chiedere permessi e benefici. Citando ovviamente la sentenza Viola nelle loro richieste. A valutare le loro richieste saranno, caso per caso, i giudici di sorveglianza. “Ma è ovvio che le maglie adesso si allargheranno. Anche perché i detenuti ai quali viene negato un permesso potranno chiedere i danni”, fanno notare le stesse fonti al fattoquotidiano.it.
Il proclama Bagarella – Facendo un esempio estremo: il rischio imminente è che il nostro Paese si trovi a dover risarcire, anche con cifre importanti, gli ergastolani colpevoli di diritti efferati come Leoluca Bagarella o Giuseppe Graviano. “Noi detenuti stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche abbiamo iniziato una protesta civile e pacifica. Tutto ciò cesserà nel momento in cui le autorità preposte in modo attento e serio dedicheranno una più approfondita attenzione alle problematiche che questo regime carcerario impone“, era il comunicato letto da Bagarella nel 2002, collegato in videoconferenza con il tribunale che lo stava processano. Nel 2009, invece, Graviano venne chiamato a deporre al processo a Marcello Del’Utri ma si avvalse della facoltà di non rispondere, lanciando un avvertimento criptico_ “Per il momento non sono in grado di essere sottoposto a interrogatorio. Vedremo quando il mio stato di salute me lo permetterà”. Non hanno parlato Graviano e Bagarella. Non hanno raccontato nulla degli incofessabili segreti di cui sono custodi. Adesso sono tornati a sperare. Con loro molti altri.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/09/ergastolo-gli-scenari-dopo-la-sentenza-richieste-di-indennizzo-e-ricorsi-di-matteo-gli-stragisti-mafiosi-ottengono-uno-dei-loro-scopi-ardita-colpo-di-piccone-al-sistema-di-prevenzione/5504453/
L'intromissione della Corte di Strasburgo in leggi e regolamenti che riguardano situazioni particolari che si verificano in un luogo specifico è inopportuna.
Non si possono emettere giudizi su qualcosa che non si conosce. Cetta