Il termine di due anni (salve eccezioni) per la fase di appello, dopo i quali scatta l’improcedibilità, significa far prescrivere (o meglio dichiarare improcedibili, ma l’effetto è lo stesso) quasi tutti i processi in cui sia proposto appello. Infatti, poiché i nuovi processi che arriveranno in appello andranno in coda a quelli pendenti (salvo quelli con imputati detenuti), per quasi tutti scatterà l’improcedibilità. Sostanzialmente si avranno gli effetti di un’amnistia senza neppure i benefici che le amnistie avevano di eliminare i processi.
In un precedente articolo (pubblicato sul Fatto Quotidiano del 10 giugno 2021 con il titolo “La perversione della prescrizione”) citavo la relazione della Commissione ministeriale di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale che affermava: “La Commissione muove dalla premessa che lentezza del processo e prescrizione del reato sono due problemi diversi, che si alimentano reciprocamente. Processi lenti favoriscono la prescrizione; la prospettiva della prescrizione favorisce processi lenti”. La stessa Commissione rilevava che, a oggi, l’arretrato delle Corti d’appello è pari al doppio dei processi definiti ogni anno, sicché tali Corti impiegherebbero due anni solo a smaltire l’arretrato se non arrivasse loro più nessun processo. Questa, essendo la situazione (non secondo me, ma secondo la Commissione ministeriale) prevedere, come sembra voler fare il disegno di legge di iniziativa governativa, un termine di due anni (salve eccezioni) per la fase di appello, dopo i quali scatta l’improcedibilità, significa far prescrivere (o meglio dichiarare improcedibili, ma l’effetto è lo stesso) quasi tutti i processi in cui sia proposto appello.
Infatti, poiché i nuovi processi che arriveranno in appello andranno in coda a quelli pendenti (salvo quelli con imputati detenuti), per quasi tutti scatterà l’improcedibilità. Sostanzialmente si avranno gli effetti di un’amnistia senza neppure i benefici che le amnistie avevano di eliminare i processi, perché comunque dovranno essere celebrati tutti i giudizi di primo grado.
In un precedente articolo (pubblicato sempre su questa testata il 3 giugno 2021 con il titolo “Non sono riforme, ma cure palliative”) ricordavo che la stessa Commissione aveva scritto: “È noto da sempre che la chiave del successo di un impianto accusatorio è rappresentata da un efficace compendio di riti alternativi, in grado di assorbire un’elevata percentuale di procedimenti, per riservare il dibattimento, articolato e ricco di garanzie, a un numero circoscritto di casi. È altrettanto noto che questa previsione – espressamente formulata dal legislatore del 1988 – è quella risultata maggiormente inattuata negli oltre trent’anni di applicazione del nuovo codice di procedura penale, nonostante i numerosi interventi che hanno tentato di potenziare l’appetibilità dei procedimenti speciali”. Proprio per incentivare i riti alternativi era stato cambiato l’art. 79 della Costituzione (con legge costituzionale 6 marzo 1992, n.1) prevedendo per le leggi di amnistia e indulto la maggioranza dei due terzi. Era ed è evidente che un imputato sceglierà di “patteggiare” solo se gli conviene, altrimenti no. Se, aspettando, arrivava l’amnistia o l’indulto (in media nei 50 anni precedenti l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988 i provvedimenti di quel tipo si erano susseguiti al ritmo di uno ogni anno e mezzo) nessuno patteggia, perché nessuna pena è sempre preferibile a una pena ridotta. Ma una improcedibilità generalizzata in Appello otterrà gli stessi effetti di disincentivare i riti alternativi con la conseguente impossibilità di far funzionare il processo accusatorio. Se approvata, questa riforma ci esporrà a rilievi dell’Unione europea, già desumibili da pronunzie della Corte di Giustizia.
Perché una scelta in plateale contrasto con i presupposti stessi da cui la Commissione muove? Forse si pensa a una normativa transitoria che renda applicabili le nuove disposizioni solo dopo la drastica riduzione delle pendenze in Appello (come del resto già suggerito dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati). Può anche darsi che, essendovi una larga maggioranza, si pensi a un’amnistia per azzerare la pendenza delle Corti d’appello. Così però si radicherà ancora di più l’idea che chi non cerca di guadagnare tempo è uno sciocco e quindi si affosserà definitivamente le possibilità di funzionamento del processo penale.
In ogni caso, un’eventuale amnistia e il rinvio dell’entrata in vigore di queste disposizioni presuppongono l’idea che nel frattempo vi sia un forte calo delle impugnazioni, in modo da ridurre la pendenza delle Corti d’appello. Allo stato, però, questa rimane un’illusione, dal momento che le proposte di modifica dell’Appello non sembrano tali da ridurre in modo considerevole il numero degli atti di Appello. Forse la reale spiegazione può essere ricercata nella convinzione (ovviamente non dichiarabile) della classe dirigente che l’Italia non possa reggere una giustizia seria, cioè – in altri termini – che non possa essere un Paese serio. Credo invece che questo nostro Paese sia anche pieno di persone perbene, che rispettano la legge e che prima o poi potrebbero pure seccarsi di vedere che chi invece le leggi le viola se la cava quasi sempre.
ILFQ