Milano – Quando tutto è cominciato, a febbraio di quest’anno, Paolo Scaroni aveva tagliato corto con queste parole: “Le agitazioni politiche nei Paesi del Nordafrica non avranno alcun impatto su Eni”. Troppo presto. Troppo facile. Certo, in quel momento solo le solite Cassandre ammonivano sul rischio che la rivolta libica si trasformasse in una vera e propria crisi internazionale. Fatto sta che ieri Scaroni è stato costretto a fare marcia indietro. “Il primo semestre del 2011 – ha spiegato agli analisti il numero uno dell’Eni – ha sofferto della mancata produzione in Libia che ha avuto un impatto su tutti i nostri settori d’attività”. Ecco spiegato, allora, il calo del 6 per cento (a 3,8 miliardi di euro) dei profitti del gruppo nei primi sei mesi dell’anno. E l’effetto Gheddafi si è fatto sentire soprattutto da aprile a giugno, quando la rivolta è diventata una guerra. In quel trimestre la produzione è calata addirittura del 15 per cento, con profitti in diminuzione del 30 per cento circa.
Tutte le attività libiche del cane a sei zampe sono stati chiuse causa guerra e di conseguenza è venuta a mancare una produzione equivalente a 280 mila barili al giorno, tra petrolio e gas naturale. Scaroni assicura che non appena cesseranno le ostilità tutto riprenderà come prima, perché gli impianti non hanno subito danni. Vero, ma tutto dipende, appunto, dalla durata della guerra. Un mese, tre mesi, un semestre intero, o addirittura un anno? Alla lunga le crepe nel bilancio dell’Eni rischiano di allargarsi, anche per i costi supplementari legati alla ricerca di fonti di approvvigionamento che sostituiscano il gas libico.
Per il momento Eni conferma risultati “solidi” per il 2011 e annuncia un acconto di 0,52 euro per azione sul dividendo. Del resto il primo a soffrire per un ipotetico futuro taglio della cedola sarebbe proprio il governo di Roma che direttamente e attraverso la Cassa depositi e prestiti controlla il 30 per cento dell’Eni.
Con i tempi che corrono non è proprio il caso di rinunciare a centinaia di milioni di incassi sotto forma di dividendi. Anche perché di questi tempi un’altra grande azienda di Stato naviga in acque agitate e il vento di guerra che spira dalla Libia contribuisce a complicare le cose.
I guai questa volta riguardano Finmeccanica, che nelle ultime due sedute di Borsa è arrivata a perdere un quarto del proprio valore. Colpa dei risultati deludenti del primo semestre e delle previsioni negative per l’immediato futuro. Tra le aree di sofferenza c’è anche la Libia dove il gruppo che produce, tra l’altro, armi e sistemi elettronici, l’anno scorso aveva siglato nuovi contratti. A cominciare da quello per la fornitura di tecnologia e macchinari in campo ferroviario del valore di circa 250 milioni. “I ricavi cominciano a calare per il mancato apporto di importanti commesse” in Libia, si legge nella relazione semestrale appena pubblicata da Finmeccanica. Tra gennaio e giugno il gruppo è arrivato all’utile di fatto solo grazie a proventi straordinari e tra gli analisti c’è chi prevede un bilancio in rosso per fine anno. Si trovano in difficoltà settori strategici del gruppo come quello ferroviario e (un po’ meno) quello aeronautico. E adesso la crisi libica crea guai supplementari. Anche in questo caso il governo di Roma, che possiede il 30 per cento di Finmeccanica, rischia di perdere risorse preziose. Con l’ultimo dividendo, distribuito a maggio, l’azionista pubblico ha incassato una cedola di 70 milioni, cedola che alla luce dei risultati semestrali appare quantomeno incerta.
Del resto in questo momento è difficile fare previsioni sull’evoluzione della situazione in Libia. La strategia delle bombe non ha fin qui portato risultati tangibili. La guerra tra Gheddafi e i rivoltosi non sembra ancora vicina a una svolta. Così anche un altro grande investitore come il colosso delle costruzioni Impregilo, controllato dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti, è per il momento costretto a rinunciare alle ricche commesse siglate di recente, quando Berlusconi filava d’amore e d’accordo con Gheddafi. Appalti importanti, valore oltre un miliardo, per la costruzione di strade, università, una conference hall a Tripoli. Tutto rinviato a chissà quando. Perché la guerra continua. E i conti sono sempre più in rosso.
Solo pochi giorni fa il Parlamento ha votato il rifinanziamento dell’impegno militare italiano a sostegno delle milizie anti Gheddafi. Fanno 58 milioni per tre mesi carico degli italiani, sotto forma di nuove tasse o tagli ai servizi.
Tutte le attività libiche del cane a sei zampe sono stati chiuse causa guerra e di conseguenza è venuta a mancare una produzione equivalente a 280 mila barili al giorno, tra petrolio e gas naturale. Scaroni assicura che non appena cesseranno le ostilità tutto riprenderà come prima, perché gli impianti non hanno subito danni. Vero, ma tutto dipende, appunto, dalla durata della guerra. Un mese, tre mesi, un semestre intero, o addirittura un anno? Alla lunga le crepe nel bilancio dell’Eni rischiano di allargarsi, anche per i costi supplementari legati alla ricerca di fonti di approvvigionamento che sostituiscano il gas libico.
Per il momento Eni conferma risultati “solidi” per il 2011 e annuncia un acconto di 0,52 euro per azione sul dividendo. Del resto il primo a soffrire per un ipotetico futuro taglio della cedola sarebbe proprio il governo di Roma che direttamente e attraverso la Cassa depositi e prestiti controlla il 30 per cento dell’Eni.
Con i tempi che corrono non è proprio il caso di rinunciare a centinaia di milioni di incassi sotto forma di dividendi. Anche perché di questi tempi un’altra grande azienda di Stato naviga in acque agitate e il vento di guerra che spira dalla Libia contribuisce a complicare le cose.
I guai questa volta riguardano Finmeccanica, che nelle ultime due sedute di Borsa è arrivata a perdere un quarto del proprio valore. Colpa dei risultati deludenti del primo semestre e delle previsioni negative per l’immediato futuro. Tra le aree di sofferenza c’è anche la Libia dove il gruppo che produce, tra l’altro, armi e sistemi elettronici, l’anno scorso aveva siglato nuovi contratti. A cominciare da quello per la fornitura di tecnologia e macchinari in campo ferroviario del valore di circa 250 milioni. “I ricavi cominciano a calare per il mancato apporto di importanti commesse” in Libia, si legge nella relazione semestrale appena pubblicata da Finmeccanica. Tra gennaio e giugno il gruppo è arrivato all’utile di fatto solo grazie a proventi straordinari e tra gli analisti c’è chi prevede un bilancio in rosso per fine anno. Si trovano in difficoltà settori strategici del gruppo come quello ferroviario e (un po’ meno) quello aeronautico. E adesso la crisi libica crea guai supplementari. Anche in questo caso il governo di Roma, che possiede il 30 per cento di Finmeccanica, rischia di perdere risorse preziose. Con l’ultimo dividendo, distribuito a maggio, l’azionista pubblico ha incassato una cedola di 70 milioni, cedola che alla luce dei risultati semestrali appare quantomeno incerta.
Del resto in questo momento è difficile fare previsioni sull’evoluzione della situazione in Libia. La strategia delle bombe non ha fin qui portato risultati tangibili. La guerra tra Gheddafi e i rivoltosi non sembra ancora vicina a una svolta. Così anche un altro grande investitore come il colosso delle costruzioni Impregilo, controllato dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti, è per il momento costretto a rinunciare alle ricche commesse siglate di recente, quando Berlusconi filava d’amore e d’accordo con Gheddafi. Appalti importanti, valore oltre un miliardo, per la costruzione di strade, università, una conference hall a Tripoli. Tutto rinviato a chissà quando. Perché la guerra continua. E i conti sono sempre più in rosso.
Solo pochi giorni fa il Parlamento ha votato il rifinanziamento dell’impegno militare italiano a sostegno delle milizie anti Gheddafi. Fanno 58 milioni per tre mesi carico degli italiani, sotto forma di nuove tasse o tagli ai servizi.
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