Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
giovedì 6 dicembre 2012
Da Presidente a Monarca. - Franco Cordero
Qualche telefonata di troppo. Una procura dall’orecchio attento. L’ordine di distruggere i nastri. Magistrati accusati di ordire un colpo di Stato. Sofismi e argomenti tautologici e infondati. Uno scontro tra magistratura e capo dello Stato senza precedenti nella storia della Repubblica. Una vicenda (e una sentenza) che stravolge la nostra democrazia, nell’analisi lucida e imparziale di uno dei più grandi giuristi.
1. La storia comincia da una gaffe. Teme gl’indaganti l’ex ministro N.M., testimone su affari oscuri tra Stato e mafia: quindi spera che il procedimento passi in sedi meno ostiche; e volendo anche schivare un antipatico confronto, manda appelli al Quirinale. La risposta corretta sarebbe: «nihil de hoc». Il presidente non è organo censorio d’atti giudiziari, quali erano i monarchi francesi, forti del residuo d’un originario carisma giurisdizionale («justice retenue»), estinto nel collasso dell’ancien régime. Nemmeno Sua Maestà Carlo Alberto, sovrano bigotto costretto alla riforma costituzionale (5 febbraio 1848), oserebbe mettere becco nei processi brandendo una formula statutaria (art. 68: «La giustizia emana dal re»), ma 164 anni dopo, da Monte Cavallo spirano arie rétro. Anziché declinare l’improponibile argomento, il consigliere all’altro capo del filo sta al gioco: corrono dialoghi solidali; e siccome N.M. era sottoposto a controllo telefonico, ogni sillaba va nei nastri. Otto colloqui, dal 25 novembre 2011 al 5 aprile 2012. Spigoliamo qualche punto. L’altissima persona «s’è presa la questione a cuore» (24 febbraio). «Non vediamo molti spazi, purtroppo», e quanto al temibile confronto, affiora l’idea d’una versione concertata (12 marzo). «È orientato a fare qualcosa» (3 aprile). L’assillante manda una memoria, trasmessa dal Quirinale al procuratore generale della Cassazione affinché gli uffici lavorino «coordinati»: «Lui sa tutto»; «voglio che» quella «lettera sia inviata… con la mia condivisione» (5 aprile»). La procura palermitana era in regola, sicché le indagini proseguono lì, chiuse dalla richiesta d’un rinvio a giudizio: l’ex ministro vi compare ai margini quale falso testimone; l’udienza preliminare dirà se esista materia d’accusa e relativo dibattimento. Nastri e testi degli otto colloqui stanno agli atti. Segreti, invece, i quattro in cui parla l’Homo in fabula, irrilevanti, secondo il pubblico ministero, quindi obliterabili, nel senso d’una distruzione fisica: disporla spetta al giudice che ha ordinato la misura investigativa; ed è materia soggetta al contraddittorio (art. 269, c. 2), incluso il ricorso in Cassazione. No, afferma il presidente: l’ascolto ledeva una sua prerogativa; l’empio materiale sia subito distrutto; nessuno lo veda o ascolti. Gli fanno eco varie platee (intrusione «eversiva», s’è persino detto). Tali i petita davanti alla Consulta.
2. Niente da obiettare sugli otto dialoghi in cui interloquiva il consigliere; ed è particolare curioso: se l’immunità esistesse, vi sarebbe incluso l’intero staff, rispetto agli atti d’ufficio. L.D’A. svelava dei retroscena, in chiave veridica, stando alla lettera 19 luglio direttagli dal presidente (sette giorni dopo, il destinatario muore), resa pubblica nell’arringa 15 ottobre alla scuola dei magistrati. Che quel soccorso esorbitasse dalle funzioni, è rilievo ovvio ma la domanda proposta alla Corte sarebbe infondata quando anche allargassimo il concetto della funzione a tali scambi verbali (ipotesi temeraria). Nessuna delle due norme invocate dal ricorrente risulta applicabile alla fattispecie. Art. 90 cost.: Il Presidente non risponde degli atti compiuti en titre, esclusi alto tradimento e attentato alla Costituzione; ebbene? Nessuno gli muove accuse. Stiamo discutendo l’uso processuale del dialogo con persone sottoposte a controllo telefonico: argomenti diversi; confonderli è il sofisma che i dottori chiamavano «ignoratio elenchi», ossia «prouver autre chose que ce qui est en question» (Logique de Port-Royal, 1683, Parte III, Cap. I, § 1), espediente consueto nelle dispute viziose (vedi gli stratagemmi 1-3 dei trentotto esposti nella schopenhaueriana Arte d’ottenere ragione). Dove sta scritto che siano adoperabili in sede investigativa o istruttoria le sole parole implicanti una responsabilità? Né interessa l’art. 7, c. 3, l. 5 giugno 1989 n. 219: l’intercettazione può essere disposta solo quando versi in stato d’accusa, votato dal parlamento, e la Corte l’abbia sospeso dalla carica; nihil sequitur perché l’intercettato era N.M. L’inquirente sorveglia i canali attraverso cui comunica l’imputato virtuale o effettivo: i collocutori sono incogniti nel momento in cui il provvedimento è emesso, più o meno identificabili poi; nessuno immaginava che nel fiume vocale captato (9.295 pièces) quattro volte risuonasse l’augusta voce; ed è assurdo pretendere operatori fulminei nell’interrompere l’ascolto, quasi fosse nefas. Roba da fiaba o rituali primitivi (ormai lavorano le macchine, senza intervento umano). Col permesso del giudice l’indagante controlla gli apparecchi d’un tale: il sèguito è futuribile; forse restano muti o vi passano mille voci; quali, quante, se utili o no, consterà post auditum.
3. Discorso chiuso, tra interlocutori fedeli alla sintassi: l’immunità processuale non fiorisce spontaneamente; esiste in quanto una norma la regoli; e non se ne vede il più pallido segno. I soli due testi addotti dicono tutt’altro. Siamo alle prese con una tautologia del tipo: «P non morrà mai»; «dimmi perché», «ovvio, gl’immortali non muoiono». Il ricorso postula un presidente la cui persona sia «sacra e inviolabile», qual era Carlo Alberto (art. 4 dello Statuto), quindi indenne da ogni servitus iustitiae, ma non è più tempo d’arie mistiche e re taumaturghi. Siamo in Italia, anno Domini 2012: vige una Carta votata dalla Costituente lunedì 22 dicembre 1947; perso ogni connotato monarchico, il presidente assume un’identità laica, da commis de l’Etat. Chi osi definirsi «sacro e inviolabile» riscuote lievi sorrisi. Ricordiamo però un incidente, quando Camere servizievoli lavoravano pro domino Berluscone, tirando in ballo ex aequo il capo dello Stato. L’obiettivo era renderli immuni da qualunque processo (salvo i due casi previsti dall’art. 90 cost.), finché durino in carica; e l’Uomo del Colle segnalava «profonde perplessità»: tale regime affievolirebbe uno status del quale afferma d’essere già investito (nota 22 ottobre 2009). Nossignore, non esiste l’asserita prerogativa. Se ne convinca consultando i precedenti, su fino ai lavori preparatori della Costituente: a parte gli atti coperti dalla funzione (spetta al giudice stabilire se ricorra tale caso), è justiciable come lo siamo tutti; e non chiamiamola lacuna rimediabile dall’interprete; i costituenti compivano una scelta d’alto valore etico, imposta dal principio capitale d’eguaglianza davanti alla legge. Quanto pesante anacronismo rintocca nel coro monarcofilo.
4. Ripetiamolo, è incongruo volo nel passato remoto pretendere che, udita la Voce, gl’inquirenti rompano l’ascolto mandando subito in cenere i materiali sacrileghi. A parte ogni questione ideologica, l’assunto ignora norme positive. L’art. 271, c. 3, vieta la distruzione del reperto fonico costituente corpo del reato (ad esempio, parole d’estorsore o mandato a uccidere, magari allusivo: «Chi mi libera da quel maledetto oppositore?; vedi Enrico II Plantageneto contro Thomas Becket, o Mussolini sul conto del pericoloso Giacomo Matteotti). Idem è arguibile quando disco o nastro costituiscano notitia criminis. Infine, l’art. 269 subordina la distruzione dei reperti irrilevanti al vaglio camerale, nel contraddittorio degl’interessati: operata segretamente sarebbe illegale; né sono pensabili varianti contro l’art. 111 cost., cc. 2 e 4. Può darsi che i materiali de quibus siano prove importanti, nel giudizio in atto o altrove, perciò gl’interessati devono potervi interloquire. Ad esempio, Alfred Dreyfus sconta l’ergastolo nell’Isola del Diavolo: l’accusavano d’avere venduto segreti militari; ed emergono cose enormi dal dialogo d’una altissima persona col sottoposto ad ascolto telefonico; il galeotto è innocente; i felloni erano gli autori delle false prove d’accusa. Lasciamo le cose come stavano «a tutela della riservatezza», mandando al diavolo nell’omonima isola verità storica e giustizia? Semmai, l’attuale disciplina appare perfettibile: non è detto che quel giudice sia infallibile; la critica delle decisioni avviene in Appello e Cassazione; gli artt. 268, c. 2, e 271, c. 3, tagliano il contraddittorio escludendo un secondo grado (valgono le norme sui procedimenti camerali); ed eseguita la decisione distruttiva, l’ipotetico errore emerso nel sèguito del processo forse risulta irrimediabile.
5. Tiriamo le somme: il ricorrente postula un’immunità della quale non esiste l’ombra nelle fonti; e vìola l’art. 111 cost. la pretesa d’annientamento occulto della possibile prova, né vista né udita dagl’interessati; bel salto indietro, nella cupa gnoseologia inquisitoria. Viene in mente un quesito teologal-filosofico (in logica novecentesca liquidabile come mal formulato): se l’Onnipotente lo sia al punto d’evocare un triangolo i cui angoli, sommati, non diano 180° (nello spazio euclideo, beninteso: tolto il quinto postulato, niente glielo impedisce). Sì, risponde Cartesio; Spinoza lo nega. Ora, chi dica fondato nelle norme vigenti (Carta inclusa) quel ricorso, postula l’equivalente giuridico d’un triangolo dagli angoli abnormi, fermo restando il quinto postulato: l’incenerimento occulto dei nastri su cui pesa il tabù, presuppone un mondo diverso dall’attuale, dove non viga l’art. 111 cost., cc. 2 e 4; se l’impresa le riesce senza evadere dal sistema qual è, la Corte risulta più potente del Dio pensato da Baruch Spinoza.
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