Uno dei temi che, in questi anni, ha dominato il dibattito sulle riforme è quello della semplificazione. Il nostro sistema politico, costituzionale, legislativo, amministrativo, burocratico – si dice – è troppo complicato. Occorre introdurre riforme che semplifichino.
Il tema ha una sua forza evocativa. Viviamo in un sistema viziato da duplicazioni, contraddizioni, irragionevolezze ed è difficile rimanere insensibili alle sirene di una parola come “semplificazione”, sebbene abbia risvolti demagogici (valga per tutti Calderoli che, da ministro, incendia una catasta di vecchie leggi) e ideologici (le regole intese come pericolosi limiti alla libertà naturale dell’uomo) piuttosto evidenti.
Ieri si diceva: semplifichiamo il tipo di Stato, avvicinando le istituzioni ai cittadini tramite il federalismo. Com’è andata a finire? Lasciamo perdere gli scandali; limitiamoci agli effetti istituzionali del nuovo Titolo V. Ha semplificato o complicato il sistema? Un dato vale più di molti discorsi: nel 2001, l’anno della riforma, il contenzioso tra Stato e regioni aveva originato trentatré questioni di costituzionalità; due anni dopo le contese erano salite a cinquantasette; nel 2013 erano giunte a centoquarantanove. Ancora oggi siamo ben oltre i dati del 2000. Ciò che prima era un contenzioso fisiologico, nel quadro di un riparto di competenze sostanzialmente chiaro, è diventato il patologico strumento attraverso cui chiarire chi fa cosa, in un quadro d’incertezza senza pari.
Oggi di dice: semplifichiamo la forma di governo, eliminando quell’inutile istituto che è il bicameralismo perfetto. Riduciamo le competenze del Senato – è l’argomento – e l’intero sistema ne trarrà beneficio: niente più complicazioni derivanti dalla doppia lettura, niente più rischio di incontrollati “rimbalzi” da una Camera all’altra, niente più ritardi nei processi decisionali. Si potrebbe replicare, dati alla mano, che la duplicazione del procedimento è l’eccezione, non la regola: normalmente, la seconda Camera si limita a ratificare in tempi ragionevoli le decisioni della prima. E poi, mentre una Camera lavora su un progetto di legge, non è che l’altra stia lì a far niente: nel medesimo frangente lavora su un diverso progetto e ciò assicura un’accelerazione, non un rallentamento, dei tempi (non è un sofisticato ragionamento di diritto costituzionale, così come non serve un idraulico per capire che due tubi scaricano l’acqua più in fretta di uno).
Ma, prendiamo sul serio la sfida dei riformatori e andiamo a verificare come immaginano di semplificare il sistema.
L’articolo 70 della Costituzione in vigore è lapidario: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Nove parole, comprensibili da chiunque. La versione “semplificata” del nuovo testo costituzionale non è agevolmente riproducibile: ammonta a 432 parole (più o meno quante ne sono servite per arrivare fino a qui). Sorvoliamo: in fondo non è detto che quantità e qualità vadano di pari passo.
Ma, che dire dell’abuso dei rimandi interni? In molti casi, nel disciplinare la procedura di adozione di determinate leggi, anziché, per esempio, “le leggi in materia di autorizzazione alla ratifica dei trattati europei” è scritto: “le leggi di cui all’articolo 80, secondo periodo”, come se chiunque potesse agevolmente cogliere il rinvio. Si tratta di una tecnica sconsigliata da tutti i manuali di legistica, che i costituenti avevano accuratamente evitato di utilizzare. Ne va della comprensibilità del testo. La Costituzione – si diceva – non è un regolamento di condominio; tutti devono poterla leggere e capire con facilità. Del nuovo articolo 70 non si riesce nemmeno ad arrivare al primo punto fermo senza riprendere fiato, figurarsi dare un senso alla decina di rimandi che contiene. Ma, sorvoliamo ancora: magari la nuova regola è scritta male, però poi, all’atto pratico, prevede una procedura che effettivamente semplifica l’attuale bicameralismo perfetto.
Vediamone, allora, il contenuto.
Se passasse la riforma, non avremmo più un solo procedimento legislativo, ma occorrerebbe distinguere tra:
- leggi approvate, come oggi, da entrambe le Camere;
- leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori trenta giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera;
- leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori dieci giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera;
- leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare a maggioranza assoluta, entro ulteriori dieci giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera sempre a maggioranza assoluta;
- leggi approvate solo dalla Camera a maggioranza assoluta, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori quindici giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera.
Semplificazione? Da un solo procedimento, si passerebbe a cinque. E, in quasi tutti, le possibili letture parlamentari salirebbero da due a tre.
Non sembra difficile, inoltre, immaginare una nuova ondata di contenzioso costituzionale, questa volta tra Camera e Senato, in ordine al tipo di procedimento da seguire nei diversi casi (in proposito, il nuovo articolo 70 si limita a prevedere che i presidenti delle Camere decidono, di comune intesa, sui conflitti di competenza: ma, chi assicura che l’intesa sia effettivamente raggiunta?).
Vien da dire che avesse già capito tutto Montesquieu, quando scriveva che “nel momento in cui un uomo si fa signore assoluto, pensa innanzi tutto a semplificare le leggi” (Esprit des Lois, VI, II).
(*) Francesco Pallante fa parte del Consiglio di Direzione di Libertà e Giustizia
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